Archive for the ‘Economia – Lavoro’ Category

Stangata sulle tariffe telefoniche, per i clienti aumenti da 2-3 euro al mese

lunedì, Aprile 3rd, 2023

Sandra Riccio

Non ci sono soltanto i rincari di bollette e alimentari a pesare sui bilanci delle famiglie. Adesso a incidere è anche la telefonia. Con l’inflazione ancora alta, infatti, alcuni operatori hanno inaugurato il 2023 incrementando i costi per i già clienti. A colpi di uno, due euro alla volta hanno alzato i prezzi. C’è però anche un’altra grande novità che riguarda il settore e che fa discutere: con il nuovo anno alcuni gestori hanno introdotto nuove tariffe che sono indicizzate all’inflazione. Vuol dire che i prezzi salgono se il caro vita aumenta. Al contrario, non è invece previsto un meccanismo di ribasso nel caso di inflazione in discesa. In più la nuova formula non darebbe la possibilità di esercitare il diritto di recesso.

E’ quanto emerge dall’analisi effettuata dall’Osservatorio Tariffe di SOStariffe.it e Segugio.it che ha fotografato nel dettaglio i nuovi trend del settore della telefonia.

Per quanto riguarda gli aumenti emerge che per la telefonia mobile i rialzi sono arrivati da Tim (2 euro in più al mese per alcuni clienti) e WindTre (2 euro in più al mese) oltre che da PosteMobile (un euro in più). Per la telefonia fissa, le rimodulazioni al rialzo sono state introdotte per i clienti Fastweb (fino a 5 euro in più al mese), Tim (+2 euro al mese) e Vodafone (1,99 euro in più).

L’analisi si concentra sulla novità delle tariffe indicizzate all’inflazione. Al momento sono applicate soltanto da WindTre e Tim, ma presto le tariffe indicizzate potrebbero diventare la regola. Come avvenne qualche anno fa con i rinnovi ogni quattro settimane e non ogni mese, altri operatori potrebbero seguire la stessa strada. La nuova formula vale sia per i già clienti sia per i nuovi e sia su rete fissa sia su mobile.

In sostanza, le tariffe indicizzate all’inflazione prevedono un aggiornamento annuale del canone mensile che segue l’evoluzione dell’inflazione. L’incremento non rappresenta una rimodulazione tariffaria e non darebbe, quindi, la possibilità di esercitare il diritto di recesso, al contrario l’adeguamento all’inflazione, per come definito da queste tariffe, sarebbe parte integrante delle condizioni contrattuali.

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La faccia tosta di Conte: il primo responsabile dei ritardi del Pnrr fu lui

domenica, Aprile 2nd, 2023

Lorenzo Grossi

Verrebbe quasi voglia di rispondergli con un secco “No, grazie”, ma poi si rischierebbe di far cadere il (buon) senso istituzionale di responsabilità. Fatto sta che Giuseppe Conte ha dimostrato tutta la sua faccia tosta con la sua disponibilità a “sedersi a un tavolo” per “dare il proprio contributo nell’interesse comune” sulle criticità del Pnrr emerse tanto a Bruxelles quanto a Roma. Il leader del Movimento 5 Stelle ha parlato di una “mano tesa al Paese intero”, senza lesinare forti accenti propagandistici. La tendenza che è emersa dalle parole dell’ex presidente del Consiglio, infatti, non trascura tentativi strumentalizzazionI contro la maggioranza quando si indica la volontà di “rimediare ai ritardi collezionati in questi mesi e agli errori sin qui commessi”. Peccato che il Piano fosse già sbagliato in origine. Ed era stato incardinato (guarda caso) da Conte medesimo.

Che cosa non torna nel ragionamento di Conte

Insomma, il tentativo di Giuseppi è chiaro: far finta di volere aiutare il governo nella ristrutturazione del Pnrr ma, al tempo stesso, imputargli tutte le responsabilità e i ritardi del caso. La proposta di Conte è stata comunque accolta e apprezzata dal centrodestra, che ha dimostrato in questo frangente tutta la propria superiorità istituzionale davanti all’ipocrisia del gesto. Tuttavia l’intenzione della maggioranza è quella di non prestare il fianco a polemiche e “scaricabarile”. Lo ha chiarito in maniera netta il nuovo capogruppo alla Camera di Forza Italia, Paolo Barelli, il quale ha sottolineato che non c’è alcuna difficoltà “ad accogliere la proposta di Conte per un tavolo sul Pnrr che ci veda tutti assieme”, avvertendo però che “deve essere un tavolo informativo e partecipativo, che tenga conto della realtà e soprattutto non strumentale a creare polemiche“.

La verità sul Pnrr e sui ritardi dell’Italia

Anche perché Conte ha voluto anche dettare “due precondizioni a Giorgia Meloni”: “La prima è una grande operazione di trasparenza, assolutamente necessaria a individuare cosa non sta funzionando e dove occorre intervenire. La seconda è l’ascolto delle proposte del M5S e delle altre forze politiche, anche di opposizione, che vorranno offrire il proprio contributo”. A parte il fatto che l‘operazione trasparenza, in realtà, è già in atto: il governo l’ha avviata immediatamente e rilanciata con estrema forza nel momento stesso in cui con l’Unione Europea ha concordato un ulteriore mese di verifica sulla terza tranche di fondi. Ma quello che rimane politicamente inaccettabile è lo sgambetto mediatico del presidente dei 5 Stelle di fare passare non solo l’attuale esecutivo come responsabile delle difficoltà, ma anche se stesso come salvatore della patria. “Vedrete, di questo passo mi accuseranno di aver portato troppi soldi in Italia per nascondere l’imbarazzo di non riuscire a spenderli…”, ha replicato ironicamente ai cronisti.

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L’allarme di De Guindos (Bce): “Il sistema bancario è solido, ma stanno aumentando rischi e incertezze”

sabato, Aprile 1st, 2023

dal nostro inviato Fabrizio Goria

CENOBBIO. Non è il 2008. È netto il messaggio di Luis de Guindos, vice presidente della Banca centrale europea (Bce), che dalle sponde del Lago di Como spiega come il sistema bancario dell’eurozona sia solido e resiliente. Parole rassicuranti per la platea del workshop The European House – Ambrosetti. La liquidità non è un problema, dice, e ci sono tutti gli strumenti necessari per fronteggiare le emergenze. Sedersi sugli allori, tuttavia, non è possibile. L’incertezza era elevata. E gli ultimi eventi l’hanno amplificata. Eventi che potrebbero «ostacolare la trasmissione della nostra politica monetaria». L’attenzione deve essere massima, dice De Guindos.

«La stabilità finanziaria è essenziale per l’obiettivo primario della Bce della stabilità dei prezzi. Gli eventi delle ultime settimane ci hanno ricordato i vantaggi di una regolamentazione bancaria forte e armonizzata e l’importanza di completare l’unione bancaria. Stiamo monitorando attentamente gli sviluppi nei mercati finanziari e nelle istituzioni finanziarie». È calmo il vice di Christine Lagarde. Il tono delle parole però fa trasparire che la situazione non sia così serena. «Il settore bancario dell’area dell’euro è resiliente, con solide posizioni patrimoniali e di liquidità ben al di sopra dei requisiti minimi», rassicura. Inoltre, «le banche attualmente soddisfano gran parte del fabbisogno di liquidità con l’attività più liquida disponibile: le riserve detenute presso la banca centrale». Questa situazione, afferma, «è molto diversa da quella del 2008 e del 2009». Da allora è stata istituita «una vigilanza bancaria europea armonizzata e abbiamo compiuto buoni progressi nell’attuazione del programma globale di riforma della regolamentazione lanciato all’indomani della crisi finanziaria globale». Ma, questo l’ammonimento, “non c’è spazio per l’autocompiacimento».

La lezione di Lagarde: “Inflazione troppo alta, non molliamo la presa”

dal nostro inviato Francesco Spini 31 Marzo 2023

Il caso Svb, ma anche quello del Credit Suisse e di Deutsche Bank «hanno accresciuto l’incertezza, che potrebbe ostacolare la trasmissione della nostra politica monetaria in tutta l’area dell’euro». E probabilmente «assisteremo a un ulteriore aumento del costo del finanziamento delle banche, a un inasprimento degli standard di credito e a una decelerazione della crescita dei volumi dei prestiti». Potrebbe anche «verificarsi un calo della fiducia dei consumatori e degli investitori e una minore domanda aggregata complessiva». Tuttavia, ha sottolineato, «è troppo presto per trarre conclusioni sull’impatto che tutto ciò avrà sulla crescita e sull’inflazione». La turbolenza «potrebbe essere di breve durata, ma se emergono effetti di amplificazione, appariranno nei dati».

In questo contesto di maggiore incertezza, bisogna mantenere la barra dritta. «Il nostro approccio per ridurre l’inflazione al nostro obiettivo del 2% a medio termine rimarrà dipendente dai dati». È per questo che serve osservare tutti i dati sui prezzi. «Riteniamo che l’inflazione complessiva diminuirà considerevolmente quest’anno, mentre la dinamica dell’inflazione di fondo rimarrà solida», ha sottolineato. Vale a dire, nuovi rialzi dei tassi.

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E se fossero i grandi profitti a mantenere alti i prezzi? Le banche centrali sono preoccupate

sabato, Aprile 1st, 2023

Marina Palumbo

Dopo mesi di preoccupazione riguardo i possibili effetti degli aumenti salariali sull’inflazione, nel timore che questi potessero influire mantenendola alta e generando una pericolosa spirale di salari e prezzi in salita, i banchieri centrali ora spostano l’attenzione su un altro problema: gli ampi profitti delle aziende.

Le società che aumentano i loro prezzi oltre quanto sarebbe necessario per assorbire costi più elevati, potrebbero alimentare l’inflazione che i banchieri centrali devono combattere con tassi di interesse più elevati. A lanciare l’allarme sono gli esperti  della Banca centrale europea, suggerendo che i governi potrebbero dover intervenire in alcune situazioni.

In una conferenza a Francoforte la scorsa settimana, Fabio Panetta, un membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea, ha sottolineato che nel quarto trimestre dello scorso anno metà delle pressioni interne sui prezzi nell’eurozona provenivano dai profitti, mentre l’altra metà dai salari.

Le sue preoccupazioni riguardo i profitti, hanno trovato eco nelle recenti osservazioni del presidente della Bce, Christine Lagarde, e del governatore della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey. Sebbene l’inflazione in Europa abbia iniziato ad allentarsi rispetto ai picchi a due cifre dello scorso anno, i tassi rimangono ben al di sopra del 2%, l’obiettivo della maggior parte delle banche centrali.

Secondo Refinitiv, i margini di profitto delle società per azioni nell’eurozona, misurati dall’utile netto in percentuale sui ricavi, sono stati in media dell’8,5% nell’anno 2023 fino a marzo, un passo indietro rispetto al recente picco dell’8,7% a metà febbraio. Prima della pandemia, a fine 2019, il margine medio era del 7,2%. I margini di profitto sono cresciuti negli ultimi anni soprattutto tra le società energetiche e le società di beni di lusso.

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Un fenomeno simile ha riguardato gli Stati Uniti, dove le aziende hanno  registrato ampi margini di profitto, nonostante i livelli di inflazione più elevati degli ultimi quattro decenni. E per proteggere tali margini quando i costi diminuiscono, alcune aziende si stanno concentrando sull’offerta di prodotti premium.

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Mario Monti: “Il governo non incoraggi i furbi. Europa frugale, se salta il Pnrr”

venerdì, Marzo 31st, 2023

Fabio Martini

Ha guidato l’ultimo governo che in Italia abbia saputo – e voluto – prendere misure impopolari in tempi forzatamente austeri e quella esperienza consente a Mario Monti una distanza dalle parti e una libertà di giudizio che pochi altri protagonisti della Seconda Repubblica possono permettersi, come conferma in questa intervista a La Stampa. Definendo due questioni decisive: se l’Italia non riuscisse a far fruttare le risorse e la fiducia dell’Europa, ne riceverebbe «grande biasimo», inducendo l’Unione a tornare ad essere frugale nel concedere le proprie risorse. E quanto alle prime, fondamentali scelte del governo, Monti apprezza la guida impressa dalla presidente del Consiglio ma segnala una possibile contraddizione in alcune scelte fiscali, e non solo, assunte dall’esecutivo: chi crede nella Nazione non può incoraggiare i «furbi», perché così si rischia di «svendere» lo Stato.

Nei rapporti con l’Europa, nella gestione dei conti pubblici e nell’inversione di rotta sulla concezione dello Stato come bancomat, il governo è stato più attivo che su altri fronti, ma ciò basta a far pensare che questo esecutivo sarà capace di far uscire il Paese dallo stallo che, tra alti e bassi, lo paralizza da più di 20 anni?
«Diciamo anzitutto che proprio sull’Europa e sui conti pubblici il governo Meloni era atteso alla prova con trepidazione: dagli italiani, dai partner europei, dai mercati. La prova, diciamolo, è andata decisamente meglio del previsto, almeno fin qui…»

Negli ultimi giorni, proprio sul fronte europeo. si stanno addensando diverse nubi…
«Un Consiglio europeo non così soddisfacente come lo si è presentato al pubblico italiano e, soprattutto, crescenti preoccupazioni sul Pnrr. Questo ci porta dritti al cuore delle domande: saprà questo governo riportare l’Italia alla crescita dopo oltre venti anni? Ma non sarà troppo chiedere al governo Meloni quel che tanti governi non sono riusciti a fare? No, è un’esigenza assoluta. Questo governo può disporre, non per proprio merito, di risorse finanziarie senza precedenti, quelle appunto del Pnrr. Dispone, in virtù del successo elettorale, di una maggioranza ampia. E potrebbe disporre, se le capacità del capo del governo continueranno a prevalere sulle forze centrifughe presenti nella maggioranza, di cinque anni. Insomma, se questo governo riporterà l’Italia alla crescita, ne avrà grande riconoscimento, che dovrà condividere con l’Europa (un tempo detestata). Ma se non ci riuscisse, ne avrebbe grande biasimo: l’Italia avrebbe sprecato un’occasione unica e tanti Paesi europei additerebbero il caso italiano per indurre l’Europa ad essere più frugale nel mettere a disposizione le proprie risorse».

L’Italia è il Paese che ha ottenuto più risorse dal Pnrr, ma potrebbe rinunciare ad una quota significativa: un paradosso che rischia di diventare proverbiale? Questione che si accompagna ad una domanda antica: bastano ingenti risorse per generare la crescita?
«Qui arriviamo al punto dolente. Per dare a un Paese, a una comunità, diciamo pure a una Nazione, il soffio di una crescita durevole non basta immettervi capitale finanziario, denaro, soldi, vengano essi dal bilancio europeo o da quello dello Stato. No, è necessario creare le condizioni che favoriscano il capitale sociale, quello che tiene insieme una comunità, piccola e grande, che fa crescere la fiducia, che non porta i furbi a prevalere sistematicamente sugli onesti.

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Bonomi: «Recovery, errori a monte. Seguire il modello Biden. Nomine, conti il merito»

venerdì, Marzo 31st, 2023

di Federico Fubini

Presidente, sembra che il Piano nazionale di ripresa e resilienza abbia difficoltà. Da dove nascono secondo lei?
«Dall’origine: a Villa Pamphili nel giugno del 2020. Lì ebbi un confronto con l’allora presidente del Consiglio, perché noi immaginavamo un Piano che si concentrasse a rafforzare il potenziale di crescita del Paese. Ci siamo invece ritrovati di fronte ad una serie di interventi a pioggia per rispondere alle varie costituency elettorali».

L’impianto del Pnrr resta quello?
«È arrivato il governo di Mario Draghi, certo. Ma dall’insediamento ebbe quaranta giorni per rifare il piano vaccinale e il Pnrr. Quindi non ci fu il tempo di cambiare molto, cambiò le prime 80 pagine su milestones e riforme, ma le sei missioni di destinazione delle risorse restarono quelle del governo Conte. Le riforme erano necessarie e fondamentali: a partire da quella della pubblica amministrazione. Eppure ancora oggi non le stiamo affrontando: per avere un passaporto ci vogliono ancora nove mesi e per realizzare un’opera pubblica da oltre cento milioni di euro, ci vogliono in media 15,7 anni».

Per salvare il Pnrr preferirebbe un sistema di crediti d’imposta per investimenti verdi o digitali, sul modello di Industria 4.0 o dell’Inflation Reduction Act americano?
«Sicuro, perché siamo a un bivio. O andiamo avanti rendicontando qualunque cosa e buttando via i soldi; oppure rinunciamo ai progetti inutili e ci concentriamo su ciò che si può realizzare e che serve davvero. Si può immaginare un sistema tipo Industria 5.0, basato su crediti d’imposta, nel quale la stazione appaltante finale è l’industria privata. Quella che investe. Sarebbe una politica industriale con la persona al centro, dal green, al digitale, al biotech, all’intelligenza artificiale, al lavoro, alla formazione. È il modello applicato da Joe Biden con l’Ira».

Sembra che uno dei problemi del Pnrr sia nel sistema di governo del piano, che resta incompiuto.
«Vedremo, ma il problema vero è la troppa burocrazia della pubblica amministrazione. Con il Pnrr ci era stato assicurato che le riforme sarebbero state attuate. Il risultato è sotto gli occhi di tutti».

Vuole dire che le riforme del Pnrr sono rimaste in superficie? Anche quella della giustizia?
«Anche quella in molte parti essenziali è stata fermata».

Ma allora Bruxelles fa bene a bloccarci i fondi?
«Era sbagliato in origine il piano. Ma c’è un però. Capisco i dubbi sul finanziare col Pnrr gli stadi di Firenze e Venezia, ma la Commissione Ue aveva approvato. Scopre che non va bene solo ora?».

Davvero lei pensa che in Europa si facciano due pesi e due misure fra governo Draghi e governo Meloni?
«Non credo, ma a questo governo cosa posso imputare? Il Piano è stato predisposto da Conte ed è stato chiuso da Draghi, che più di tanto non ha potuto cambiarlo. L’attuale governo lo eredita e ha la responsabilità di realizzarlo con un’amministrazione pubblica che non sta funzionando. Ma deve a maggior ragione avere il coraggio di fare le riforme che servono».

Come quella del codice degli appalti? In base ad essa 98% delle opere si può assegnare senza gara. Difficile che giovi a concorrenza e produttività, non trova?
«Certo, ci sono dei grossi rischi. Da un lato molti enti possono decidere di assegnare i contratti solo alle grandi aziende per non esporsi a contestazioni, ma così si finisce per penalizzare le piccole e medie imprese. Dall’altro si aprono le porte alle decisioni discrezionali dei partiti e di chi premia gli amici degli amici. Un codice fatto così non incide sui problemi di produttività, trasparenza, chiarezza operativa».

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Pensione anticipata, come lasciare il lavoro nel 2023 (e non solo con Quota 103)

giovedì, Marzo 30th, 2023

di Massimiliano Jattoni Dall’Asén

Quota 41 è ancora lontana

Quota 103 è la via anticipata dal lavoro introdotta dal governo Meloni con l’ultima Legge di Bilancio e che fino al 31 dicembre di quest’anno consente il pre-pensionamento con 62 anni d’età e 41 di contribuzione, dunque con un anticipo del requisito anagrafico di ben 5 anni. L’obiettivo del governo era di mandare in pensione questo strumento alla fine del 2023, ma il confronto tra governo e parti sociali sulla riforma previdenziale langue e Quota 41, l’obiettivo di legislatura e cavallo di battaglia della Lega, sembra allontanarsi all’orizzonte e l’ipotesi di prorogare Quota 103 anche per il 2024 diventa sempre più concreta.
Al di là delle promesse elettorali, il problema, come sempre, è dato dalla copertura finanziaria. Quota 41, con cui si direbbe addio al lavoro con 41 anni di contributi e a prescindere dall’età, premierebbe i cosiddetti “lavoratori precoci”, ma secondo le stime dell’Inps costerebbe alle casse dello Stato più di 4 miliardi nel primo anno di attivazione, per salire fino a 75 miliardi nei dieci anni successivi. Troppi, anche per una buona parte della maggioranza.

La decisione in autunno

Il governo prenderà una decisione probabilmente con la prossima manovra, in autunno, e come detto, tra le ipotesi in campo, c’è dunque anche la proroga di un anno di Quota 103, come canale garantito per accedere alla pensione prima della soglia di vecchiaia (l’ultimo monitoraggio di Inps ha rivelato che più di 3 trattamenti su 10 sono assegni anticipati o prepensionamenti), in aggiunta a Ape sociale, Opzione donna e agli altri strumenti di prepensionamento previsti collegati alla «Fornero».
Vediamo allora come andare in pensione anticipata in attesa che la riforma veda la luce.

Quota 100

Ogni nuova «quota» ha mandato in soffitta quella precedente, ma non necessariamente i suoi effetti. Quota 100, introdotta con il decreto legge 4/2019 e in essere fino al 2021, è una pensione anticipata «mista» formata col sistema delle quote, ovvero della somma fra contributi ed età anagrafica. Scalzata da Quota 102, continua a essere valida, a condizione che il soggetto abbia comunque i requisiti richiesti, ovvero aver maturato entro il 31 dicembre 2021 un’età anagrafica di 62 anni e una contribuzione di 38 anni. Tali contributi possono essere sommati fra tutti quelli delle Gestioni Inps, ma non con quelli delle casse professionali.Questa pensione non prevede alcuna penalizzazione nel suo calcolo, ma attiva un divieto di cumulo reddituale, non previsto per le altre forme di pensionamento, per qualsiasi reddito di lavoro (fatta eccezione per 5.000 euro lordi annui di lavoro autonomo occasionale) fino all’età della pensione di vecchiaia.

Quota 102

Quota 102 è stata introdotta dal primo gennaio 2022, permettendo di accedere alla pensione anticipata con 64 anni di età e 38 di contributi. Si tratta di una soluzione individuata dal governo Draghi, con una sperimentazione annuale, per superare i tre anni di Quota 100, misura di bandiera della Lega ai tempi del governo giallo-verde. Quota 102 è scaduta alla fine dell’anno scorso, ma come nel caso di Quota 100, anche questo strumento resta valido nei prossimi anni purché si siano raggiunti età e contributi di cui sopra entro il 2022.

Le finestre di Quota 100 e Quota 102

Occorre ricordare che, sia per Quota 100 che per Quota 102, la pensione è soggetta alla cosiddetta «finestra» di attesa. Ossia la decorrenza di tre mesi dal raggiungimento dei requisiti, mesi che diventano 6 per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Ma se la domanda di pensione viene presentata molto tempo dopo il raggiungimento dei requisiti, la finestra di attesa non deve essere rispettata.

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Nuovo codice degli appalti, è scontro. Anac e Cgil: «C’è il rischio di voto di scambio»

giovedì, Marzo 30th, 2023

di Claudia Voltattorni

Nuovo codice degli appalti, è scontro. Anac e Cgil: «C'è il rischio di voto di scambio»

L’entrata in vigore prevista è il prossimo primo aprile, ma le norme saranno efficaci dal primo luglio. Un tempo giudicato troppo breve per riuscire ad adeguare tutta la macchina organizzativa e burocratica e permettere di far partire opere per miliardi di euro. Ma il vicepremier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini è certo: «Sarà uno strumento di lavoro fondamentale per l’Italia nei prossimi anni».

A poche ore dalla sua approvazione, il nuovo Codice degli appalti licenziato martedì dal Consiglio dei ministri però fa già molto discutere.

Se dal mondo delle imprese viene apprezzata la semplificazione e la sburocratizzazione di molte procedure, pesanti attacchi arrivano da Anac e sindacati. L’Autorità anti-corruzione parla di luci — «la digitalizzazione che obbliga alla trasparenza» —, ma anche di «ombra» per la possibilità in particolare dell’assegnazione diretta o a inviti degli appalti fino a 5.382.000 euro. «Soglie troppo elevate — spiega il presidente Giuseppe Busia- per gli affidamenti diretti e le procedure negoziate rendono meno contendibili e meno controllabili gli appalti di minori dimensioni, che sono quelli numericamente più significativi».

Il rischio, dice, è che «sotto i 150.000 euro va benissimo il cugino o anche chi mi ha votato e questo è un problema, soprattutto nei piccoli centri».

Non è d’accordo Salvini che replica: «Più veloce è l’iter della pratica meno è facile per il corrotto incontrare il corruttore».

Non ne è affatto convinta invece la Cgil che teme perfino un ritorno «alle liste fiduciarie di Tangentopoli», dice Alessandro Genovesi della Fillea Cgil e il primo aprile scenderà in piazza con Feneal Uil e tutto il mondo edile. E non è esclusa la presenza anche del leader Maurizio Landini. «Il nuovo Codice riporta il Paese indietro di 30 anni vanificando la lotta alle mafie», attacca il segretario generale della Cgil Calabria Angelo Sposato. Ma Salvini liquida la protesta: «Se la Cgil annuncia una sciopero, vuol dire che il Codice è stato fatto bene».

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Carburanti e-fuels, il salasso Ue è servito: ecco quanto costerà il pieno

mercoledì, Marzo 29th, 2023

Alessandro Ferro

Produzione complessa e costi che inevitabilmente lievitano: gli e-fuels voluti da Germania e Ue costerebbero fino a 3 euro al litro, una mazzata per le tasche dei cittadini

Se pensavamo di liberarci dal caro-carburantecon la futura introduzione degli e-fuels tedeschi così tanto avallati dall’Unione Europea ci sbagliavamo di grosso: quando tra sette anni partirà la produzione industriale, un pieno potrebbe costare fino a 200 euro, un salasso per le tasche di tutti. I costi sono molto elevati e, dovendo dire addio a benzina e diesel dal 2035 come stabilito definitivamente ieri in Commissione Europea, le previsioni sono nere considerando anche che i biocarburanti italiani risultano per adesso esclusi dal futuro dei motori endotermici i cui costi non sarebbero più alti rispetto agli attuali.

Europa e Germania ci lasciano a piedi: sì al motore termico con gli “e-fuels”. No ai biocarburanti

L’importanza dei biocarburanti

Eni ha già lanciato sul mercato Hvolution, olio vegetale idrotrattato (HVO), un gasolio che contiene il 100% di componente rinnovabile. Come abbiamo scritto sul Giornale, ha un costo medio di 1,910 euro al litro ma questo biodiesel non riduce completamente le emissioni di CO2 e la sua produzione avrebbe comunque costi importanti. Questa strada, però, porterebbe ai biocarburanti del futuro tanto bistrattati dall’Ue che al pari degli e-fuels si fondano “egualmente sulla compensazione della CO2: se questa modalità di calcolo delle emissioni, detta ‘Life cycle approach’, vale per un tipo di combustibile, deve valere anche per l’altro, entrambi sul punto sono tecnicamente neutri”, ha dichiarato un paio di giorni fa Massimiliano Salini, eurodeputato di Forza Italia e del Ppe.

I biocarburanti aiuterebbero di rimbalzo anche l’ambiente perché si riciclerebbero da scarti di residui agricoli, oli usati e altri rifiuti che altrimenti dovrebbero essere smaltiti in maniera diversa: usati come combustibile abbatterebbero la CO2 fino al 100%. L’Italia è già all’avanguardia e in rampa di lancio per la loro produzione grazie a cinque impianti già operativi e in grado di produrli anche da soia, girasole, colza e mais oltre a agli scarti derivati dal legno e ai concimi animali. L’Ue, per adesso, crede che questo prodotto non sia del tutto a impatto zero e non ha dato il via libera al nostro Paese.

La difficoltà nel creare gli e-fuels

Se il bicchiere mezzo pieno è rappresentato dalle emissioni zero degli e-fuels, quello mezzo vuoto (e forse anche più di mezzo) riguarda i costi per produrlo visto che la quantità di energia richiesta è enorme: infatti, vengono prodotti dall’energia rinnovabile con un processo dell’acqua chiamato elettrolisi che la trasforma in idrogeno; dopodiché, si dovrà combinare assieme all’anidride carbonica. Ecco perché le stime di oggi parlano di un salasso sul nuovo pieno del carburante green che può arrivare a 200 euro per un serbatoio da 70 litri, cifra oggettivamente insostenibile. Da non dimenticare, poi, un altro dettaglio non da poco: nell’epoca di siccità e scarse precipitazioni, per creare un litro di e-fuels ne servono due d’acqua.Dall’Ue arriva lo stop per i motori benzina e diesel dal 2035. L’Italia si astiene e punta ai biocarburanti

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Nomine, ora è stallo sui vertici di Rfi: battaglia per i 24 miliardi del Pnrr alle Ferrovie

mercoledì, Marzo 29th, 2023

Ilario Lombardo

ROMA. Ieri sera il tavolo sulle nomine a Palazzo Chigi era ancora aperto. Apertissimo. Al momento, nelle agende di Giovanbattista Fazzolari e Francesco Filini – i due uomini in missione per conto di Giorgia Meloni – c’è una bozza di calendario. Il governo prima si occuperà dei vertici delle grandi partecipate (Eni, Enel, Terna, Poste), quelle di prima fila per intenderci, sulle quali i partiti hanno più o meno le idee chiare. Poi si concentrerà su Rfi, la società che si sta rivelando la più complicata da resettare.

Decidere sui manager di Rete Ferroviaria Italiana, controllata dal Gruppo Fs, questa volta vuol dire decidere quali mani gestiranno i 24 miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza destinati alle infrastrutture. Una delle fette più importanti e più strategiche delle risorse europee. E in queste ore di vero panico dentro il governo, perché stanno emergendo le difficoltà a rispettare gli impegni presi con Bruxelles, è diventato prioritario pensare a chi avrà la responsabilità di mettere a terra gran parte dei progetti finanziati dai fondi Ue.

Le nomine, in questo caso, sono soprattutto in mano alla Lega, al suo leader, Matteo Salvini, che è vicepremier, e qui va però considerato nelle vesti di ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, principale promotore politico del Ponte di Messina. Questo giornale ha già raccontato, in parte, chi sostiene chi, nella silenziosa battaglia tra i partiti del centrodestra, o ancora meglio tra i loro ispiratori e consiglieri informali. Lo stallo di queste ore è frutto di veti e sospetti.

Com’è noto, il nome di Roberto Tomasi, amministratore delegato di Autostrade per l’Italia (Aspi), che attraverso la ex Salini, oggi WeBuild, principale contractor della grande opera sullo Stretto, porta a Denis Verdini, suocero di Salvini, è ancora nella short list del governo. Tanto più che, come raccontano fonti vicine ai rappresentanti dei fondi che siedono nel Cda di Aspi, ieri Tomasi sarebbe finito al centro di una specie di interrogatorio sulle complicate prospettive per l’azienda. Rfi sarebbe una delle exit strategy per il manager, offerta dal governo e suggerita da Verdini, che in questi giorni sta compulsando curriculum di altri dirigenti, sempre per conto del genero leghista.

Ma l’ex senatore di Forza Italia, grande manovratore di nomi e alleanze quando sussurrava all’orecchio di Silvio Berlusconi, non è il solo muovere la sua rete di relazioni dietro ai partiti. Un altro intramontabile è Luigi Bisignani, che torna sempre quando a Roma il potere si deve rigenerare. A sentire i fidatissimi di Meloni, ovunque ci sia Gianni Letta c’è anche Bisignani.

Lo proverebbe il tentativo di spingere a capo della società del traffico aereo, l’Enav, Roberta Neri con cui il faccendiere è stato visto lo scorso autunno al Cuccurucù, ristorante da lui frequentato nella Capitale. Bisignani avrebbe a cuore due nomi per Rfi. Il primo è un altro esterno al mondo ferrovie, si tratta di Stefano Siragusa, fino allo scorso agosto deputy general manager in Tim. Il secondo è Luigi Corradi, attuale amministratore delegato di Trenitalia, sponsorizzato da Luigi Ferraris, ad di tutto il gruppo Fs.

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