MASSIMO GIANNINI
La Russia è sull’orlo della guerra civile. Il mondo ha paura della
guerra atomica. L’Italietta si perde nella sua solita guerricciola per
bande. L’Aventino della maggioranza non si era mai visto. Nella Roma
antica la secessio plebis nacque come forma di protesta dei derelitti
contro l’arroganza dei patrizi padroni della Res Publica. Nella Roma
fascista del Ventennio l’astensione permanente dai lavori d’aula fu la
reazione politica di 123 deputati alla scomparsa di Giacomo Matteotti,
sequestrato il 10 giugno 1924 e assassinato dagli squadristi del Duce.
Nella Roma meloniana di oggi la diserzione dal Parlamento sembra
l’unica, paradossale non-risposta che le tre destre al potere sono in
grado di dare sui temi più inutilmente divisivi della fase. Hanno
l’aritmetica, che tra Camera e Senato li blinderebbe contro qualunque
pericolo di ribaltone. Ma non hanno la politica, che gli consentirebbe
di liquidare in un amen la banale ratifica del Mes, se solo non fossero
prigionieri di quella “ideologia che ci uccide”. Una frase che rimane
scolpita nello scambio di messaggi tra gli alti e appassiti papaveri
della Lega. E che marchia, nel fuoco di una grottesca “battaglia
identitaria”, il corpaccione di una maggioranza in fuga. Da se stessa e
dall’interesse nazionale, dal buon senso e dalla responsabilità. Tanto
più in un momento in cui le sorti del pianeta sono appese al destino di
Putin, il Tiranno assediato che minaccia la bomba nucleare tattica.
Il
vero “stigma” – per usare la formula cara alla presidente del Consiglio
– non è votare sì a una riforma di questo Fondo Salva-Stati. Che tutti i
partner europei hanno già votato tranne noi.
Che non ci obbliga a
nulla, non ci nuoce e ci conviene, come ripete il governatore di
Bankitalia Ignazio Visco e come scrive il capo di gabinetto del Tesoro
Stefano Varone. Ma tant’è: se proprio la destra Fratello-Leghista
volesse comunque far finta di salvare quel po’ di faccia eurofobica che
ancora gli è rimasta, basterebbe raccogliere il giusto suggerimento di
Mario Monti: insieme alla legge che ratifica il Mes, approvate un ordine
del giorno che impegna il governo a non usarlo mai, se non previo voto
parlamentare a maggioranza qualificata. E invece non ce la fanno.
Neanche ad accettare questa semplice clausola di salvaguardia. Piuttosto
scappano. Dalle Commissioni parlamentari, dal Consiglio dei ministri,
dalla realtà, dalla verità. La Sorella d’Italia si dilegua per
imprecisati “impegni personali”. I senatori azzurri danno buca, forse il
cane gli ha mangiato i compiti. Salvini urla, Nordio vaneggia,
Giorgetti latita, Santanchè periclita. Insomma, e con tutto il rispetto:
Silvio è morto, Forza Italia è morta e anche Giorgia non si sente tanto
bene.
L’opposizione, che si sveglia sempre troppo tardi dalla
pennichella pomeridiana e grida spesso troppo presto alla crisi di
governo, è quasi altrettanto patetica. I due poveri cristi Schlein e
Conte si sono fermati a Campobasso. La campagna elettorale di Roberto
Gravina è senz’altro più agevole e meno rischiosa del corteo romano
#BastaVitePrecarie, con Grillo&Ovadia incorporati. Il “Patto del
crodino”, siglato al Bar Otter con foto di rito auspicabilmente più
propizia di quella di Vasto, è sicuramente un piccolo passo per l’uomo
ma un grande passo per l’umanità. Ma ai più sfugge che questo Aventino
della maggioranza, benché non preluda ad alcun Papeete Bis, rivela che
una crepa aperta nel muro di Arcore dopo la scomparsa del Cavaliere c’è.
E su quella crepa bisognerebbe indagare, per fare quello che nessuno
tra le nomenklature di palazzo ha fatto dopo il 25 settembre: cioè
ragionare su cosa è successo in Italia, cosa è mutato negli umori
profondi del Paese e soprattutto cosa può ancora cambiare nel prossimo
futuro.
Al leader dei due schieramenti suggerirei la lettura di
una mappa preziosa, elaborata da Itanes e appena pubblicata dal Mulino
(“Svolta a destra? Cosa ci dice il voto del 2022”). Una miniera di
numeri e di informazioni, che ridimensiona molte delle frettolose
certezze acquisite in questi primi nove mesi di governo e smonta buona
parte della narrazione mediatica e conformistica sulla nuova “egemonia
culturale” dettata dalle urne. Che la destra abbia vinto con
“indiscutibile nettezza”, e che Fratelli d’Italia sia “di gran lunga il
primo partito della nazione” è evidente. Come lo è il fatto che quello
di Meloni sia il primo “governo nato direttamente dal voto” del 25
settembre 2022, al contrario di quanto era accaduto nel 2018 e nel 2013.
Quello che invece sottovalutiamo, ma che i dati e i flussi invece
confermano, è che il successo delle tre destre non stato affatto
determinato da un aumento dei voti, ma solo “dal funzionamento della
legge elettorale e della traduzione dei consensi in seggi”.
Meloni,
per vincere e conquistare la premiership, ha beneficiato di due fattori
essenziali. Il primo è l’implosione dei Cinque Stelle, che hanno
dimezzato i loro voti, si sono presentati da soli alle urne e così hanno
regalato i seggi uninominali alle destre. Il secondo è il “drammatico
incremento dell’astensione”, ingrassata essenzialmente dagli elettori in
fuga dal Movimento e solo in minima parte “tornati a casa”, a destra e a
sinistra. Il boom della Fiamma nasce da qui. La crescita del partito
meloniano è stata “eccezionale sia in termini percentuali (oltre 20
punti) sia di voti assoluti (quasi 6 milioni di voti in più)”, ha
sicuramente spostato il baricentro dell’alleanza, ma non è affatto il
prodotto “di un rafforzamento complessivo della coalizione”, perché
tutto quello che ha guadagnato Fdi lo ha perso la Lega. Dunque, numeri
alla mano, lo sfondamento a destra “ha riguardato più il verdetto uscito
dalle urne, amplificato dalle regola e dal mancato accordo tra gli
oppositori, che non effettivi cambiamenti di posizione e di orientamento
nell’elettorato”. Detta altrimenti: la massa degli italiani non si è
“spostata a destra”, non c’è stato alcun “riallineamento dell’elettorato
profondo e di lungo periodo”, non si può parlare di “trasformazione
strutturale degli equilibri politici generali”.