Archive for the ‘Editoriali – Opinioni’ Category

Nordio, Grillo, l’ironia (non) è sempre dissimulazione

domenica, Giugno 25th, 2023

di Aldo Grasso

Sorte dell’ironia. Il ministro Carlo Nordio fa una battuta sulle contraddittorietà della nostra tassazionee viene bollato come istigatore dell’evasione. Beppe Grillo parla di «brigate di cittadinanza» formate da pensionati e viene scambiato per un terrorista. A cosa è dovuto questo fraintendimento? Allo spirito dei tempi, al dilagante analfabetismo funzionale, ai sempre più preoccupanti problemi di comprensione del testo, ai danni della «disintermediazione digitale», all’odio che circola sui social? E dire che Twitter era una palestra di battute ironiche, ma basta leggere i commenti per franare nello sconforto.

Leonardo Sciascia nell’Affaire Moro (1978) scrive parole definitive: «Nulla è più difficile da capire, più indecifrabile, dell’ironia. E se si può impiccare un uomo muovendogli come accusa una sola sua frase avulsa da un contesto, a maggior ragione, più facilmente, lo si può impiccare muovendogli contro una sua frase ironica».

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I segnali di cedimento

domenica, Giugno 25th, 2023

Irina Scherbakova

Gli eventi si susseguono a una velocità sconcertante. Da tempo tutti assistevano a una escalation del conflitto tra Yevgeny Prigozhin e i vertici dell’esercito russo e si meravigliavano di come Putin potesse tollerare una situazione del genere. Ma non dimentichiamo che la Wagner comandata da Prigozhin è stata chiamata in causa quando l’esercito ucraino ha portato a termine con successo un’offensiva e sono iniziati gli scontri per la conquista di Bakhmut. Prigozhin, allora, ha ricevuto carta bianca per reclutare mercenari nelle colonie penali. La presa di Bakhmut è costata un numero enorme di vittime e Prigozhin ha addossato la colpa ai comandanti corrotti dell’esercito. Putin sperava di gestire queste forze rimanendo al di sopra della mischia. Ma ha fatto male i suoi conti.

Prigozhin ha continuato a lanciare attacchi contro i vertici dell’esercito e il ministro della difesa, elargendo insulti a destra e a manca. In risposta alla richiesta di sottomettersi all’esercito, Prigozhin ha fatto il passo più lungo della gamba e ha mandato un ultimatum. E ha dimostrato tutta la serietà delle sue intenzioni occupando Rostov sul Don e avvicinandosi a Voronezh. Anche se Lukashenko è riuscito a convincere Prigozhin a interrompere la «marcia della giustizia» verso Mosca resta comunque una testimonianza di un sistema di governo che inizia a cedere. È una crisi interna profonda che dimostra la debolezza del regime putiniano.

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Il mondo brucia, la politica vaga nei suoi labirinti

domenica, Giugno 25th, 2023

MASSIMO GIANNINI

La Russia è sull’orlo della guerra civile. Il mondo ha paura della guerra atomica. L’Italietta si perde nella sua solita guerricciola per bande. L’Aventino della maggioranza non si era mai visto. Nella Roma antica la secessio plebis nacque come forma di protesta dei derelitti contro l’arroganza dei patrizi padroni della Res Publica. Nella Roma fascista del Ventennio l’astensione permanente dai lavori d’aula fu la reazione politica di 123 deputati alla scomparsa di Giacomo Matteotti, sequestrato il 10 giugno 1924 e assassinato dagli squadristi del Duce. Nella Roma meloniana di oggi la diserzione dal Parlamento sembra l’unica, paradossale non-risposta che le tre destre al potere sono in grado di dare sui temi più inutilmente divisivi della fase. Hanno l’aritmetica, che tra Camera e Senato li blinderebbe contro qualunque pericolo di ribaltone. Ma non hanno la politica, che gli consentirebbe di liquidare in un amen la banale ratifica del Mes, se solo non fossero prigionieri di quella “ideologia che ci uccide”. Una frase che rimane scolpita nello scambio di messaggi tra gli alti e appassiti papaveri della Lega. E che marchia, nel fuoco di una grottesca “battaglia identitaria”, il corpaccione di una maggioranza in fuga. Da se stessa e dall’interesse nazionale, dal buon senso e dalla responsabilità. Tanto più in un momento in cui le sorti del pianeta sono appese al destino di Putin, il Tiranno assediato che minaccia la bomba nucleare tattica.

Il vero “stigma” – per usare la formula cara alla presidente del Consiglio – non è votare sì a una riforma di questo Fondo Salva-Stati. Che tutti i partner europei hanno già votato tranne noi.

Che non ci obbliga a nulla, non ci nuoce e ci conviene, come ripete il governatore di Bankitalia Ignazio Visco e come scrive il capo di gabinetto del Tesoro Stefano Varone. Ma tant’è: se proprio la destra Fratello-Leghista volesse comunque far finta di salvare quel po’ di faccia eurofobica che ancora gli è rimasta, basterebbe raccogliere il giusto suggerimento di Mario Monti: insieme alla legge che ratifica il Mes, approvate un ordine del giorno che impegna il governo a non usarlo mai, se non previo voto parlamentare a maggioranza qualificata. E invece non ce la fanno. Neanche ad accettare questa semplice clausola di salvaguardia. Piuttosto scappano. Dalle Commissioni parlamentari, dal Consiglio dei ministri, dalla realtà, dalla verità. La Sorella d’Italia si dilegua per imprecisati “impegni personali”. I senatori azzurri danno buca, forse il cane gli ha mangiato i compiti. Salvini urla, Nordio vaneggia, Giorgetti latita, Santanchè periclita. Insomma, e con tutto il rispetto: Silvio è morto, Forza Italia è morta e anche Giorgia non si sente tanto bene.

L’opposizione, che si sveglia sempre troppo tardi dalla pennichella pomeridiana e grida spesso troppo presto alla crisi di governo, è quasi altrettanto patetica. I due poveri cristi Schlein e Conte si sono fermati a Campobasso. La campagna elettorale di Roberto Gravina è senz’altro più agevole e meno rischiosa del corteo romano #BastaVitePrecarie, con Grillo&Ovadia incorporati. Il “Patto del crodino”, siglato al Bar Otter con foto di rito auspicabilmente più propizia di quella di Vasto, è sicuramente un piccolo passo per l’uomo ma un grande passo per l’umanità. Ma ai più sfugge che questo Aventino della maggioranza, benché non preluda ad alcun Papeete Bis, rivela che una crepa aperta nel muro di Arcore dopo la scomparsa del Cavaliere c’è. E su quella crepa bisognerebbe indagare, per fare quello che nessuno tra le nomenklature di palazzo ha fatto dopo il 25 settembre: cioè ragionare su cosa è successo in Italia, cosa è mutato negli umori profondi del Paese e soprattutto cosa può ancora cambiare nel prossimo futuro.

Al leader dei due schieramenti suggerirei la lettura di una mappa preziosa, elaborata da Itanes e appena pubblicata dal Mulino (“Svolta a destra? Cosa ci dice il voto del 2022”). Una miniera di numeri e di informazioni, che ridimensiona molte delle frettolose certezze acquisite in questi primi nove mesi di governo e smonta buona parte della narrazione mediatica e conformistica sulla nuova “egemonia culturale” dettata dalle urne. Che la destra abbia vinto con “indiscutibile nettezza”, e che Fratelli d’Italia sia “di gran lunga il primo partito della nazione” è evidente. Come lo è il fatto che quello di Meloni sia il primo “governo nato direttamente dal voto” del 25 settembre 2022, al contrario di quanto era accaduto nel 2018 e nel 2013. Quello che invece sottovalutiamo, ma che i dati e i flussi invece confermano, è che il successo delle tre destre non stato affatto determinato da un aumento dei voti, ma solo “dal funzionamento della legge elettorale e della traduzione dei consensi in seggi”.

Meloni, per vincere e conquistare la premiership, ha beneficiato di due fattori essenziali. Il primo è l’implosione dei Cinque Stelle, che hanno dimezzato i loro voti, si sono presentati da soli alle urne e così hanno regalato i seggi uninominali alle destre. Il secondo è il “drammatico incremento dell’astensione”, ingrassata essenzialmente dagli elettori in fuga dal Movimento e solo in minima parte “tornati a casa”, a destra e a sinistra. Il boom della Fiamma nasce da qui. La crescita del partito meloniano è stata “eccezionale sia in termini percentuali (oltre 20 punti) sia di voti assoluti (quasi 6 milioni di voti in più)”, ha sicuramente spostato il baricentro dell’alleanza, ma non è affatto il prodotto “di un rafforzamento complessivo della coalizione”, perché tutto quello che ha guadagnato Fdi lo ha perso la Lega. Dunque, numeri alla mano, lo sfondamento a destra “ha riguardato più il verdetto uscito dalle urne, amplificato dalle regola e dal mancato accordo tra gli oppositori, che non effettivi cambiamenti di posizione e di orientamento nell’elettorato”. Detta altrimenti: la massa degli italiani non si è “spostata a destra”, non c’è stato alcun “riallineamento dell’elettorato profondo e di lungo periodo”, non si può parlare di “trasformazione strutturale degli equilibri politici generali”.

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Stati uniti e India: alleanze (e dubbi) americani

sabato, Giugno 24th, 2023

di Federico Rampini

La democrazia più antica, gli Stati Uniti, e la democrazia più grande, l’India: nasce un’alleanza per contrastare la più potente fra le autocrazie, la Cina? È il tema della visita del premier Narendra Modi a Washington, accolto con il massimo onore alla Casa Bianca e al Congresso. L’America vuole attirare l’elefante di Nuova Delhi in una coalizione delle democrazie, lo ha già integrato in una nuova figura geometrica (il Quad o quadrilatero) che include quattro poli di quel dispositivo nell’Asia-Pacifico: India, Giappone e Australia insieme agli Stati Uniti.

Modi governa un gigante che ha superato la Cina per numero di abitanti e il Regno Unito per il Pil. Con una crescita del 6% quest’anno, l’economia indiana punta a futuri sorpassi su Giappone e Germania, a medio termine potrebbe collocarsi nel trio di testa dietro la Cina. È diventata per molte multinazionali la beneficiaria del friend-shoring: la «rilocalizzazione» di attività industriali in Paesi amici, che per l’Amministrazione Biden è la nuova frontiera della globalizzazione, onde ridurre la dipendenza dalla Cina. L’India ha molta strada da fare per essere competitiva con la Repubblica Popolare in ambiti cruciali — infrastrutture, energia, qualità della manodopera operaia, efficienza burocratica — però Modi ha avviato una transizione dallo statalismo dei suoi predecessori verso un’economia più capitalista.

È in politica estera che l’India resiste all’abbraccio americano. Mentre ha un rapporto teso con la Cina, Nuova Delhi è stata a lungo amica dell’Unione sovietica e lo rimane della Russia di Putin. Non condanna l’invasione dell’Ucraina né applica le nostre sanzioni. Mosca è il suo principale fornitore di armi e di energie fossili. Gli accordi per commesse militari siglati a Washington in questi giorni sono significativi ma non tali da spezzare la dipendenza dalle armi russe. L’India è la superpotenza leader del Grande Sud globale (un concetto geopolitico, non geografico). Rifiuta la logica dei blocchi contrapposti. Imputa all’Occidente un manicheismo in politica estera, preferisce vedere il mondo in «cinquanta sfumature di grigio» anziché diviso in buoni e cattivi.

Modi a Washington ha visto in azione quel tipo di manicheismo. Una pattuglia di parlamentari democratici ha disertato il suo discorso al Congresso per protestare contro le violazioni di diritti umani in India. Modi si è difeso: «La democrazia è nel Dna indiano, è nel nostro spirito, scorre nelle nostre vene». I suoi detrattori occidentali sono spesso vicini all’opposizione, quel partito del Congresso della dinastia Nehru-Gandhi che gli elettori hanno bocciato dopo decenni di stagnazione, scandali e corruzione. Le critiche a Modi riguardano il suo attaccamento alla religione induista come fondamento dell’identità nazionale, e il trattamento della minoranza musulmana, oltre un decimo della popolazione. Pochi in Occidente conoscono la complessità dei rapporti tra indù e musulmani segnati da tensioni plurisecolari. O la spada di Damocle rappresentata dal Pakistan, teocrazia islamica dotata di bomba nucleare, che foraggia il terrorismo da decenni, e fece dell’India un laboratorio di maxi-attentati molto prima dell’11 settembre 2001.

Modi non piace a un’intellighenzia indiana progressista che ripudia i suoi modelli etici conservatori. Invece ha solidi consensi nella potente diaspora indiana in America, che fra l’altro esprime i top manager delle maggiori aziende digitali come Microsoft e Google. Gli immigrati indiani in America sono nazionalisti come Modi e apprezzano il capitalismo come lui. Considerano la loro madrepatria come la più grande fra quelle democrazie ultraconservatrici che difendono valori morali di tipo tradizionale.

Biden cerca di mettere la sordina all’ala sinistra del suo partito che gli chiede una politica estera fondata sulla propria agenda di priorità morali. La pretesa di esportare virtù americane nel mondo ha avuto esiti salvifici ai tempi di Franklin Roosevelt, nefasti sotto molti dei suoi successori: in Iraq e in Afghanistan da ultimo. La realpolitik di Biden cerca di mettere assieme le coalizioni più larghe possibili per contenere l’aggressività di Putin e il nuovo espansionismo cinese. Se l’America dovesse dialogare solo con le democrazie perfette, forse l’elenco si restringerebbe a pochi Paesi nordeuropei; i quali non promuovono a pieni voti la democrazia Usa.

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La guerriglia interna al governo

sabato, Giugno 24th, 2023

Marcello Sorgi

Chissà se è proprio vero, come è stato fatto circolare ad arte ieri dopo l’inasprirsi delle polemiche tra Lega e Fratelli d’Italia, che Meloni sarebbe pronta a tornare al voto, se il suo maggiore alleato volesse portarcela, rompendo l’alleanza e mandando in crisi il governo, a soli nove mesi dal suo esordio. Anche solo ventilare una minaccia del genere non sarebbe grande segno di lucidità politica per la premier che ha fatto fino a pochi giorni fa una cavalcata trionfale, dopo la vittoria alle elezioni politiche del 25 settembre 2022. Intanto perché basarsi sui sondaggi, la storia insegna, non sempre paga. Poi perché difficilmente una coalizione franata dopo così poco tempo potrebbe ripresentarsi di fronte agli elettori come se nulla fosse. E ancora perché, per isolati che appaiano, i casi dell’ex direttore delle Dogane (e attuale assessore della giunta regionale calabrese) Minenna e dell’ex deputato leghista Pini, nonché della ministra del Turismo Santanché delineano un contorno da questione morale che non ha mai portato bene a partiti che, quand’erano all’opposizione, la morale la facevano agli altri.

E allora, sebbene sia chiaro che la Lega ha in corso un’offensiva politica contro Palazzo Chigi, e chiedere a Santanché di presentarsi in Parlamento a chiarire è come chiederlo a Meloni che la sta difendendo, tocca a lei adoperarsi per riportare serenità all’interno della maggioranza. Può essere esagerato il lamento leghista che sostiene che la premier ne ha fatte ingoiare troppe al Carroccio, dalla nomina del nuovo comandante della Finanza a quella – mancata – del commissario per l’alluvione in Emilia-Romagna, che Salvini, da ministro dei Lavori Pubblici sostiene essere di sua competenza. Ed è sicuramente riduttivo considerare tutto questo frutto della campagna elettorale per le europee del prossimo anno.

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Ma non sono tracce sovraniste

giovedì, Giugno 22nd, 2023

di Aldo Cazzullo

Gli studenti hanno già abbastanza pressioni, non carichiamoli anche di quelle politiche

Ma non sono tracce sovraniste

L’idea di nazione non può essere disgiunta dalla libertà e dall’umanità; soltanto così non diventa oppressione su altri popoli. La prima cosa ce l’ha insegnata Cavour; la seconda Mazzini. Non so se sia di destra e di sinistra; è un utile ripasso per i nostri figli e nipoti.  Non è vero che i temi della maturità siano la prima prova dell’era sovranista. Al contrario; non sono poi così male.

I n ogni caso, non dovrebbero essere il pretesto per riaprire la discussione su quanto ci fosse di conformismo di regime negli Indifferenti di Moravia, o su quanto l’idea di nazione di Federico Chabod somigli a quella di Fratelli d’Italia.

La lunga citazione dello storico rende semmai giustizia a Giuseppe Mazzini, frettolosamente indicato anche da esponenti politici e culturali dell’attuale maggioranza come padre della triade Dio patria famiglia. Mazzini era certo un patriota, ma includerlo nel campo conservatore è una forzatura, e non perché ci sia qualcosa di male nell’essere conservatore; al contrario, perché quel campo è già così nutrito che non occorre costringervi spiriti che sentivano diversamente.

Se all’idea di nazione si accompagna quella di libertà e quella di umanità, allora la si rende incompatibile con i totalitarismi; questo intendeva dire Chabod, riallacciando la nazione italiana al Risorgimento, e liberandola dalle incrostazioni del fascismo che si basava sull’idea della disuguaglianza tra le nazioni, le razze, le religioni, le persone.

Per il resto, acchiappare i grandi e rinchiuderli nelle nostre categorie è molto difficile. Cavour fu un esponente della Destra storica; ma il «connubio» con Urbano Rattazzi venne definito «centrosinistro», al maschile, e tagliava fuori le ali estreme, quella austriacante e quella repubblicana.

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Maggioranza sotto stress

giovedì, Giugno 22nd, 2023

MARCELLO SORGI

Erano sicuramente esagerate, ieri, le valutazioni dell’opposizione – che legittimamente svolge il suo compito – sullo stato della maggioranza, dopo i due infortuni avvenuti nella giornata. Il primo forse non sarebbe neppure il caso di considerarlo tale, dato che il ministro dell’Economia Giorgetti, dando sostanzialmente il via libera alla ratifica del fondo europeo Salvastati, il famigerato Mes che l’Italia è rimasta la sola in Europa a non aver approvato. Con una lettera del capo di gabinetto pienamente condivisa dal ministro, i tecnici dell’Economia invitano il Parlamento a dire il suo “sì”, sostenendo che i vantaggi che il Paese può ricavarne sono indubbiamente maggiori rispetto agli svantaggi (la temuta forzata abdicazione del governo ai controllori di Bruxelles al venir meno di certe condizioni). Meloni e i suoi ministri devono comunque affrontare un passaggio parlamentare sul Mes chiesto dall’opposizione per il prossimo 30 giugno, e potrebbe chiedere e ottenere un nuovo rinvio, aderendo alla linea fin qui tenuta da Meloni e Fitto, che mirano a scambiare l’eventuale voto favorevole al Salvastati con una maggiore flessibilità sul Pnrr, di cui dovrebbe tuttavia essere alle porte il pagamento (in ritardo) della terza rata. Giorgetti tuttavia resta dell’idea che è venuto il momento di togliersi il dente.

Il secondo incidente è avvenuto al Senato, dove l’assenza dei parlamentari di Forza Italia ha mandato in pari, e dunque sotto, il governo in commissione sul decreto Lavoro. Anche in questo caso, accuse da parte delle opposizioni su una maggioranza ridotta in pezzi. E sospetti sul partito di Berlusconi – seppure avesse chiesto, inascoltato, un rinvio dei lavori -, che dopo la morte del fondatore sarebbe allo sbando. Anche se alla fine di è trattato di una coincidenza, e in poche ore si è trovato un modo di rimediare con la presentazione di un nuovo testo.

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Perché a Roma serve Parigi

mercoledì, Giugno 21st, 2023

Francesca Sforza

Tra Italia e Francia ci vorrà la politica, stavolta, per superare i risentimenti dovuti alle passate crisi diplomatiche e a una scarsa chimica tra i due leader. E nell’incontro che c’è stato ieri a Parigi, ufficialmente per sostenere la candidatura di Roma all’Expo del 2030, sia Giorgia Meloni che Emmanuel Macron sono arrivati con la convinzione che il vero dossier su cui è necessario stabilire un canale di comunicazione si chiami patto di stabilità. Certo, non sono mancate le dichiarazioni congiunte sull’importanza di trovare soluzioni per il Mediterraneo, sulla centralità della difesa di una posizione filo-ucraina, sulla necessità di rafforzare i legami bilaterali, ma il punto dirimente è che senza la Francia, l’Italia non riuscirà mai a superare le resistenze dei tedeschi e dei paesi cosiddetti “frugali” per una ridefinizione dei parametri del patto di stabilità. E anche la Francia, in un momento in cui l’asse con i tedeschi non dà vita a particolari alzate d’ingegno, sa benissimo che l’Italia può essere un ottimo sparring partner, almeno per questo tratto di strada. I due leader sono entrambi convinti che non si possa consentire “un ritorno a parametri inadeguati” e che la vera sfida della governance europea debba ruotare sugli investimenti, più che sul controllo del debito.

Ora la domanda è: l’unità d’intenti sul dossier finanziario sarà in grado di superare il fatto che il tessuto industriale italiano è comunque molto più simile a quello tedesco che a quello francese (con tutto ciò che ne deriva a livello di accordi intermedi e alleanze di segmento), e che Emmanuel Macron rappresenta, per Giorgia Meloni, un chiaro elemento di disturbo sul fronte degli schieramenti europei in vista del voto del 2024? Mentre su questo secondo punto gioca a favore della concordia il fatto che Marine Le Pen guardi più alla Lega di Salvini che a Fratelli d’Italia – fattore che potrebbe cementare una vicinanza tattica tra Macron e Meloni – sul primo si tratterà, appunto, di strutturare un’intesa politica. Un esempio pratico? Sulla riforma del mercato elettrico, nell’ultimo consiglio dei ministri dell’Energia, che si è tenuto due giorni fa a Lussemburgo, la Germania ha cercato l’appoggio dell’Italia in opposizione alla Francia, e lo ha ottenuto, col risultato di schierare Roma al suo fianco isolando Parigi. Non si tratterà di un’eccezione, è probabile che accada nel prossimo futuro anche per altri dossier, rendendo dunque molto delicato il lavoro di un’intesa politica con la Francia. Alla fine, si torna sempre ai vecchi schemi e alle alleanze cementate nei decenni, e l’Italia – di fronte alla scarsa solidità dell’intesa franco-tedesca e al vuoto lasciato dalla Gran Bretagna – può tornare a riproporsi come “potenza di mezzo” in grado di fare la differenza.

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Riforma della giustizia, se si parte col piede sbagliato

mercoledì, Giugno 21st, 2023

di Giovanni Bianconi

Dalle dichiarazioni d’accompagnamento traspare una conflittualità che lascia presagire poco di buono

Purtroppo anche questa «riforma della giustizia», primo capitolo di un più ampio disegno politicamente targato e rivendicato dal governo Meloni e dal suo Guardasigilli Carlo Nordio, è partita con il piede sbagliato. Non tanto e non solo per i contenuti, quanto per le dichiarazioni d’accompagnamento da cui traspare un clima di conflittualità e da resa dei conti che lascia presagire poco di buono.

Sostenere, come ha fatto il ministro della Giustizia, che al Parlamento spetta fare le leggi e ai magistrati rispettarle, è un’ovvietà che nessun giudice o pubblico ministero ha mai contestato. Ma aggiungere che i magistrati non possono criticarle così come i politici non possono criticare le sentenze sembra più che una forzatura; perché quasi non c’è sentenza su questioni di pubblico interesse che non abbia suscitato critiche (o entusiasmi, a seconda degli esiti) da parte dei politici, e perché non si capisce in base a quale logica i magistrati (al pari di avvocati, giuristi e ogni altro operatore del diritto) non possano dire la loro sulle norme che dovranno applicare.

Non a caso è prassi che il Parlamento proceda alle audizioni di togati e professori, prima di decidere. Togliere legittimità alle voci critiche, tacciandole di «interferenze», non pare un modo per confrontarsi, bensì per screditare una controparte. Vissuta come tale, anziché come un altro ramo delle istituzioni al servizio dei cittadini.

Semmai bisognerebbe far capire perché — come nel caso specifico — non una delle controindicazioni all’abrogazione dell’abuso d’ufficio sia stata presa in considerazione o considerata degna di replica, che non fosse quella di un reato inutile e dannoso poiché a fronte di migliaia di iscrizioni sul registro degli indagati le condanne si contano sulle dita di due o tre mani.

Un ragionamento a doppio taglio: se ne può infatti dedurre che è tutto da buttare, ma anche che i controlli di legalità funzionano. A costo, però, della paralisi burocratica, per la «paura della firma» che blocca la pubblica amministrazione e fa dire alla quasi totalità di sindaci e assessori (compresi quelli di sinistra, come Nordio ripete ad ogni occasione) che è giusto cancellare quel reato. Peraltro più volte riscritto e ridimensionato, l’ultima nemmeno tre anni fa. Tuttavia ci si potrebbe chiedere: da che deriva la «paura della firma»? Dal controllo giudiziario su ipotetiche violazioni che il più delle volte si rivelano inconsistenti, o da una cultura coltivata in questi decenni per cui basta una denuncia per finire non solo sotto inchiesta, ma anche sotto un immediato processo politico e mediatico, prima ancora del verdetto giudiziario?

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Pd, separati in casa ma costretti a convivere

martedì, Giugno 20th, 2023

di Massimo Franco

Il problema della segretaria del Pd Elly Schlein oggi sembra il suo stesso partito, più che gli avversari

Chi ritiene che la segretaria del Pd, Elly Schlein, sia ambigua ha ragione solo in parte. In realtà, in questi mesi ha scelto. Ha riassorbito gli scissionisti di Pier Luigi Bersani, e cioè un frammento di sinistra. Ha partecipato a manifestazioni col Movimento Cinque Stelle, a costo di suscitare qualche domanda e sospetto sulla scelta atlantista. E ha marcato le distanze da ciò che rimane del Terzo Polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi. Non è detto nemmeno che questa deriva, completata con una presenza di piazza sempre più marcata, non le dia quel primato delle opposizioni al quale anela per le Europee. Il problema sarà su quale agenda, e dunque per farne che cosa. Ieri, forse consapevole di essersi confusa un po’ troppo con le parole d’ordine anti-Nato e «pacifiste» di Giuseppe Conte e con le proposte sgangherate di Beppe Grillo sulle «brigate di cittadinanza», ha fatto una rapida marcia indietro. Sull’Ucraina si è allineata al capo dello Stato Sergio Mattarella, che non ha mai permesso equivoci sulla politica estera italiana. E ha ribadito che su quel tema esiste «una distanza siderale» tra Pd e grillismo. Precisazione doverosa, accompagnata dall’impegno scontato a promuovere la pace come obiettivo finale; e da un invito al resto delle minoranze a unirsi sui temi sociali, perché altrimenti la destra di Giorgia Meloni vincerà a lungo.

Ma il problema della segretaria del Pd oggi sembra il suo stesso partito, più che gli avversari; e, sull’aggressione russa all’Ucraina, l’atteggiamento del M5S che aspetta solo di infilzarla di nuovo, accusandola di essere troppo filo-Usa. L’accerchiamento, dunque, è doppio: all’interno e all’esterno del Pd. Anche se essere accerchiata e poi ricevere due minuti di applausi dalla Direzione del proprio partito, come è accaduto ieri, può apparire una contraddizione. E in effetti lo è, sebbene non per un Pd abituato da tempo a bruciare leader fingendo di sostenerli; e con una nomenklatura che minaccia scissioni, si dice pronta a «prendere atto» di non avere spazi; ma poi esita a trarne le conseguenze, perché in realtà spazi di manovra e bacino elettorale sono ridotti.

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