Il 9 maggio dimezzato: la crepa russa a Bakhmut
lunedì, Maggio 8th, 2023Alla vigilia di domani, 9 maggio, quando sulla Piazza Rossa si terrà la tradizionale manifestazione celebrativa della vittoria russa sulle armate hitleriane, Evgeny Prigozhin ha cambiato idea. Giorni fa il capo della Wagner aveva annunciato l’intenzione di abbandonare l’assedio di Bakhmut e di ritirarsi il giorno successivo a quello della parata. Dopodomani, il 10 maggio. Lo aveva fatto in un video assai crudo, con ai piedi cadaveri ancora sanguinanti di suoi miliziani. Bersaglio esplicito delle sue rimostranze i due uomini che siedono al vertice delle istituzioni militari russe: il ministro della Difesa Sergej Shoigu e il capo di Stato maggiore Valerij Gerasimov.
Prigozhin non aveva ritenuto di dover ricorrere a un linguaggio edulcorato. Li aveva definiti, Shoigu e Gerasimov, «feccia», «prostitute». Sosteneva che quei due se ne stavano tranquilli in sedi «costose», felici che i loro bambini potessero restare a giocare «registrando i loro piccoli video su YouTube», mentre i figli della vera Russia morivano a grappoli a causa del mancato invio di munizioni. Munizioni che avrebbero dovuto essere stanziate dai padri di quei bambini che si divertivano con i video. Se quei proiettili fossero arrivati per tempo, i morti si sarebbero ridotti dell’ottanta per cento. E invece i «volontari» della Wagner erano caduti in una misura impressionante (cinque volte quel che era stato messo nel conto) per responsabilità di capi che — proseguiva alterato l’autore della denuncia — se ne stavano ad «ingrassare» in «uffici di mogano».
Parole del tutto inusuali anche per uno come Prigozhin poco incline alla diplomazia. Un modo assai brutale di chiamare in causa personaggi del calibro di Shoigu e Gerasimov. Parole, per di più, non sconfessate da Putin.
Non è tutto. Il leader ceceno Ramzan Kadyrov (che pure in passato si era analogamente lamentato di non aver ricevuto adeguato sostegno dai vertici militari russi) si era detto pronto a sostituire i miliziani della Wagner sul fronte di Bakhmut. Al fine — dichiarava — di «ripulire» la città «dalla Nato e dai satanisti ucraini». In seguito, una mina anticarro ha fatto saltare in aria l’auto dello scrittore Zakhar Prilepin che di Prigozhin è un celebre estimatore. Prilepin (a differenza del suo autista) non è morto come era accaduto invece, un mese fa, per un altro seguace di Prigozhin, il blogger Vladlen Tatarsky. A questo punto Prigozhin forse ha colto nell’aria più di un avvertimento ed è tornato sui suoi passi: ha annunciato che stavolta ha motivo di credere alle promesse di rifornimenti da parte di Shoigu e Gerasimov e che resterà con le sue truppe a Bakhmut.
Qualche tempo fa si diffuse la notizia che nello stato maggiore di Kiev in molti si erano pronunciati per l’abbandono di Bakhmut dal momento che la città, dopo nove mesi di assedio, è pressoché distrutta e inabitabile. In quell’occasione – sempre secondo queste indiscrezioni, mai smentite – era stato Zelensky in persona a convincere i suoi, uno ad uno, che il valore della difesa di Bakhmut era intrinsecamente connesso alla richiesta di nuovi aiuti all’Occidente. Non consentire ai russi di poter vantare lo sfondamento in quella città era l’indispensabile premessa per l’eventuale nuova offensiva di primavera. Ma soprattutto avrebbe provocato crepe inimmaginabili negli alti comandi russi. Così è stato. Indipendentemente dalle congetture sulla paternità degli attentati che si moltiplicano in territorio russo, le parole di Prigozhin segnalano una caduta del senso di reciproca fiducia e di lealtà negli alti comandi russi. Saranno quelle parole a fare da contesto ai «festeggiamenti» del 9 maggio. Celebrazioni sfortunate: un anno fa avrebbero dovuto essere l’occasione per l’annuncio della conclusione dell’«operazione speciale» in Ucraina. Quest’anno, pur in tono minore, avrebbero avuto bisogno quantomeno di un trofeo. E quel trofeo doveva essere la città di Bakhmut.