Archive for the ‘Editoriali – Opinioni’ Category

Pd e M5s, dialogo e piroette a sinistra

giovedì, Aprile 27th, 2023

di Paolo Mieli

A due mesi dalle primarie che elevarono Elly Schlein al vertice del Pd, si può tracciare un bilancio più che positivo dei sessanta giorni trascorsi. Nei sondaggi il partito è tornato a collocarsi stabilmente sopra il 20 per cento e ha lasciato il M5S dietro di cinque punti. La nuova segreteria si mostra assai abile nel rintuzzare la maggioranza, producendo ogni giorno polemiche nuove di zecca. Talvolta anche due o tre in un’unica giornata. Né i dem si mostrano preoccupati dalle insidiose iniziative provenienti da sinistra, neanche dai referendum contro le armi a Zelensky o l’assai pubblicizzata «Staffetta dell’Umanità» di Michele Santoro per «unire l’Italia contro la guerra», per «riaccendere la speranza» e per «camminare insieme da Aosta a Lampedusa». Come se il nuovo gruppo dirigente del Pd considerasse tali iniziative fuori tempo rispetto a un anno fa quando invece Enrico Letta fu impensierito da quel che si muoveva sul fronte pacifista.

Un grande tonico per l’esordio di Schlein sono state le schermaglie delle settimane che hanno preceduto il 25 aprile. Curiosamente, però, in Europa furono presi più sul serio, ventinove anni fa, i rischi di deriva autoritaria del primo Berlusconi, di quanto sia accaduto adesso con il debutto di Giorgia Meloni. Fuori dai nostri confini, l’allarme fascismo è stato scarso. Anche nel mondo delle arti che pure nel 1994 si mostrò assai incline a questo genere di apprensione.

In ogni caso il Pd schleiniano mostra di avere fiato — e, a quanto pare, sostegno tra i propri elettori — talché potrebbe andare avanti ancora per mesi (magari per anni) nelle polemiche quotidiane che traggono spunto da voci dal sen fuggite ad esponenti della destra. A volte si ha quasi l’impressione che quelle «gaffe» governative siano intenzionali, parole gettate lì da navigati rappresentanti della maggioranza nella certezza che qualcuno abboccherà e ne seguirà un battibecco. Battibecco destinato a rinfrancare i settori dei due schieramenti più sensibili alle ragioni della propria identità.

Rassegniamoci perciò: le cose andranno avanti così. A lungo. Queste baruffe quotidiane sono un tonico per la sinistra e la destra non sembra darsene pena. D’altra parte, per la sinistra sarebbe terribilmente più complicato indicare una prospettiva diversa. Ad esempio, una via credibile per tornare al governo sospinti da un voto che consenta alla sinistra di conquistare la maggioranza nei due rami del Parlamento.

Nel decennio scorso, la destra, pur travagliata da un’infinità di disavventure, fu in grado di mantenere un proprio impianto di struttura (in fin dei conti quello berlusconiano del ’94) che le ha permesso al momento opportuno di serrare i ranghi e vincere le elezioni. Se perdeva pezzi, altri ne guadagnava. Con il partito di un immarcescibile Berlusconi lì a garantire nei confronti dell’Europa e quello di Giorgia Meloni che, dall’opposizione, era stato capace di intercettare (assorbendole) le perdite della Lega di Salvini. E di conquistarsi, in virtù dell’essersi schierato dalla parte della Nato e dell’Ucraina (oltreché dei buoni uffici di Mario Draghi), un’immagine tutto sommato rassicurante per i Paesi d’oltreconfine.

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L’handicap del Belpaese

mercoledì, Aprile 26th, 2023

Augusto Minzolini

È il passato che ci tira per i piedi e ci riporta indietro. I fantasmi di una tragedia da cui avremmo dovuto imparare la lezione e che, invece, ci perseguitano. Oppure un sogno agognato che non si avvera. Oggi si celebra il 25 aprile, la festa della Liberazione, quello che dovrebbe essere un anniversario di riconciliazione, di unità del Paese. E che si trasforma puntualmente in un giorno di polemica. Mai come in questa occasione con l’avvento di un governo di destra-centro, la sinistra in tutte le sue forme (complice anche la superficialità con cui qualche esponente dell’attuale maggioranza di governo congettura su certi argomenti) ne ha fatto un tema di divisione. Il problema, però, non è il fascismo con cui questo Paese ha fatto i conti da un bel po’. Quello semmai è un pretesto, l’alibi con cui la sinistra populista punta a compattarsi, la questione con cui tenta di delegittimare l’attuale governo e la sua maggioranza. Ciò che deve preoccupare, invece, è una lacuna, una questione irrisolta che nei momenti difficili può provocare seri danni: l’assenza di un sentimento nazionale unitario. Quello spirito che ancora manca come lamentava Silvio Berlusconi nel famoso discorso di Onna di 14 anni fa (che oggi pubblichiamo su Il Giornale) e che dovrebbe animare tutte le forze politiche. L’anelito che trasforma un Paese in una Nazione.

Non si tratta di pura retorica. Tutt’altro. Semmai è il vero handicap italiano, quello che impedisce alla maggioranza e all’opposizione del momento di riconoscere e di proteggere insieme l’interesse nazionale. È l’handicap che ci ostacola nell’individuare una politica estera comune che dia più peso all’Italia nel mondo, nel fare sistema in economia, nell’introdurre una riforma istituzionale condivisa. Restiamo purtroppo un Paese irrimediabilmente diviso tra guelfi e ghibellini. Che senso ha, infatti, in una giornata come questa riaprire vecchie ferite all’insegna delle speculazioni politiche, proprio quando lo scontro a livello globale è tra le democrazie occidentali e altri totalitarismi, autarchie, regimi. Basta pensare all’Ucraina o a Taiwan. L’importante semmai è serbare il ricordo, l’intento e l’impegno comune affinché l’Italia non riviva una terribile e tragica dittatura come il ventennio fascista. E su questo francamente nessuno ha dubbi, a destra come a sinistra (a parte il pugno di nostalgici che non manca mai). Come nessuno ha dubbi sul valore della Resistenza. Eppure visto che a volte per avvelenare il presente fa comodo tirare in ballo vecchi fantasmi, sono giorni che assistiamo ad una mezza guerra civile combattuta a parole. Con il rischio che alla fine qualcuno ci creda.

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Restituiamo un valore alle nostre storie

mercoledì, Aprile 26th, 2023

Marco Follini

Caro direttore, c’è sempre una ragione, quando non se ne viene a capo. E la ragione delle date che non tornano e degli equivoci della memoria sta anche nel fatto che il mantra della classe politica che si è affermata negli ultimi tempi è stato quello di un’innovazione spinta fino alle soglie dell’improvvisazione. Dopo anni e anni nei quali tutti noi abbiamo preso a pugni il nostro passato, dopo che nessuno più ha rivendicato la propria storia, e semmai s’è fatto a gara per cancellarne ogni traccia, sarebbe stato davvero difficile immaginare che si fosse riusciti a conservare, e semmai affinare, una minima capacità di fare i conti con le radici della vita repubblicana.

Ora, questo difetto appartiene un po’ a tutti. E di certo non giustifica le aberrazioni di certa destra, né i suoi silenzi, né certe sue parole equivoche. Ma noi, figli della Prima repubblica e dei suoi gloriosi partiti di una volta, forse abbiamo qualche responsabilità in più per aver spezzato il filo che ci legava alle nostre tradizioni. Infatti, abbiamo cambiato nome, deposto le insegne, bandito ogni forma di nostalgia e quasi manifestato imbarazzo per essere stati quelli di prima. Una volta che non c’erano più la Dc, il Pci e tutti gli altri, ci è sembrato doveroso rivendicare l’unico titolo che continuava a contare: quello di essere “post” qualcosa. Un po’ poco per salire in cattedra.

È ovvio che la politica sia movimento, innovazione, ricerca e scoperta di nuovi orizzonti. Ma ogni destinazione dovrebbe sapersi confrontare anche con la sua stessa origine. E immaginare il percorso storico come uno svolgimento e non come un susseguirsi di strappi e lacerazioni. Per noi, invece, ultime generazioni dei partiti che furono, l’arrivo finiva per essere solo il capovolgimento della partenza. Così, abbiamo fatto del nostro meglio per perderci. I democristiani intenti a dirsi popolari e mai più Dc. I comunisti pronti a rivendicare di non essere mai stati tali. E via dicendo. Quasi che il nostro stesso passato fosse diventato una tassa che ci si poteva esimere dal pagare.

Per questa via si arriva all’ultimo paradosso della politica italiana. E cioè al fatto che quanti possono rivendicare qualche merito quasi se ne vergognano, o almeno se ne tengono a prudente distanza. E quanti invece si dovrebbero distaccare dal torvo passato, quantomeno quello dei loro antenati, finiscono quasi per rivendicarlo adottando tutti quei giri di parole e/o quei colpevoli silenzi che dovrebbero far da scudo alle loro traballanti coscienze. Senza riuscirci, peraltro.

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I conservatori si occupino del futuro, non del passato

mercoledì, Aprile 26th, 2023

di Ernesto Galli della Loggia

Il compito di un partito di destra-centro dovrebbe essere quello di provare a cambiare la narrazione del presente, sottraendola alle vulgate progressiste

I conservatori si occupino del futuro, non del passato
Giorgia Meloni (LaPresse)

Diventare un grande partito liberal-conservatore: sembra essere questo l’obiettivo di medio termine che si prefigge Giorgia Meloni in vista delle elezioni europee del prossimo anno. Un partito, cioè, capace di proporsi due traguardi ambiziosi. In Italia occupare non più una posizione di destra ma di destra-centro, e dunque presidiare un’area (quella di centro appunto) abbastanza consistente elettoralmente e politicamente strategica; in Europa cercare di diventare protagonista di una nuova maggioranza tra i popolari e il variegato universo delle destre continentali. Preliminarmente, tuttavia, bisognerebbe forse rispondere a una domanda: che cosa deve e/o può proporsi oggi di conservare un partito conservatore per essere fedele al suo nome? E come mai ogni volta che qualcuno si mette a difendere ad esempio valori riconducibili alla formula Dio-Patria-Famiglia — valori dopo tutto pur meritevoli di qualche attenzione — come mai però una tale difesa non solo cade regolarmente nel vuoto, non sposta nulla, ma mostra sempre un che di goffo e di stantio meritandosi l’ironica noncuranza della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica? Perché, insomma, una posizione conservatrice appare specialmente in Italia sempre fautrice di un che di retrivo, di ottusamente legato al passato?

La risposta è facile: perché nella società italiana il pensiero dominante è portato a giudicare sempre e comunque positivo ogni cambiamento, a salutare con soddisfazione ogni distacco da pratiche e principi del passato. Perché qui da noi occupa una posizione egemonica una narrazione progressista nella quale si riconosce la stragrande maggioranza della comunicazione, dei media e della cultura che ha più voce, inclusa quella cattolica.

Ma il punto è che i tempi sono in straordinario e rapidissimo mutamento, e tutto ciò che ci siamo abituati finora a pensarne è sul punto di rivelarsi irrimediabilmente superato. Il progresso scientifico-tecnico che continua a conseguire successi mirabili sul piano, ad esempio, medico-farmacologico è però lo stesso progresso che con la robotica e l’Intelligenza artificiale già oggi minaccia di sconvolgere e annichilire interi universi di senso, modelli di azione, capacità, emozioni, intorno alle quali da millenni è venuto costruendosi la nostra soggettività e insieme il modo d‘essere delle nostre società. Mille segni indicano insomma che vacilla il convincimento finora incontrastato che il progresso tecno-scientifico debba necessariamente dar luogo a una vita più soddisfacente per il maggior numero, vale a dire al progresso sociale, a qualcosa che si possa ancora definire in questo modo. Appare sempre più probabile, all’opposto, che quel progresso sta mettendo capo a un mondo duramente gerarchizzato nelle competenze e nel lavoro, sempre più dominato dall’ineguaglianza, nella sostanza antidemocratico.

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Il coraggio di schierarsi

martedì, Aprile 25th, 2023

di Maurizio Molinari

Il 25 aprile è la festa di tutti quegli italiani che 78 anni fa si unirono per liberare l’Italia dalla brutale occupazione tedesca sostenuta dai collaborazionisti della Repubblica di Salò. L’alleanza fra la Germania di Adolf Hitler e i fascisti di Benito Mussolini rappresenta uno dei momenti più bui della Storia italiana ed europea. Ricordare chi allora nel nostro Paese scelse di battersi, schierarsi, agire o anche solamente pensare contro il Male significa rendere omaggio ad una moltitudine di eroi antifascisti, tanto diversi nell’identità quanto accomunati dall’anelito per la libertà.

A unirsi quel 25 aprile 1945 furono non solo tutte le fazioni partigiane, di ogni colore e fedeltà politica, ma anche gli operai e le operaie che non andavano più nelle fabbriche, i giovani e gli anziani che avevano visto i loro centri urbani travolti dalla brutale ferocia nazifascista. E quei militari che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 avevano scelto di non aderire alla Repubblica di Salò, decidendo da soli – con la forza della ragione e senza l’ausilio di alti comandi spesso fuggiti – di abbandonare la folle alleanza con Hitler che aveva portato Mussolini a sposare il razzismo biologico nel 1938, ad entrare in guerra nel 1940 facendo subire all’Italia immani devastazioni ed a collaborare attivamente dal 1943 nella deportazione degli ebrei, sposando la teoria della superiorità della razza ariana per inseguire il folle miraggio di un ritorno al dominio imperiale. All’Italia che si libera dal nazifascismo appartengono anche molti – tanti – ex-fascisti che dal 1922 avevano creduto alle false promesse di Mussolini e dei suoi gerarchi ma poi, anno dopo anno, ne avevano pagato un prezzo sempre più caro a causa di povertà, distruzione, violenza e morte che il regime aveva imposto all’intera nazione. Mandando in frantumi leggi, valori e istituzioni dello Stato Unitario frutto del sacrificio dei patrioti del Risorgimento e dei caduti della Grande Guerra.

Fu proprio la moltitudine di identità della sollevazione dell’Italia antifascista contro il nazifascismo a porre le basi della Repubblica e della sua Costituzione che, nella XII disposizione transitoria e finale, “vieta la riorganizzazione del Partito nazionale fascista”. Con un divieto immanente che vale, oggi più che mai, da antidoto contro la tentazione da parte di chiunque di tornare a legittimare il fascismo in qualsiasi forma e declinazione.

Da qui il dovere di ognuno di noi, di generazione in generazione, di ricordare coloro che scelsero il Bene contro il Male: le ragioni che li spinsero, i sacrifici che affrontarono, le pene che patirono. Perché è a loro che dobbiamo ciò che abbiamo di più importante e vitale: le nostre libertà.

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Il patto che ci lega

martedì, Aprile 25th, 2023

Massimo Giannini

«In questa Costituzione c’è tutta la nostra Storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie: son tutti sfociati qui, negli articoli. E a saper intendere, dietro questi articoli si sentono delle voci lontane…». Era il 1955, e Piero Calamandrei spiegava così, a un gruppo di studenti milanesi, il «Grande Libro della Democrazia» sul quale abbiamo ricostruito il Paese tra le macerie del nazi-fascismo.

Le «voci lontane», per lui, erano quelle di Mazzini e Cavour, di Cattaneo e Garibaldi, che parlano in ciascuna delle norme sancite dalla Carta, dall’Italia che «ripudia la guerra» alla «Repubblica una e indivisibile» fondata sul lavoro. Ma erano soprattutto quelle di Matteotti e dei fratelli Cervi, di Don Minzoni e dei «centomila morti» della Resistenza. Morti di tutti i partiti e di tutte le fedi: comunisti e socialisti, popolari e azionisti, cattolici ed ebrei.

«Se volete andare in pellegrinaggio nei luoghi dov’è nata la nostra Costituzione – aggiungeva Calamandrei – andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità…». Oggi più che mai, dunque, la Festa della Liberazione è anche la Festa della Costituzione. Nata e forgiata nel ripudio della dittatura mussoliniana (come recita la XII Disposizione Finale) e con i valori dell’anti-fascismo (l’uguaglianza e la solidarietà, il rispetto per la persona e la tutela dei diritti fondamentali). Solo nell’Italia dei revisionismi storici e dei revanchismi ideologici il 25 aprile può essere considerata una ricorrenza «divisiva» o «di parte».

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25 Aprile, il rischio di schiacciare l’Italia sul passato

martedì, Aprile 25th, 2023

di Massimo Franco

25 Aprile, il rischio di schiacciare l’Italia sul passato

I sondaggi dicono in modo uniforme che le polemiche sul 25 Aprile, festa della Liberazione dalla dittatura di fascisti e nazisti, non stanno avendo grandi riflessi elettorali. Da una parte può sconcertare. Dall’altra è una conferma positiva: significa che si tratta di un dibattito alimentato in modo maldestro da alcuni esponenti della destra; contrastato dalla sinistra, e non solo, seppure con eccessi strumentali e riducendo il ruolo degli Alleati; ma osservato da gran parte dell’opinione pubblica con una punta di fastidio per le divisioni che queste minoranze fanno sopravvivere artificiosamente. È possibile che oggi, quando il capo dello Stato, Sergio Mattarella, salirà a Roma all’Altare della Patria a rendere il suo omaggio insieme con la premier Giorgia Meloni e i vertici del Parlamento, la polemica ingiallisca di colpo.

D’altronde, il presidente della Repubblica non ha lasciato spazio a interpretazioni di comodo. La bussola con la quale si è mosso è quella di chi ritiene la Liberazione un valore fondante. E chi lo accompagnerà mostrerà di fatto di piegarsi, se non di condividere questa impostazione: anche se rimangono tensioni diffuse. Alla fine le posizioni ambigue o nostalgiche, presenti nella maggioranza di destra, in apparenza sono state isolate. E non soltanto per la reazione di una sinistra che a tratti mostra di volersi appropriare in modo esclusivo del 25 Aprile. A smarcarsi da alcune affermazioni sconcertanti del presidente del Senato, Ignazio La Russa e di altri esponenti di FdI sono stati sia l’irritazione malcelata di Giorgia Meloni; sia la presa di distanza di alleati come Lega e FI, schierati in questa occasione con il Quirinale. Che lo abbiano fatto per sottolineare le contraddizioni del partito della premier conta relativamente. Né serve rimarcare che in passato avevano mostrato un’adesione meno convinta. Per quanto tormentato, e nonostante i veleni, quanto è accaduto in queste settimane forse ha permesso di mettere in chiaro il valore di un anniversario; e sottrarlo ai tentativi di chi punta a imbalsamarlo per delegittimare gli avversari; ma anche a quelli di quanti provano con miopia a delegittimare il 25 Aprile.

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Donne e occupazione: il lavoro che crea lavoro

domenica, Aprile 23rd, 2023

di Maurizio Ferrera

Ammettere più immigrati o incentivare il lavoro femminile? Per assicurare il finanziamento del welfare dovremo in realtà fare entrambe le cose. Intanto, Giorgia Meloni si è espressa a favore della seconda opzione. Si tratta di un obiettivo che i nostri governi perseguono ormai da vent’anni, senza molti risultati. Se vuole provarci anche il primo esecutivo guidato da una donna, prendiamola in parola e valutiamolo su ciò che concretamente saprà fare.

In Italia lavorano 55 donne su cento nella fascia d’età 20-54. Altre 15 vorrebbero trovare occupazione, ma non riescono. In parte mancano posti di lavoro congrui rispetto alle competenze, nell’area di residenza (c’è la famiglia). L’ostacolo principale è però la conciliazione. Se ci sono dei figli o degli anziani da assistere, le donne restano intrappolate a casa. E siccome le famiglie monoreddito fanno fatica a quadrare i conti, anche di figli se ne fanno pochi, uno o al massimo due. Come ha osservato il New York Times, di questo passo l’Italia rischia di sparire.

Superare l’ostacolo non è facile, ma altri Paesi ci sono riusciti. La Svezia è il caso di maggior successo. Per incentivare il lavoro femminile e insieme la natalità, ha messo in piedi un sistema pubblico di conciliazione che — visto dall’Italia — è davvero strabiliante. Vale la pena di ricordarne i principali strumenti. Tenendo presente che la loro generosità ha prodotto, sì, un’elevata occupazione femminile, ma non certo un aumento della popolazione. Più semplicemente, ha consentito di mantenere il tasso di natalità intorno al 2,1 figli per donna, il minimo indispensabile per non decrescere.

Iniziamo dai congedi parentali. Fin dal 1974, i padri svedesi hanno gli stessi diritti delle madri; oggi quasi la metà di loro sceglie di stare a casa per accudire i neonati. Il congedo retribuito è previsto per tutti i cittadini (è a somma fissa per chi non ha un lavoro dipendente). Inizialmente pari a sei mesi, la durata è stata elevata prima a 9, poi a 12, 15 e oggi è di 16 mesi indennizzati. Esaurito il congedo, i neo-genitori hanno il diritto di chiedere il part-time, se lo desiderano. Fino a che un figlio compie 12 anni, ci si può assentare dal lavoro per 60 giorni all’anno, anche se si ammala la baby sitter.

Praticamente tutti i bambini (il 100% nel caso dei lavoratori dipendenti) trova posto al nido. Solo i più benestanti devono pagare un ticket. I giovani fino a 29 anni con almeno un figlio hanno poi diritto a una indennità che copre circa la metà dell’affitto.

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Ma ora la pillola diamola ai maschi

domenica, Aprile 23rd, 2023

Simonetta Sciandivasci

Che le donne – tutte le donne – non debbano più pagare la pillola contraccettiva è una buona e giusta cosa. Però non è equa: lascia che la contraccezione sia onere (carico, se vogliamo usare una parola più incisiva e certamente più in voga) femminile.

La scelta dell’Aifa, quindi, diversamente da quanto è stato quasi unanimemente ed entusiasticamente scritto e detto, non è una svolta: è lo sgombero di una strada già intrapresa e conferma l’assetto patriarcale (spiace doverlo sempre dire) della nostra medicina, e in particolare della medicina riproduttiva.

È piuttosto impressionante che, sebbene una donna sia fertile pochi giorni al mese, mentre un uomo lo è sempre, si intervenga sulle donne e non sugli uomini. È impressionante per il portato culturale che questo illumina, e per la facilità con cui ne accettiamo la conseguenza, ovvero il controllo sul corpo delle donne, al punto che la pillola, ancora adesso, è in senso quasi univoco intesa come una liberazione, cosa che è certamente stata, ma che forse ora ha un segno e un senso diverso.

È difficile non riconoscere, in questo, l’acclarato automatismo che rende maternità sinonimo di genitorialità: figli e non figli sono questione femminile e privata (ma ecco una dimensione che l’Aifa ha smontato: quella privata).

Non accade solo in Italia, però altrove un po’ di più se ne discute, e la ricerca, anche se poco e in maniera non propriamente sistematica, sperimenta pillole contraccettive dedicate agli uomini.

La scelta dell’Aifa potrebbe essere un momento per fare lo stesso anche qui, partendo da alcuni dati e fatti, il più importante dei quali ci dice che vasectomia (legale dal 1978) e ricorso al preservativo, attualmente le uniche due pratiche contraccettive di onere maschile (il coito interrotto è più problematico), generano timore e imbarazzo. In pochi preferiscono la contraccezione maschile a quella femminile, in pochi considerano anche solo l’ipotesi di farlo.

Se e quando ci decideremo a fare educazione sessuale e affettiva nelle scuole, ricordiamoci di insegnare ai bambini che la vasectomia non è castrante, non devirilizza, non è cosa da femminucce. E mi scuso se uso questo termine in senso diminuente, Federica Fabrizio ha ragione quando scrive nel suo libro per Fabbri Editore, “Femminucce”, appunto, che è invece una parola di grande bellezza e di cui dovremmo riappropriarci. Mi scuso, ma mi serve esemplificare.

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Perché l’Italia ha bisogno di una destra “normale”

domenica, Aprile 23rd, 2023

MASSIMO GIANNINI

D’accordo, c’era da aspettarselo. Come ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera della scorsa settimana, era inevitabile che nell’Italia governata dal partito della Fiamma post-missina cominciasse a spirare un’aria da “passato che non passa”. E tanto più era da mettere in conto che proprio in questo tempo nuovo della politica italiana la Festa del 25 aprile si caricasse più che mai di sentimenti e risentimenti, fino a diventare in ogni senso una “pietra d’inciampo” per molti epigoni di quel passato. È così da decenni, figuriamoci adesso. Ma quello che non doveva succedere è che, a non stemperare o addirittura ad alimentare questo clima di tensioni e distorsioni, fossero le alte cariche dello Stato e del governo.

Giorgia Meloni non parla del giorno della Liberazione dal fascismo. Non ne ha mai parlato fino ad oggi, da presidente del Consiglio. Dopodomani sarà all’Altare della Patria con Sergio Mattarella. Aspettiamo il suo comunicato ufficiale, per capire se anche stavolta se la caverà evitando di pronunciare la parola “fascismo” (come è riuscita a fare a proposito della Shoah o delle leggi razziali del ’38), oppure dicendo che nel Ventennio lei non era nata e che dunque anche il 25 aprile del ‘45 va consegnato ai libri di Storia. Ma non ci vogliamo credere. Tacere, omettere o rimuovere le sarà assai difficile, stavolta. Ma finora l’ha fatto, con i suoi impudenti e “ignoranti” Fratelli d’Italia. La premier ha taciuto sull’intemerata del cognato Francesco Lollobrigida, occupandosi della “sostituzione etnica” solo per emettere la sua fatwa contro la vignetta satanica di un giornale, ma senza dire una parola sulla natura xenofoba e razzista della formula usata dal suo ministro.

E in fondo perché avrebbe dovuto correggerlo, se quella folle “teoria” è al centro delle “tesi di Trieste” lanciate in campagna elettorale da FdI e della propaganda contro i migranti che lei stessa e l’intera destra sovranista propugnano da anni, insieme ai complottisti antisemiti dell’Est-Europa e agli sciamani trumpisti di Qanon?

Soprattutto, la Sorella d’Italia ha taciuto sulle manipolazioni e sulle provocazioni di Ignazio Benito La Russa. Alle prime appartengono le sparate sull’eccidio di Via Rasella, compiuto dai partigiani criminali a spese di una “banda di pensionati altoatesini”. Alle seconde si iscrive l’ultima, di tre giorni fa, con la quale il presidente del Senato ci ha tenuto a far sapere agli italiani che nella Costituzione italiana non c’è la parola “antifascismo”. Si è anche indignato, perché i giornali avrebbero strumentalmente alterato il suo pensiero, omettendo “la parola” e facendogli dire quindi che “nella Costituzione non c’è l’antifascismo” (sparare una fesseria, o rivelare una verità, per poi accusare gli appositi cronisti di aver travisato sembra essere ormai un “metodo di governo”, come dimostra per analogia la reazione del ministro Crosetto all’intervista a La Stampa di ieri, in cui riconosce con onestà quel che evidentemente non andava detto, e cioè che sul Pnrr il Sistema-Paese ha cumulato ritardi non più colmabili).

Prendiamo pure per buona la ricostruzione di La Russa. Ma sappiamo tutti che Ignazio Benito è già inciampato più volte, nelle marce su Roma del 1922 e nei cortei violenti del 1973. E allora la domanda è semplice: perché uno come lui sente il bisogno di sottolineare che nella Costituzione non c’è la parola antifascismo? Il falso storico e giuridico si smonta facilmente: a prescindere dalla forma, per l’Italia libera di allora e di oggi la sostanza della Carta del ‘48 è nutrita di antifascismo come per Shakespeare la vita degli umani è fatta della stessa materia dei sogni. Ma allora, e di nuovo: perché la seconda carica dello Stato deve uscirsene con una frase così assurda e gratuita, alla vigilia del 25 aprile? A chi giova? A chi parla?

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