Archive for the ‘Editoriali – Opinioni’ Category

Il 9 maggio dimezzato: la crepa russa a Bakhmut

lunedì, Maggio 8th, 2023

di Paolo Mieli

Alla vigilia di domani, 9 maggio, quando sulla Piazza Rossa si terrà la tradizionale manifestazione celebrativa della vittoria russa sulle armate hitleriane, Evgeny Prigozhin ha cambiato idea. Giorni fa il capo della Wagner aveva annunciato l’intenzione di abbandonare l’assedio di Bakhmut e di ritirarsi il giorno successivo a quello della parata. Dopodomani, il 10 maggio. Lo aveva fatto in un video assai crudo, con ai piedi cadaveri ancora sanguinanti di suoi miliziani. Bersaglio esplicito delle sue rimostranze i due uomini che siedono al vertice delle istituzioni militari russe: il ministro della Difesa Sergej Shoigu e il capo di Stato maggiore Valerij Gerasimov.

Prigozhin non aveva ritenuto di dover ricorrere a un linguaggio edulcorato. Li aveva definiti, Shoigu e Gerasimov, «feccia», «prostitute». Sosteneva che quei due se ne stavano tranquilli in sedi «costose», felici che i loro bambini potessero restare a giocare «registrando i loro piccoli video su YouTube», mentre i figli della vera Russia morivano a grappoli a causa del mancato invio di munizioni. Munizioni che avrebbero dovuto essere stanziate dai padri di quei bambini che si divertivano con i video. Se quei proiettili fossero arrivati per tempo, i morti si sarebbero ridotti dell’ottanta per cento. E invece i «volontari» della Wagner erano caduti in una misura impressionante (cinque volte quel che era stato messo nel conto) per responsabilità di capi che — proseguiva alterato l’autore della denuncia — se ne stavano ad «ingrassare» in «uffici di mogano».

Parole del tutto inusuali anche per uno come Prigozhin poco incline alla diplomazia. Un modo assai brutale di chiamare in causa personaggi del calibro di Shoigu e Gerasimov. Parole, per di più, non sconfessate da Putin.

Non è tutto. Il leader ceceno Ramzan Kadyrov (che pure in passato si era analogamente lamentato di non aver ricevuto adeguato sostegno dai vertici militari russi) si era detto pronto a sostituire i miliziani della Wagner sul fronte di Bakhmut. Al fine — dichiarava — di «ripulire» la città «dalla Nato e dai satanisti ucraini». In seguito, una mina anticarro ha fatto saltare in aria l’auto dello scrittore Zakhar Prilepin che di Prigozhin è un celebre estimatore. Prilepin (a differenza del suo autista) non è morto come era accaduto invece, un mese fa, per un altro seguace di Prigozhin, il blogger Vladlen Tatarsky. A questo punto Prigozhin forse ha colto nell’aria più di un avvertimento ed è tornato sui suoi passi: ha annunciato che stavolta ha motivo di credere alle promesse di rifornimenti da parte di Shoigu e Gerasimov e che resterà con le sue truppe a Bakhmut.

Qualche tempo fa si diffuse la notizia che nello stato maggiore di Kiev in molti si erano pronunciati per l’abbandono di Bakhmut dal momento che la città, dopo nove mesi di assedio, è pressoché distrutta e inabitabile. In quell’occasione – sempre secondo queste indiscrezioni, mai smentite – era stato Zelensky in persona a convincere i suoi, uno ad uno, che il valore della difesa di Bakhmut era intrinsecamente connesso alla richiesta di nuovi aiuti all’Occidente. Non consentire ai russi di poter vantare lo sfondamento in quella città era l’indispensabile premessa per l’eventuale nuova offensiva di primavera. Ma soprattutto avrebbe provocato crepe inimmaginabili negli alti comandi russi. Così è stato. Indipendentemente dalle congetture sulla paternità degli attentati che si moltiplicano in territorio russo, le parole di Prigozhin segnalano una caduta del senso di reciproca fiducia e di lealtà negli alti comandi russi. Saranno quelle parole a fare da contesto ai «festeggiamenti» del 9 maggio. Celebrazioni sfortunate: un anno fa avrebbero dovuto essere l’occasione per l’annuncio della conclusione dell’«operazione speciale» in Ucraina. Quest’anno, pur in tono minore, avrebbero avuto bisogno quantomeno di un trofeo. E quel trofeo doveva essere la città di Bakhmut.

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Il fantasma presidenziale che si aggira per l’Italia

domenica, Maggio 7th, 2023

MASSIMO GIANNINI

Dunque ci risiamo. Il fantasma “presidenzialista” è di nuovo tra noi, come è già successo almeno altre quattro volte nell’eterna transizione italiana. Dopo le fumose Commissioni demitiane del ‘90 e le avventurose Bicamerali dalemiane del ‘98, i pastrocchi cesaristi di Berlusconi nel 2005 e i sogni medicei di Renzi nel 2016, adesso è Giorgia Meloni a riaprire il solito, sconclusionato e velleitario “cantiere delle riforme” (che dalle nostre parti ricorda la Sagrada Familia di Gaudì, ma senza averne ovviamente la sontuosa maestà). È un investimento politico che non può farle lucrare dividendi immediati. Non c’è il tempo né il modo per chiudere in fretta un accordo con le opposizioni, né per imporre alle Camere un testo di legge fatto e finito.

Ma con questa mossa la Sorella d’Italia costruisce la sovrastruttura ideale che le consente di attraversare dall’alto l’intera legislatura, dando un orizzonte e un senso compiuto alle tre fasi sulle quali sta strutturando il nucleo duro del suo “governo personale” dentro il “governo nazionale”. Come ha scritto Lucia Annunziata: il controllo totale dell’economia attraverso i vertici delle cinque grandi aziende controllate da Tesoro (alle quali ora si aggiunge anche la Rai e perfino l’Inps e l’Inail), la gestione diretta dei fondi del Pnrr attraverso la “Struttura di missione” trasferita a Palazzo Chigi, l’Opa sul ceto medio attraverso l’appropriazione della Festa del Primo Maggio, celebrata contrapponendo simbolicamente “il governo che lavora” al “sindacato che manifesta”. Ora, a inverare e a dare forma “sistemica” a queste singole tappe del percorso di consolidamento della leadership meloniana, si aggiunge il “presidenzialismo”.

Qualunque cosa significhi, perché ancora non sappiamo se nella versione della nuova destra post-missina questa forma di governo di cui il Belpaese discute da decenni penda più verso il modello americano, quello francese o quello tedesco. O se invece non scivoli, com’è probabile e com’è sempre accaduto finora, verso un patchwork tutto italiano, studiato e cucito a misura del Capo di turno e della maggioranza del momento. Diciamolo subito, a scanso di equivoci: la presidente del Consiglio ha pieno diritto di indicare al Paese un suo disegno riformatore, e di metterlo all’ordine del giorno del confronto politico. Almeno in questo, c’è coerenza rispetto alle promesse dei “Patrioti”. Lo aveva detto lei stessa, nel suo discorso programmatico per la fiducia parlamentare.

Conviene rileggere quel passaggio, scandito in aula il 25 ottobre: «Siamo fermamente convinti del fatto che l’Italia ha bisogno di una riforma costituzionale in senso presidenziale, che garantisca stabilità e restituisca centralità alla sovranità popolare. Una riforma che consenta di passare da una “democrazia interloquente” a una “democrazia decidente”. Vogliamo partire dall’ipotesi del semipresidenzialismo sul modello francese, che in passato aveva ottenuto un ampio gradimento anche da parte del centrosinistra, ma rimaniamo aperti anche ad altre soluzioni. Vogliamo confrontarci su questo con tutte le forze politiche presenti in Parlamento, per giungere alla riforma migliore e più condivisa possibile. Ma sia chiaro che non rinunceremo a riformare l’Italia di fronte a opposizioni pregiudiziali. In quel caso ci muoveremo secondo il mandato che ci è stato conferito su questo tema dagli italiani: dare all’Italia un sistema istituzionale nel quale chi vince governa per cinque anni e alla fine viene giudicato dagli elettori per quello che è riuscito a fare». Questo preambolo meloniano, sul quale presumibilmente si concentrerà il primo incontro di dopodomani con il Pd di Elly Schlein, pone alla politica e al Paese due grandi questioni.

Partiamo dalla prima questione: il merito. Con buona pace della ministra Casellati, l’era delle ambigue fumisterie è finita. La maggioranza dica con chiarezza qual è la forma di governo che ha in mente, se davvero ne ha una. Si può eleggere direttamente un presidente di uno Stato Federale bilanciato da un Congresso forte e da una Corte Suprema ancora più forte, come avviene negli Stati Uniti. Oppure si può eleggere direttamente un presidente della Repubblica che tuttavia “coabita” con un capo del governo, come fanno in Francia. Si può scegliere un Cancelliere, che convive con un due Camere essenziali a partire da quella che rappresenta i Länder, come si fa da decenni la Germania. Oppure si può votare direttamente un presidente del Consiglio, immaginando di rafforzare i suoi poteri molto più di quanto non è accaduto finora. Ognuno di questi sistemi ha caratteristiche radicalmente diverse, come insegnava Giovanni Sartori. Quale può adattarsi meglio a una realtà come quella italiana, a prescindere dagli equilibri politici di questa fase?

È questa la domanda cruciale alla quale dovrebbe rispondere Meloni. È chiaro, e non da oggi, che in Italia la macchina delle istituzioni gira a vuoto. Le coalizioni faticano, i governi traballano, il Parlamento è poco più che un votificio. Ci salvano solo gli organi di garanzia, Quirinale e Consulta. E qui le colpe sono bipartisan, visto che la sinistra, quanto a mancata volontà riformatrice e ri-costituente, non è meno responsabile della destra. Per questo è giusto pensare finalmente a una seria e buona riforma. Ma cos’è una riforma costituzionale “che garantisca stabilità e restituisca centralità alla sovranità popolare”? Che significa passare da una “democrazia interloquente” a una “democrazia decidente”? In queste vaghe parole della Presidente risuona solo l’eco di una certa “volontà di potenza” che fu già del Cavaliere.

Se guardiamo alla pratica, possiamo dire che la svolta presidenzialista è quanto meno inattuale. Parafrasando Groucho Marx: il presidenzialismo è morto (come dimostra il mezzo golpe a Capitol Hill degli sciamani di Trump), il semipresidenzialismo è quasi morto (come testimonia la vandea previdenziale che nelle piazze e nell’Assemblée Nationale sta schiantando Macron), e anche il cancellierato non si sente molto bene (come conferma l’intensità delle proteste sociali che anche nel Bundestag zavorrano Scholz). Se guardiamo alla teoria, ognuna delle ipotesi in campo può dare “stabilità”: presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato inglese, cancellierato tedesco. Ma intanto bisogna scegliere, perché “chi non distingue, pasticcia” (ancora Sartori). E poi quel risultato si raggiunge solo grazie a due presupposti irrinunciabili: un assetto costituzionale-istituzionale-elettorale coerente, un meccanismo di check and balance efficiente. Su questo, nulla sappiamo della Dottrina dell’italica fratellanza. Ed è un dramma. Perché trasformare in presidenziale una democrazia parlamentare, senza un adeguato bilanciamento dei poteri e un collaudato sistema elettorale, mette a repentaglio la stessa democrazia. Facciamo due esempi.

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Carlo III, il sovrano pensoso riuscirà ad essere popolare?

domenica, Maggio 7th, 2023

di Beppe Severgnini

L’hanno descritto apatico, distaccato, stanco. No: Carlo III era pensoso. Sotto la pioggia di Londra – il cielo inglese non perdona neppure i reali – è andato in scena uno spettacolo per il mondo e un esame di coscienza per la famiglia reale britannica: saremo ancora degni della corona, del ruolo, dei privilegi, della nostra storia? La domanda è questa. Carlo, uomo intelligente, lo sa.

Ciò che è accaduto alla famiglia reale negli ultimi trent’anni non è stato esemplare, e alcuni sudditi hanno iniziato a metterla in discussione. Non molti. Sono molti di più, e più insidiosi, coloro che stanno perdendo interesse nell’istituzione. L’anacronismo di una cerimonia come quella di ieri è stato cancellato dalla bellezza delle coreografie, dalla forza dei simboli, dalla potenza della musica, dalla dolcezza dei ricordi collettivi. Ma tutto questo, se i reali non meritano ciò che il popolo gli concede, non basterà.

Le monarchie raramente vengono cacciate: si eliminano da sole. Carlo ne è consapevole, e tutto lascia pensare che sarà un buon sovrano, attento e pratico. «To serve, not to be served». Per servire, non per essere servito. Queste parole, pronunciate dall’arcivescovo di Canterbury e ripetute dal re, sono la chiave del futuro. Se la monarchia servirà, resterà. Se si renderà irrilevante – un versione pomposa di Hollywood – verrà dismessa. Harry dovrebbe spiegarlo alla moglie Meghan, al ritorno in California.

La figura solitaria del duca di Sussex non ha tolto festosità all’evento. Gli inglesi hanno un enorme talento per le cerimonie, bisogna dire (se lo trasferissero al governo, guiderebbero l’Europa e non l’avrebbero abbandonata). Lo spettacolo della Coronation è riuscito ad affascinare – a commuovere, perfino – un mondo in grande cambiamento. Nell’Occidente che mette continuamente in discussione sé stesso – passato, tradizioni, gerarchie, genere – la monarchia britannica appare immune.

Certo, è stata cauta nell’affrontare i tempi nuovi. La varietà di etnie presenti ieri nell’abbazia di Westminster – a cominciare dal primo ministro in carica – era impressionante e ammirevole. I personaggi controversi, come il principe Andrea, silenziosamente messi da parte. Dogmi e princîpi, avvolti in un’attenta bambagia verbale. Era bizzarro ascoltare Carlo che assumeva la guida della chiesa anglicana, e prometteva d’essere un buon protestante, quand’è noto il suo ecumenismo. «Sarò il difensore delle fedi», ha detto più volte. Quel plurale i suoi antenati non l’avrebbero usato.

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Il centrodestra apre il dialogo sulle riforme: banco di prova per la sinistra

sabato, Maggio 6th, 2023

Santi Bailor

Presidenzialismo e autonomia, sono due parole chiave delle riforme istituzionali proposte dal centrodestra agli italiani nel programma elettorale del 2022 e su cui il governo Meloni oggi procede con tenacia e ragionevolezza. La tenacia di credere in una modernizzazione del Paese e la ragionevolezza di parlarne con le opposizioni seppure sinora – da quelle parti – siano arrivate soprattutto critiche. E appunto nell’ottica della ragionevolezza e del confronto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha deciso di convocare per martedì prossimo le opposizioni e cominciare un primo giro di dialogo su quale presidenzialismo adottare e pure sullo strumento da preferire per realizzarlo.

“Facciamo insieme le riforme”. Meloni si prepara al primo faccia a faccia con Schlein

“Facciamo insieme le riforme”. Meloni si prepara al primo faccia a faccia con Schlein

L’apertura del centrodestra ai suoi oppositori, oltreché una scelta politica di responsabilità e coesione nazionale, è anche l’occasione per le sinistre e per il Partito democratico di finirla coi continui tormentoni su una destra pericolosa (che non esiste) e di guardare finalmente alla realtà, lasciando il Novecento alla storia e badando al presente.

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Per una nuova comunicazione della scienza

sabato, Maggio 6th, 2023

Gianni Canova e Marco Montorsi |

Caro direttore, il mondo dell’informazione «disintermediata» è un mondo nel quale è venuta meno la tradizionale articolazione del principio di autorità. Non c’è pulpito che non sia stato messo in crisi dall’incalzare di una comunicazione «bottom up», in un contesto in cui i mezzi di comunicazione di massa sono attraversati da una rivoluzione permanente e chiunque può generare contenuti nuovi. Anche se è forte la tentazione di sfiorare le corde del rimpianto, bisogna sapere che ci sono opportunità straordinarie: se qualcuno ha qualcosa da dire, se ha competenze e la capacità di comunicarle in modo semplice ed efficace (che non è un dono innato ma il frutto di un sapiente allenamento), oggi può cercare un pubblico con relativa facilità. Ma ci sono anche pericoli altrettanto straordinari. Questo è tanto più vero quanto più ci avviciniamo a temi e questioni d’immediato interesse della persona. La salute, per esempio.

La relazione fra medico e paziente, ispirata per lungo tempo a un modello unilaterale , si è profondamente modificata negli ultimi anni richiedendo al personale sanitario di utilizzare – e a volte apprendere – un nuovo modello comunicativo, più interattivo ma comunque sempre improntato a superare una netta asimmetria informativa. Nel momento in cui va in crisi il principio di autorità medesimo, però, i depositari di conoscenze altamente specializzate non necessariamente fanno storia a sé. Il medico è sollecitato a comunicare non solo col paziente, ma in generale con l’opinione pubblica, a condividere con essa informazioni e conoscenza. E tuttavia, nel momento in cui apre un account social, uno vale uno: anche lui, a prescindere dal suo bagaglio di conoscenze tecniche e specialistiche.

L’esperienza della pandemia non va dimenticata. È stata, sul piano della comunicazione, un’esperienza contraddittoria. La presenza pervasiva dei social porta con sé il rischio di informazioni non filtrate e non selezionate, «fake news», che se possiamo riportare alla categoria del pittoresco quando si tratta di terrapiattismo o cospirazioni rettiliane, diventano problemi sociali quando riguardano, per esempio, terapie non vagliate scientificamente o «sperimentazioni» proposte senza che abbiano avuto riscontro sperimentale, empirico, regolatorio. Dall’altra, l’emergenza sanitaria ha reso mediaticamente spendibile, per una volta, scienze che nel nostro Paese sono tradizionalmente ai margini dei grandi circuiti dell’informazione, come ad esempio infettivologia, immunologia ed epidemiologia. Proprio per questo tali circuiti sono privi del vocabolario necessario per discuterne in modo ponderato e finiscono per fare la cosa più semplice, economica e pericolosa: farne materiale da talk show. Riducendo cioè le conoscenze specifiche dell’esperto, del clinico, dello scienziato al livello di opinione non supportata da dati. Quando l’opinione pubblica ha cercato visioni autorevoli, in un momento di grande tensione e pericolo, quell’autorità è stata di nuovo minata alla radice.

Sono queste le ragioni che hanno portato i nostri atenei e noi per primi a ragionare su una collaborazione sul terreno della comunicazione della scienza e della medicina. I saperi scientifici sono un serbatoio di conoscenze ineludibile per capire l’oggi e costruire il domani. La partecipazione di medici e scienziati al dibattito pubblico è necessaria, anche se non siamo sotto scacco di una malattia emergente, ma richiede conoscenze delle logiche dei media e consapevolezza dell’impatto che le dichiarazioni pubbliche possono avere. I professionisti dell’informazione e comunicazione debbono, simmetricamente, conoscere e frequentare il metodo scientifico, anche per imparare a non ridurre l’informazione scientifica a istogrammi e infografiche, a numeri la cui potenza retorica supera oggi quella di qualsiasi parola ma rischia di produrre più fraintendimenti che informazione. A non scambiare, insomma, la scienza (che è un metodo) per l’idolatria del dato decontestualizzato.

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Quando l’America non fa più paura sono gli europei a rischiare tutto

sabato, Maggio 6th, 2023

Lucio Caracciolo

L’Italia ha un problema: l’America non fa più paura ai suoi nemici. A prima vista, problema americano. Lo è certo. Però è soprattutto affare nostro e di tutti i satelliti dell’informale impero a stelle e strisce configurato in Europa dalla Nato. Perché Russia e Cina non sembrano così pazze da attaccare frontalmente gli Stati Uniti – almeno per ora. Ma gli anelli più esposti della catena strategica a guida americana non sono al sicuro. È il caso dell’Ucraina oggi, potrebbe esserlo di Taiwan domani.

Nel primo caso, l’America ha stabilito di non voler fare esplicitamente la guerra alla Russia. Però il sostegno decisivo a Kiev assomiglia molto a quel che ha detto di non volere. Nel secondo, alleati e amici asiatici di Washington – tutti clienti economici della Cina – sono sempre meno certi della disponibilità americana a ingaggiare uno scontro fuori tutto con Pechino pur di difenderli. E si regolano di conseguenza. Armandosi. Per dirla con un alto ufficiale della Marina giapponese: ieri era il tempo dei delfini, oggi degli squali.

Se come afferma il generale John R. Allen, uno dei più influenti strateghi americani, la deterrenza americana “non sta funzionando”, chi ci garantisce in caso di aggressione? Perché è un fatto, scrive Allen nel prossimo volume di Limes (“Il bluff globale” in uscita il 13 maggio), che «i nostri avversari, principalmente Russia e Cina, non sembrano intimiditi né dalla prospettiva di subire una rappresaglia né dal rischio di non raggiungere i loro obiettivi, sicché entrambi hanno preso l’iniziativa nei nostri confronti».

Ucraina – Russia, le news sulla guerra di oggi 6 maggio

A forza di tracciare “linee rosse” con l’inchiostro simpatico, cui infatti nessuno fa caso, Washington ha messo in questione il crisma essenziale di qualsiasi potenza: la sua credibilità. Crisi anticipata nel 2004 da Sam Huntington, celebre teorico dello “scontro di civiltà”, intitolando “Who are we?” un suo saggio sulle faglie etniche e culturali dell’America. Ma se ti chiedi chi sei, se dubiti di te stesso, come fai a pensare che chi ti osserva, amico o nemico, non dubiti di te? Se poi al rompighiaccio Huntington seguono vent’anni di americanissima letteratura dell’orrore sul declino a stelle e strisce, l’impressione che il Numero Uno sia sfidabile diventa senso comune.

E’ avviata una transizione egemonica in cui i dogmi del “mondo basato sulle regole”, ovvero della globalizzazione promossa dalla “superpotenza unica”, non sono più applicabili. O lo sono a spese dell’America. Tesi affermata dalla stessa amministrazione Biden. Il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, l’ha stabilito il 27 aprile. Finita l’epoca in cui a Washington si giurava che “l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte e l’ordine globale più pacifico e cooperativo. Non è andata così”. Si delineano nuove ricette geoeconomiche – tra cui forti dosi di capitalismo di Stato – e insieme una revisione strategica che impone agli Usa di limitare l’esorbitante impegno nel mondo per dedicarsi a lenire le ferite di casa. Quella che tre anni fa Sullivan già aveva battezzato “geopolitica per la classe media”. Non-geopolitica, in chiaro.

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Se il clima spinge l’inflazione

giovedì, Maggio 4th, 2023

Mario Deaglio

Nella giornata di ieri sui mercati finanziari mondiali si è ripetuta una sceneggiata che abbiamo visto troppe volte negli ultimi dodici mesi: occhi tutti puntati sulla Fed che deve decidere se, e di quanto, aumentare ancora il costo del denaro, dato che l’inflazione sembra seguire un andamento altalenante, troppo lentamente orientato al ribasso. Quando prevale l’aspettativa che la Fed (e con essa, a tempo debito, la Bce e le altre banche centrali) non rialzi più i tassi – o li rialzi meno che nei nel recente passato – i mercati brindano in anticipo e i listini azionari salgono fortemente; nel caso contrario, i listini scendono, spesso in maniera rilevante. L’inflazione, intanto, prosegue un suo corso che punta verso il basso ma in maniera assai più lenta e più contrastata delle attese e il Pil dei paesi avanzati prosegue a salire a passi lentissimi, dando l’impressione di non sapere tirarsi fuori dalle difficoltà.

Perché non riusciamo a uscire da queste sabbie mobili, rese più insidiose dall’andamento sempre più incerto del conflitto ucraino e dall’esplosione improvvisa di altri conflitti di grandi dimensioni come quello che sta sconvolgendo il Sudan? La risposta potrà sembrare strana, perfino paradossale: le banche centrali non soltanto non sono onnipotenti ma soprattutto non possono nulla contro alcune delle cause dell’inflazione mondiale. In particolare si rivelano del tutto inefficaci di fronte a un cambiamento climatico che genera inflazione perché devasta la più basilare delle catene globali del valore, quella alimentare. Il circuito contro cui le medicine finanziarie non riescono a produrre effetti rilevanti si compone di tre fasi: 1) il riscaldamento globale genera siccità 2) la siccità riduce la produzione alimentare 3) i prezzi dei generi alimentari salgono fortemente. Vi è poi una quarta fase che riguarda soprattutto il Sud del mondo, ossia l’Africa sub-sahariana, parte dell’Asia Meridionale e l’America Latina: una porzione non indifferente della popolazione agricola fugge dalle campagne divenute meno produttive e si incammina verso le aree urbane, cercando di raggiungere quelle più ricche, quasi sempre all’estero.

Nei paesi ricchi, Italia compresa, le cose non arrivano a punte di drammaticità ma il meccanismo continua a procedere nello stesso modo: l’inflazione acquisita ad aprile, quella che si realizzerebbe se da maggio alla fine del 2023 l’aumento dei prezzi fosse pari a zero, è pari al 9,2 per cento per i generi alimentari e le bevande analcoliche (che sono in cima a questa poco edificante classifica) contro una media generale del 5,4 per cento. A questo punto, il fenomeno da statistico diventa sociale: beni alimentari, infatti, incidono maggiormente sui bilanci delle famiglie meno abbienti e quindi le variazioni dei loro prezzi peggiorano soprattutto la situazione dei poveri e allargano il divario dei redditi.

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Democrazie e autocrazie, gli esiti imprevisti

giovedì, Maggio 4th, 2023

di Angelo Panebianco

Il braccio di ferro in Ucraina spinge a sottovalutare l’importanza delle leadership

Nell’attesa, forse vana, dello scacco matto (una irresistibile controffensiva ucraina, una ripresa in grande stile dell’avanzata russa), constatiamo almeno che il conflitto in Ucraina ha due caratteristiche. La prima è di essere una «guerra costituente»: dai suoi esiti, plausibilmente, dipenderanno in larga misura l’ordine (chi vi eserciterà l’egemonia?) che si instaurerà nel continente europeo nei prossimi anni nonché, più in generale, gli equilibri globali (una vittoria o, per lo meno, una non-sconfitta russa, avvantaggerebbe l’alleanza cino-russa anche in Asia e in tanti altri luoghi). La seconda caratteristica è di essere un test sugli atteggiamenti degli europei: a causa della guerra, europei filo e anti-occidentali sono in grado di riconoscersi e di contarsi. Possiamo ora «pesare», mettere sui due piatti della bilancia, rispettivamente, le preferenze per l’ordine occidentale, i suoi principi, le sue regole, e le preferenze per l’ordine autocratico, i suoi principi, le sue regole. E stabilire quale dei due piatti sia più pesante dell’altro. Due opposte tesi si confrontano e lo fanno da molto prima che iniziasse l’invasione russa dell’Ucraina.

Per la prima tesi, la decadenza occidentale è inevitabile. Secondo questo orientamento, il declino della potenza del Paese-leader dell’Occidente, gli Stati Uniti, non potrà essere arrestato. Il punto essenziale, soprattutto, per chi la pensa così, è che gli occidentali, o larga parte di essi, non credono più nel valore della propria civiltà. Non sono disposti a difenderla. Come ha detto una volta Putin, il tempo della società liberale è ormai finito. Il futuro appartiene alle autocrazie. Democrazia liberale e società aperta non lo controllano più. Sono i residui di una civiltà vecchia, morente. Xi Jinping ha espresso spesso idee simili. Gli autocrati di Pechino e di Mosca non dubitano della loro superiorità, del fatto che sconfiggeranno l’Occidente e se ne spartiranno le spoglie. È una tesi diffusa anche qui da noi, benché alcuni di coloro che la condividono se ne rallegrino e altri se ne dolgano.

La seconda tesi è quella di chi continua a scommettere sulla forza e la vitalità delle democrazie occidentali. Nonostante i tanti acciacchi e al netto di tutti gli errori, le democrazie hanno un insieme di «virtù» che mancano alle autocrazie. Diffondono libertà, benessere, diritti di cittadinanza. Offrono a chi ne fa parte un modo di vita migliore di quello che sono in grado di offrire le autocrazie. Inoltre, anche se possono sembrare fragili (e aperte alle influenze maligne delle autocrazie), e divise, spesso ferocemente divise, al loro interno, sono in grado di mobilitare risorse umane e materiali, suscitare energie, che solo le società libere possiedono. Persino il confronto con la temibilissima Cina, nel lungo periodo, secondo i sostenitori di questa tesi, dovrebbe risolversi a nostro vantaggio. Democrazia e capitalismo di mercato sconfiggeranno autocrazia e capitalismo politico, controllato e guidato dallo Stato (nel caso della Cina, dal partito-Stato). Anche perché, per quanto l’immagine delle democrazie occidentali possa essere oggi appannata, i «beni» di cui dispongono, il loro stile di vita, restano i più attraenti, corrispondono alle aspirazioni di tante persone che vivono sotto cieli autocratici in ogni angolo del mondo.

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L’abolizione del reddito lascia i poveri indifesi

mercoledì, Maggio 3rd, 2023

Chiara Saraceno

Il taglio del cuneo fiscale, che da provvisorio forse diventerà strutturale, in parte risponde alle difficoltà dei lavoratori poveri che in questi mesi di alta inflazione si sono ulteriormente impoveriti. Una cosa senza dubbio positiva, che tuttavia lascia intatte alcune delle cause che, insieme ai bassi salari, danno luogo al lavoro povero: il part time involontario, cresciuto a dismisura negli ultimi anni sia tra le donne sia tra gli uomini, ed il precariato. Anzi, il decreto lavoro approvato dal Consiglio dei Ministri con grande spolverio il primo maggio per certi versi le rafforza e allarga, con la parziale liberalizzazione delle possibilità di rinnovo dei contratti a tempo determinato e l’estensione dell’uso dei voucher proprio nei settori – agricoltura e turismo – in cui già ora c’è una forte concentrazione di lavoro povero e con scarse tutele. Ricordo che chi lavora “a voucher” non ha diritto a indennità di malattia, di maternità, di disoccupazione. Forse non avrà diritto neppure al taglio del cuneo fiscale, non apparendo come lavoratore/lavoratrice. E rischierà, se questo è l’unico reddito di cui dispone, di ricadere tra i poveri bisognosi di assistenza.

Un’assistenza di cui tuttavia il decreto stringe fortemente le maglie. Il Reddito e pensione di cittadinanza verranno infatti sostituite da due misure distinte, che dividono nettamente in due i poveri non, contrariamente a quanto vuole la narrazione governativa, tra occupabili e non occupabili, ma tra persone che vivono in famiglie senza minorenni o anziani ultrasessantenni o disabili, o non lo sono esse stesse, e famiglie che invece hanno al proprio interno queste figure. Le seconde avranno diritto all’assistenza – definita Assegno di inclusione – grosso modo alle stesse condizioni del RdC per quanto riguarda i requisiti economici (quindi mantenendo gli stessi errori di disegno segnalati dal comitato scientifico da me presieduto per quanto riguarda la necessità di rispettare, oltre al requisito Isee, tutti e tre i requisiti relativi a reddito, risparmio e proprietà immobiliare). Ma con un sostanziale peggioramento, perché i figli adulti maggiorenni non vengono tenuti in considerazione né per valutare l’adeguatezza dei requisiti né per definire l’ammontare del sostegno. In questo modo molte famiglie con minorenni verranno escluse perché superano le soglie stabilite, tanto più che anche il peso dei minorenni, già svantaggioso nella scala di equivalenza RdC, viene ulteriormente ridotto. L’unico miglioramento, imposto da una procedura d’infrazione europea, riguarda l’abbassamento del requisito di residenza da dieci a cinque anni. Positiva è l’attribuzione ai servizi sociali comunali, e non ad un algoritmo, della valutazione multidimensionale della situazione della famiglia e dei singoli componenti, sulla base della quale decidere se i componenti adulti vadano inviati ai centri per l’impiego e siano tenuti agli obblighi connessi, o invece debbano essere presi in carico dai servizi sociali. Peccato che non vengano previste risorse aggiuntive da destinare ai comuni per questa nuova mole di lavoro loro assegnata.

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Il valore del potere neutro

mercoledì, Maggio 3rd, 2023

di Antonio Polito

Come il capo dello Stato, anche la Corte Costituzionale ha più volte dato prova di una funzione «moderatrice»

Nel triangolo di magnifici palazzi che circonda la Fontana dei Dioscuri, in cima al colle del Quirinale, opera quello che potremmo definire il «potere neutro» della nostra Repubblica. Il copyright di questa formula appartiene all’abate Sieyès, non a caso considerato dal pensiero liberale come «l’inventore del sistema rappresentativo» alla fine del Settecento. Di fronte alle convulsioni della Rivoluzione francese, Sieyès si pose infatti il problema di come limitare il «potere illimitato» della «volontà generale» di Rousseau, per mitigare i pericoli di dispotismo insiti in quella nuovissima forma di governo che era allora la democrazia. All’inizio pensava a un «giurì», a un arbitro , che vegliasse «con fedeltà alla salvaguardia del deposito costituzionale», moderasse le tensioni e i conflitti tra potere esecutivo e legislativo, e agisse «al riparo da passioni funeste». Poi, con la Restaurazione, gli sembrò che un monarca costituzionale potesse assolvere alla stessa funzione. È dunque facile vedere nella presidenza della Repubblica e nella Consulta gli eredi moderni di tale discendenza liberale. E i vantaggi che essi offrono alla democrazia sono stati di nuovo evidenti in queste settimane. Il capo dello Stato Sergio Mattarella si è infatti impegnato con numerosi discorsi in una vera e propria pedagogia costituzionale, mettendo in relazione tra loro i due grandi dibattiti che hanno chiamato in causa le radici e lo spirito della Repubblica: quello sulla Resistenza antifascista in Italia e quello sulla guerra di resistenza in Ucraina.

«La furia bellicista russa», ha detto il presidente con un linguaggio che non lascia spazio all’ambiguità, ripropone infatti all’Europa la minaccia di una «esasperazione nazionalistica che pretende di violare confini, di conquistare spazi territoriali». Il parallelo storico non può che essere con l’espansionismo nazista: «Come dimenticare la vicenda dei Sudeti e della Conferenza di Monaco, che aprirono la via alla Seconda guerra mondiale?». Ecco perché il solenne impegno «ora e sempre Resistenza», che Mattarella ha ripetuto a Cuneo, si invera oggi nel «sostegno all’Ucraina finché è necessario, finché occorre, sotto ogni profilo; di forniture militari, finanziario, umanitario. Se infatti l’Ucraina fosse lasciata alla mercé di questa aggressione, altre ne seguirebbero».

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