Archive for the ‘Editoriali – Opinioni’ Category

Vittorio Feltri: “Ora datemi dello sporco razzista”. Migranti, l’unica soluzione

martedì, Maggio 2nd, 2023

Vittorio Feltri

Sono consapevole: l’articolo che mi acne che mi costerà aspre critiche, la più pungente delle quali sarà che Feltri è uno sporco razzista, forse anche fascista. Ormai certi argomenti che coinvolgono gli stranieri sono autentici tabù. Mi riferisco agli stupri che quotidianamente la cronaca registra e in genere alle rapine e alle malefatte pubblicate puntualmente dai giornali, come fossero le previsioni del tempo. La misura è colma, ma non c’è verso che le nostre pur lodevoli forze dell’ordine riescano a opporsi efficacemente al crescente numero di malviventi che infestano i centri abitati. 

Se poi qualcuno, come sto facendo io, punta l’indice accusatore prevalentemente sugli stranieri sbandati, viene spolpato vivo da chi predica solidarietà e comprensione verso coloro che arrivano dal Continente Nero. Ovviamente esistono anche i farabutti connazionali, ma non si può negare che la maggioranza debordante dei responsabili di vari reati contro le persone sia costituita dai disperati giunti dalle nostre parti coi barconi. Gente che non siamo capaci di ospitare civilmente, assicurandole una casa e un lavoro, pertanto incline a commettere reati gravi per tirare a campare. Nei dibattiti televisivi tracimano coloro che insistono nel dire che i navigatori improvvisati devono puntare ad attraccare sulle nostre sponde, e predicano che bisogna rispettare la legge nel mare la quale impone di salvare chi tra le onde è in difficoltà. 

Belle parole, bei sentimenti, poi però le tragedie evitate in acqua si trasferiscono nelle strade della penisola, dove accade di tutto e di più: rapine, reati sessuali, risse e aggressioni come piovesse. È evidente che l’unico freno a questo stato di cose è la sospensione degli arrivi in massa dall’estero, che ormai procedono a ritmi troppo elevati. Mi rendo conto che l’argomento che propongo infastidisca la sinistra politica e pure i cattolici, peccato però che il mio rimedio sia l’unico in grado di proteggere i cittadini del nostro Paese, che non ne possono più di essere tormentati da tunisini e generi affini, signori inclini a menare le mani, ad accoltellare chi non si lasci derubare, senza calcolare la loro tendenza ad usare le donne come fossero bambole gonfiabili. Le anime pie che pretendono di accogliere ogni sbandato che sfida le mareggiate suggeriscano una soluzione diversa dalla mia per garantire agli italiani di non subire soprusi. Essi non possono difendersi da soli dai violenti, hanno bisogno di essere protetti, e ciò non coincide con la tendenza irrefrenabile a consentire a chiunque il permesso di sbarcare nei porti del Meridione. Se non si troverà un rimedio efficace a questo disastro prima o poi ci sarà una sollevazione popolare che non sarà facile soffocare.

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Troppi disoccupati, serve una vera riforma

martedì, Maggio 2nd, 2023

Elsa Fornero

Se il governo non avesse, un po’ furbescamente, scelto proprio il Primo maggio per decidere provvedimenti che, a suo avviso, dovrebbero rilanciare l’occupazione (e di certo ne abbiamo bisogno!) si sarebbe forse potuto, per una volta, alzare lo sguardo per cercare, tutti insieme, la strada da percorrere per rendere il lavoro motore non soltanto di crescita economica ma anche di coesione sociale, come raccomandato dal Presidente Mattarella. L’occasione sembra purtroppo persa con il governo che non vede l’ora di celebrare lo smantellamento del reddito di cittadinanza (nelle parole assai più che nei fatti) e inventa ogni giorno nuove, fantasiose sigle per interventi, spesso di breve durata, che sembrano destinati più ad affrontare emergenze che non a disegnare un serio percorso di medio periodo. E con l’opposizione che finisce nella trappola della polemica continua, senza presentare una vera e propria “agenda per la piena occupazione e per salari dignitosi”, inclusiva di un nuovo welfare per il lavoro in grado di integrare marginalizzati ed esclusi (giovani e donne, soprattutto). Certo, non è facile da costruirla, e ancor meno realizzarla ma frenerebbe lo scivolamento del Paese nella spirale di povertà e diseguaglianza crescenti e consentirebbe un’inversione di rotta.

Occorre guardare lontano. Il che significa anzitutto domandarsi se e quanto siamo preparati ad affrontare il cambiamento che già investe il mondo del lavoro, e che accelererà in futuro. Un primo tassello è dato dall’elenco delle nuove professioni, impensabili all’inizio del Millennio e divenute oggi lavori ben remunerati e socialmente considerati, in campi non più confinati nei laboratori di ricerca, come la robotica, l’intelligenza artificiale, le biotecnologie, la genomica, lo sviluppo di materiali avanzati. Dal vertice annuale di Davos alla McKinsey, le più note analisi delle nuove professioni citano (spiace per Rampelli ma qui le traduzioni dall’inglese sono spesso carenti): social media manager, influencer, data analyst, esperti di cyber-security o di bitcoin, piloti di droni, tecnici dell’auto senza conducente (manca l’armo-cromista ma è solo questione di tempo); senza dimenticare, però, all’altro estremo dello spettro, i nuovi sfruttati del lavoro su piattaforma digitale, come i “riders”, per i quali mancano contratti adeguati e spesso anche minimi salariali. Sempre per gli analisti del futuro, più di due terzi dei bambini nati nell’ultimo decennio, svolgeranno un lavoro oggi ancora inesistente oppure largamente ignorato.

Le transizioni tecnologiche, soprattutto quando affrontate sulla difensiva e con scarsa competenza, lasciano sul campo molti perdenti e provocano lacerazioni sociali. E’ compito della politica cercare di mitigarle, senza tuttavia perdere di vista l’obiettivo finale di accompagnare il cambiamento, facendo in modo che esso porti benefici al maggior numero di persone, attraverso una loro adeguata partecipazione alla vita economica e un reddito dignitoso.

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Palazzo Chigi, si tratta ma è solo propaganda

lunedì, Maggio 1st, 2023

Alessandro De Angelis

Difficile che potesse andare diversamente l’incontro del governo con i sindacati, viste le premesse, compresa la nota polemica del premier rivolta a Maurizio Landini. La convocazione, alle sette di sera del giorno antecedente al consiglio dei ministri, non è per confrontarsi, ma per raccontare ciò che si è già deciso. Insomma, da un lato c’è una classica presa in giro con l’idea (propagandistica) di proporre una “narrazione” del governo sul tema lavoro, alla vigilia del Primo maggio. Dall’altro, per le modalità con cui si è svolto, un suo utilizzo dalla controparte col medesimo scopo, in questo caso per dare una scaldatina alla piazza. La lettura alla premier dei tweet con cui, in questi anni, ha insolentito i sindacati, la presenza di una giovane precaria insieme ai segretari confederali: rispetto all’ormai desueta dinamica novecentesca, la dimensione dominante è quella esclusivamente comunicativa.

Di essa fa parte l’ennesimo proposito di una “mobilitazione”, più predicata che praticata finora, sin dal congresso della Cgil, di cui tuttavia continua a mancare una precisa piattaforma rivendicativa, fatta di proposte precise su cui gestire il conflitto, misurando su questo la propria soggettività sociale nel paese, in primis verso i datori di lavoro, vero punto debole del sindacato attuale. Che, a differenza dei sindacati francesi, tedeschi e inglesi, da “controparte” levatrice del conflitto sociale, in Italia è diventato, non oggi, “istituzione”. E quindi parte dello Stato sociale in crisi. Infatti sposta la questione redistributiva e salariale tutta sul tema del fisco, e dunque del rapporto col governo anche in un paese in cui negli ultimi dieci anni ha visto quintuplicare il numero dei poveri e decuplicare quello dei ricchi.

Si vedrà se questo pezzo di controriforma del lavoro possa rappresentare l’inizio di una nuova stagione sindacale (di lotte, si sarebbe detto una volta). Che non sia solo la richiesta di “ascolto” rivolta a chi non ha alcuna intenzione di farlo. Dietro la mancia di cinque mesi sul cuneo, il punto centrale delle misure messe in campo è un allargamento della precarietà, ovvero la piena accettazione del punto di vista delle imprese e del mercato, dal sapore quasi luterano in quanto a ostilità ai poveri. Quel primato della compatibilità sul bisogno che rappresenta il cuore del conflitto sociale risvegliatosi in Europa a colpi di scioperi generali: in Francia contro Macron, in Gran Bretagna sin da quelli di Natale, in Germania recentemente paralizzata come non si vedeva da trent’anni. Proprio sulla parola “sciopero” e sulla parola “salario” si misura uno scarto, rispetto al quadro europeo, tutto italiano.

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Primo maggio: un mondo cambiato

lunedì, Maggio 1st, 2023

di Dario Di Vico

Una novità mediatica non sembra però destinato a recepire la vera discontinuità del nostro tempo. È il mutamento del rapporto vita-lavoro, uno dei tanti portati della crisi pandemica e che ha già prodotto una significativa fenomenologia

Questo Primo Maggio che andiamo a celebrare una novità la presenta. È vero che le organizzazioni confederali di Cgil-Cisl-Uil hanno scelto come sede della tradizionale manifestazione nazionale Potenza e hanno confermato anche il Concertone romano, ma il governo in carica questa volta ha scelto proprio la data della festa dedicata
al lavoro per tenere un Consiglio dei ministri ad hoc e promulgare nuove norme in materia di contratti a termine e di revisione del reddito di cittadinanza. È una scelta simbolica che va oltre la reale portata dei singoli provvedimenti: dal Consiglio non uscirà infatti un jobs act della destra né un’ampia riforma del mercato dell’occupazione ma specifici e chirurgici indirizzi di legge che modificheranno alcune norme introdotte a suo tempo dal governo Conte 1. Con questa scelta però Giorgia Meloni vuole in qualche modo raccontare quello che le elezioni politiche hanno dimostrato, che la grande platea dei lavoratori italiani avrà anche in tasca la tessera delle confederazioni del Novecento, ma in termini di consenso politico costituisce uno dei retroterra del suo partito e del progetto di costruire una destra conservatrice e tendenzialmente centrista.

Non la si può certo contestare a priori anche perché tutte le ricerche demoscopiche, tese a leggere la composizione sociale del voto, sostengono che lo stesso orientamento fattosi largo tra le tute blu lo si ritrova, almeno per ora, anche tra i titolari di impresa. La mossa del Consiglio dei ministri del Primo Maggio è dunque la sottolineatura di un obiettivo raggiunto: un consenso di tipo interclassista. Che poi le relazioni con i sindacati siano tutt’altro che idilliache e che le tre sigle maggioritarie abbiano già varato a maggio un calendario di manifestazioni, tese a contestare le scelte concrete e le priorità adottate dal governo, cambia poco. Siamo nel campo degli equilibri politici romani ma lontani da un vero ascolto della società.

Perché questo Primo Maggio reca con sé una novità mediatica non sembra però destinato a recepire la vera discontinuità del nostro tempo, che invece nel giorno della festa del lavoro avrebbe pieno diritto a trovare eco . È il mutamento del rapporto vita-lavoro, uno dei tanti portati della crisi pandemica e che ha già prodotto una significativa fenomenologia. Gli esperti si dividono nell’interpretazione dei dati: c’è chi sostiene valida anche per l’Italia la tesi delle grandi dimissioni e chi invece parla di accentuata mobilità (e ricettività) del mercato del lavoro ma anche in questo caso cambia poco. Stiamo parlando di una nuova e profonda sensibilità che investe una larga fetta della popolazione lavorativa e che le imprese più attente hanno monitorato e in qualche maniera cercato di affrontare. Il lavoro, qualsiasi e a ogni costo, è stato derubricato: si cercano soddisfazione, mobilità verticale, conciliazione del tempo «ceduto» al datore di lavoro con il resto della giornata. Non è certo un caso che si siano avviate esperienze-pilota di riduzione della settimana a quattro giorni lavorativi e che, soprattutto, il lavoro da remoto sia diventato una componente strutturale dell’organizzazione di impresa. Che ha portato a rivedere la logica dei grandi spazi destinati ad uffici, a porsi il problema della misurazione della prestazione individuale, a ripensare la tipologia di ingaggio proposta ai dipendenti che lavorano da casa.

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Napoli, la gloria e la clemenza

domenica, Aprile 30th, 2023

di Beppe Severgnini

Per i tifosi è il momento di lanciare, insieme alle grida di gioia, anche un pernacchio doc contro i luoghi comuni. Certo, Napoli ha dovuto sopportare tante cattiverie. Ma «la vera gloria di un vincitore è quella di essere clemente»

«I problemi della vittoria sono più piacevoli di quelli della sconfitta, ma non sono meno ardui». Lo sosteneva Winston Churchill, che non s’era portato a casa uno scudetto, ma qualche successo l’aveva ottenuto. La frase mi è tornata in mente alla vigilia del trionfo del Napoli e di Napoli. Trionfo meritato, che deve riempire di soddisfazione chi ama il calcio. Finché vincono i più forti, andiamo bene.

    Cosa aspetta i tifosi azzurri nelle prossime ore o, tutt’al più, nei prossimi giorni? Il terzo titolo, molto entusiasmo e una lunga festa. La scudetto precedente risale al 1990: chi lo ricorda non è più giovane, l’anagrafe non mente. Portare a casa il titolo nazionale è una gioia che cancella di colpo anni di ansie, dubbi e disturbi psicosomatici. Una botta di infanzia di cui tutti, a ogni età, avremmo bisogno.

    Solo chi ha sofferto sa sorridere, nel calcio e non solo. E Napoli è una città che, sulla sofferenza, potrebbe tenere il congresso mondiale. Ma anche sull’intelligenza emotiva che porta una comunità a reagire. Vincere — scusate, stravincere — il campionato è anche una forma di riscatto? Certo: e allora? Il successo sportivo — dovunque — si carica di allegorie, fantasie, ricordi, rivincite. Perché lo scudetto a Napoli dovrebbe costituire un’eccezione?

    Non tutte le vittorie sono simili, e non tutte le celebrazioni sono uguali. Alcune squadre le hanno rovinate, insultando gli avversari sconfitti; tanti tifosi hanno esagerato. Non parliamo dei delinquenti, che in fondo tifosi non sono (solo fanatici in cerca di un’occasione). Parliamo dei sostenitori di una squadra. Quelli per cui uno scudetto è un cerchio che si chiude. Un momento di armonia.

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Primo maggio di resilienza tra economia e armocromia

domenica, Aprile 30th, 2023

MASSIMO GIANNINI

Ci aspetta un bel Primo Maggio. Da una parte il vecchio “Partito del trolley”, che in un giovedì di euforia vacanziera alla Camera ha rischiato di far cadere il governo. Dall’altra il “nuovo” Partito democratico, che in attesa di tirare fuori un’idea sull’economia ci ha fatto scoprire le meraviglie dell’armocromia. In mezzo c’è un’Italia distratta ma non disfatta, che aspetta più fatti e meno parole. Ricucita con tante scuse a tutti la “toppa” sul Def, domani Giorgia Meloni potrà dunque regalare il suo decreto-spot ai lavoratori italiani, offrendogli in dono per l’occasione un taglio delle tasse sulle buste paga da 16 euro al mese. E va bene così, una pizza e una birra in più, nel Paese che in materia di piccoli cadeau tributari ha già visto e vissuto di tutto, dall’abolizione dell’Imu di Berlusconi agli 80 euro di Renzi.

La verità è che la nave in qualche modo va, ma la premier naviga a vista, con le mani legate sul timone. I sindacati, Maurizio Landini in testa, accusano la presidente del Consiglio e invocano tagli assai più massicci del cuneo fiscale. Giusto, ma farebbero bene a chiedersi perché altrove, in Occidente, a parità di incidenza della tassazione i livelli retributivi dei lavoratori siano stati difesi molto più che da noi. A marzo i salari medi sono cresciuti del 2,2%, mentre l’inflazione galoppa al 7,6: il caro-vita ha eroso il potere d’acquisto di 5,4 punti. Nell’intero 2022 l’aumento salariale medio è stato del 2,3%, livello più basso d’Europa. Al netto dei prezzi, il salario reale è calato di oltre 2 punti. Oggi 7 milioni di dipendenti aspettano il rinnovo dei contratti. Quasi 3 milioni di giovani tra i 15 e i 34 anni non studiano e non lavorano. Al Sud è occupata meno di una donna su tre. È qui la Festa?

Se guardiamo alla congiuntura un po’ di festa ce la meriteremmo pure. Nel primo trimestre di quest’anno l’economia italiana è cresciuta dello 0,5%. Nello stesso periodo la Germania cresce zero, la Francia 0,2%, la media Ue un modesto 0,1. “Italia locomotiva d’Europa”, verrebbe quasi da dire. Ma evitiamo trionfalismi ridicoli. Nella morsa delle due emergenze, la pandemia e la guerra, ci difendiamo meglio perché prima stavamo molto peggio degli altri. Dice Giancarlo Giorgetti: chi vuole capire sul serio il significato della parola “resilienza”, così tanto evocata negli ultimi tempi, “deve guardare all’economia italiana”. Ed è vero: complice un’iniezione di bonus a pioggia e di risorse pubbliche mai viste dal dopoguerra (quasi 250 miliardi, con 9 scostamenti di bilancio) negli ultimi tre anni il Paese ha retto l’urto. I grandi dell’energia hanno riconvertito produzioni e macinato extraprofitti, le aziende del Quarto Capitalismo hanno raddoppiato l’export, le piccole e medie imprese hanno mantenuto competitività. Catene del valore e filiere produttive si sono rivelate più forti del previsto. Ma ancora una volta, sussidi a parte, assistiamo al trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale, e dunque all’allargamento delle disuguaglianze sociali. I costi della crisi li paga il ceto medio, che non sfugge ai rincari nel carrello della spesa e alla stangata nelle bollette di luce e gas.

Che fare? Dalla lettura del Def e dalle esternazioni del ministro del Tesoro, una mezza conclusione si può trarre: poco e niente. Con il debito a oltre 2.700 miliardi, gli spazi fiscali per misure espansive sono ridotti al lumicino. Quindi addio Flat Tax al 15% uguale per tutti (costa 70 miliardi) e arrivederci “detrazione choc” da 10 mila euro per ogni figlio (costa 88 miliardi). In rapporto al Pil, si copre l’intera spesa previdenziale (16,1% nel 2026) e neanche tutta la spesa sanitaria (in calo al 6,2% a fine triennio). Per il resto, come dice Giorgetti, c’è solo da sperare che nei prossimi due trimestri la crescita si mantenga a questi ritmi, per far sì che si allentino almeno un po’ “le pressioni sui saldi di finanza pubblica” e si creino “margini per nuovi interventi in autunno a sostegno di imprese e famiglie”. Qui sta la vera e per adesso unica e inattesa virtù del governo dei Patrioti (insieme alla fedeltà euroatlantica sul fronte ucraino): l’approccio “prudente e equilibrato” del bilancio dello Stato. Giorgetti lo rivendica. Anche a costo di far imbestialire gli orfanelli salviniani del Papeete, che pretenderebbero l’abolizione immediata della legge Fornero o almeno il raddoppio delle pensioni minime.

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La Repubblica dei narcisi: da almeno vent’anni non c’è leader che non abbia ceduto alla vanità

sabato, Aprile 29th, 2023

Flavia Perina

La vanità è sentimento chiave della politica italiana almeno da un ventennio e non c’è leader che non abbia ceduto alle lusinghe di Narciso, dalle bandane giovanilistiche di Silvio Berlusconi ai fazzoletti quadri-puntuti di Giuseppe Conte che furono persino oggetto di cliccatissimi tutorial: «Il tessuto deve essere prezioso, il bordo cucito a mano», spiegava il sarto Maurizio Marinella, anche se era un altro, Maurizio Talarico, ad attribuirsi il merito di aver insegnato il trucco all’ex premier. In mezzo c’è il giubbotto da Fonzie di Matteo Renzi (rivendicato sempre come un elemento di valore) e le indimenticabili scarpe di Massimo D’Alema e i cachemire di Fausto Bertinotti e di recente persino il regalo di Natale acquistato da Louis Vuitton (una sciarpa) dal più improbabile dei clienti del lusso, Pierluigi Bersani, o la cravatta verde a torso nudo di Matteo Salvini sulla copertina di Oggi.

La vanità estetica, si dice, nella Prima Repubblica non esisteva, era considerata un peccato. Mica è tanto vero. Pure allora c’era chi la coltivava in silenzio. Francesco Cossiga, secondo indiscrezioni mai smentite, disegnò personalmente la divisa del suo consigliere militare per migliorarne l’eleganza e quindi accompagnarsi a un personaggio più autorevole. L’eterno maglione nero di Pannella, i guanti di Luigi Pintor e i jeans di Emma Bonino (con su scritto: “Ne hanno viste di tutti i colori”) finirono addirittura all’asta per finanziare i Radicali: cos’erano se non espressioni del power dressing dell’epoca, icone tangibili di leadership ma pure segnali di temperamenti votati all’esibizione di sé, un po’ per motivi politici e un po’ per propensione personale?

Ora che c’è cascata pure Elly Schlein, con la sua armocromista che consiglia il color glauco, sembra che la vanità sia solo roba sua. Il Diavolo veste Prada, dicono, ma non dovrebbe vestire la sinistra perché quel Diavolo è roba di destra e a loro va lasciata: agli outfit di Daniela Santanché, agli Armani di Giorgia Meloni, alle messe in piega estreme di Maria Elisabetta Casellati. E tuttavia si osserverà che senza vanità, senza estetica, senza personaggismo, la politica non possiamo neanche immaginarla più, e che persino l’ostentazione della non-vanità (i contestatissimi stivali di Aboubakar Soumahoro, i sandali senza calzini del grillino Carlo Martelli) è in realtà un atto immodesto, un modo di mettersi in mostra. È l’accappatoio al supermercato del Grande Lebowsky: vengo qui come mi trovo, non sono vanitoso. Sì, vabbè…

La vanità è il motore interiore di ogni comizio, e volendo pesare – lo si dovrà fare, adesso che ci sono due donne in vetta alla politica italiana – la consistenza vanitosa di maschi e femmine sulla scena del nostro potere non c’è dubbio che vincano i maschi, a mani basse. Il Dandy (Conte), il Ruspante (Salvini), il Giovane (Renzi), il Professore (Enrico Letta), il Barricadero (Alessandro Di Battista), il Bravo Ragazzo (Luigi Di Maio), l’Irriducibile (Ignazio La Russa), il Moderato (Giancarlo Giorgetti), il Disinibito (Carlo Calenda): ognuno coltiva il suo messaggio estetico con accorgimenti costanti, che non riguardano solo l’abbigliamento ma anche per così dire gli accessori, le fidanzate e le mogli, gli assistenti, le auto, le biciclette o le moto (anche d’acqua), le vacanze, tantoché il peccato al color salvia della consulente di Elly Schlein sembra davvero poca cosa.

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Il diritto di tornare a casa

sabato, Aprile 29th, 2023

di Massimo Gramellini

Nei quartieri che sorgono intorno alle stazioni di Roma e Milano i diritti delle donne sono sospesi dal tramonto all’alba. Alludo al diritto elementare di prendere un treno o di rientrare a casa senza tremare al pensiero che un’ombra possa spuntare all’improvviso da un portone o dentro un ascensore, come è appena successo alla Centrale di Milano. Lì una giovane passeggera franco-marocchina in partenza per Parigi è stata violentata più volte da uno sconosciuto di origini nordafricane e senza fissa dimora, incastrato dalle videocamere e dal senso civico di un passante che ha visto la scena e, anziché tirare dritto (come altri), è corso ad avvertire la vigilanza. Intanto sulle pagine romane del Corriere leggo che gli albergatori dell’Esquilino denunciano di non poter più assumere donne per i turni di notte e del primo mattino: troppi i rischi di agguati e soprusi di ogni tipo. Non va certamente meglio alle residenti: quale ragazza che abita dalle parti di stazione Termini e di piazza Vittorio osa rincasare da sola dopo una certa ora?

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Il Bestiario, l’Ideologino

giovedì, Aprile 27th, 2023

Giovanni Zola

L’Ideologino è un leggendario animale che vive il suo momento di gloria tra il 25 Aprile e il primo Maggio, poi basta.

L’Ideologino è un essere mitologico che si desta dal torpore dell’agone politico in una settimana di primavera, quando la natura si risveglia, le api impollinano e rinascono gli amori. È una sorta di risveglio dal letargo annuale nel quale l’Ideologino può finalmente cavalcare i suoi cavalli di battaglia, scendere in piazza con i suoi simili e annunciare i suoi proclami senza doverli scrivere da nuovo perché sono gli stessi da quasi ottanta anni e data una spolverata sono già belli pronti come le patatine surgelate.

Nella settimana d’oro i grandi temi sono l’antifascismo e il lavoro. Per quanto riguarda l’antifascismo, l’Ideologino festeggia la liberazione dal nazifascismo per opera dei partigiani coadiuvati, secondo lui in modo irrilevante, dall’esercito degli Stati Uniti. Dato che il fascismo, inteso come regime del Ventennio che limitava la libertà a chi non era in possesso dell’odiosa tessera, è bello che morto e sepolto, l’Ideologino fa di tutto per riesumarlo e avvertire del pericolo, dimenticando che proprio l’Ideologino ha difeso qualche anno fa il regime del Biennio che limitava la libertà a chi non era in possesso dell’odiosa tessera.

Per quanto riguarda la festa dei lavoratori, l’Ideologino si appella all’articolo uno della Costituzione più bella del mondo: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Il diritto al lavoro è infatti un bene inalienabile e l’Ideologino lamenta che tale diritto sia calpestato dal governo di centro destra, scordando di aver governato per gli ultimi vent’anni e che nel famoso Biennio il lavoro sia stato impedito dal famoso Ministro della Salute appartenente, ironia della sorte, proprio al partito nominato Articolo Uno. Per questo motivo sarebbe più corretto correggere il primo articolo della Costituzione nella formula: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro… all’estero”.

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Perché il governo deve votare no

giovedì, Aprile 27th, 2023

Veronica De Romanis

Christian Lindner  

Ieri la Commissione europea ha presentato la sua proposta di riforma del Patto di stabilità e crescita, ossia l’insieme di regole che limitano il disavanzo e il debito degli Stati appartenenti all’area dell’euro. La proposta prevede che i singoli governi presentino piani quadriennali di riduzione del debito da concordare con Bruxelles. L’obiettivo è quello di eleminare il vecchio schema basato su procedure multilaterali per far spazio a negoziati bilaterali: un approccio che non è piaciuto alla Germania. Nei giorni scorsi, il ministro delle Finanze Christian Lindner aveva chiesto di mantenere criteri quantitativi uguali per tutti in modo da ridurre il potere discrezionale della Commissione in sede di negoziato. Nello schema rivisto, le istanze tedesche sono state accolte solo in parte. Nello specifico, il rapporto debito/Pil a fine periodo deve essere inferiore al livello inziale e quello disavanzo/Pil deve scendere di mezzo punto percentuale l’anno se superiore al 3 per cento. Questa seconda proposta rischia di rivelarsi pro-ciclica, il contrario dell’obbiettivo di Bruxelles, ma tant’è. Per il resto, poco è cambiato rispetto alla prima bozza di riforma presentata nell’autunno scorso. E, di conseguenza, le criticità già evidenziate su questo giornale restano. A cominciare da quella legata al fatto che al centro della proposta vi è la sostenibilità dei debiti degli Stati. Il nuovo impianto prevede, infatti, regole diverse in base al livello di indebitamento. Chi ha un rapporto debito/Pil superiore al 60 per cento è sottoposto a una procedura più rigorosa. La Commissione definisce una traiettoria tecnica, ossia un quadro di riferimento che servirà ai governi per delineare il percorso di aggiustamento. Quest’ultimo si concentra su un unico indicatore: la spesa primaria calcolata al netto degli interessi e della componente legata alla disoccupazione. La traiettoria viene definita ex-ante con l’ausilio di un’analisi di sostenibilità del debito effettuata dalla Commissione. Ciò rappresenta un elemento di forte criticità. L’analisi di sostenibilità del debito è una procedura complessa e poco trasparente. Si basa, infatti, su previsioni a medio/lungo termine di diversi indicatori quali la crescita economica (per un lasso di tempo ben più esteso di quello del ciclo), i tassi di interessi, l’avanzo primario, lo stato di realizzazione delle riforme e il loro impatto sul bilancio dello Stato. Il rischio di errore, in un periodo come quello attuale caratterizzato da grande incertezza, è elevato. In caso di valutazione negativa sulla sostenibilità del debito, i mercati potrebbero reagire negativamente. È evidente che il grado di discrezionalità di giudizio da parte di Bruxelles diventa significativo.

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