Archive for the ‘Editoriali – Opinioni’ Category

La premier ascolti la lezione Amato-Fini

sabato, Aprile 22nd, 2023

Montesquieu

Basterebbe, per uscire dal vicolo cieco di una politica vuota di idee, seguire il suggerimento che da New York Giuliano Amato offre a Giorgia Meloni: per uscire una volta per tutte dal vicolo cieco della disputa sul fascismo e l’antifascismo come unica, o quasi, essenza del dibattito politico, a quasi ottant’anni dalla data di nascita della democrazia, della Repubblica, della Costituzione. Con la precisazione che la citazione una volta tanto non insegue la consueta originalità dell’autore, che in questo caso esprime un concetto assai diffuso negli esseri pensanti, ma la sua autorevolezza.

Basterebbe, quindi, che Giorgia Meloni ripartisse ufficialmente dal punto di arrivo in materia di Gianfranco Fini (il famoso “male assoluto” proclamato in terra di Israele), per attenuare l’accusa di attaccamento a quelle radici. Fino a farla rapidamente e definitivamente dissolvere, almeno lì dove alberga un po’ di buona fede. Nessuno oggi, almeno lì dove alberga quel po’ di buona fede, accuserebbe Fini di nostalgia di una dittatura, e nemmeno di attaccamento a quelle radici; e non tanto e non solo per la radicalità e la fermezza di quell’abiura, quanto per la inequivocità e la nettezza di quel percorso di uscita da una destra ancora ricca di ambiguità e doppisensi. Come dimostra il legame subito instauratosi tra il pensiero finiano e inequivocabili campioni della democrazia. Tali erano e sono Rutelli, Tabacci, Casini, e altri. Ma nessuno, a destra, presidente del Consiglio in testa, evoca il nome di Fini, così come nessuno si propone di adottare il suo percorso. Nessuno rievoca lo strappo insindacabile di Alleanza nazionale e di Fini, più semplice ritrovare la memoria del Movimento sociale di Almirante. Era lì, a portata di mano, un polo conservatore tale da riabilitare l’appellativo storicamente nobile di destra. Si preferisce continuare ad animare lo sgorbio che si è imposto in giro per le democrazie, sempre più scivolanti. A certi voti, a certe compagnie, forse a certe idee non si rinuncia volentieri. Troppo faticoso sostituirli.

Così a destra, ahimè. In quella di Gorgia Meloni, non la più rozza ed estrema, forse la più intelligente e aperta. Ma al tempo proviamo a immaginare, sui palchi del vicinissimo 25 aprile, presentarsi, con lo spirito giusto dell’antifascismo, il presidente del Senato, lo stesso capo del governo, e altri campioni della stessa maggioranza, anche di altro partito. A immaginare che lì, su quei palchi, quegli stessi pronuncino quelle parole che tutti dicono di auspicare. Giubilo a sinistra? Sarebbe, probabilmente, il peggiore 25 aprile possibile per una parte, difficile da quantificare ma probabilmente non infima, della nostra politica antifascista e sedicente di sinistra.

Rating 3.00 out of 5

25 aprile: i valori, la memoria e le ostilità di troppo

sabato, Aprile 22nd, 2023

di Antonio Polito

«Lui stesso ha detto che non sapeva quello che diceva». Questa frase di Ignazio La Russa, pronunciata in difesa del ministro Lollobrigida per lo strafalcione sulla «sostituzione etnica», potrebbe essere apposta come epigrafe a buona parte del dibattito odierno sul 25 aprile e la festa della Liberazione. Con un’aggiunta evangelica: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Un precetto che tra l’altro assolverebbe anche lo stesso presidente del Senato; il quale, nello scusarsi per aver detto che a Via Rasella i partigiani nel 1944 attaccarono «una banda musicale di semi-pensionati», ha invocato la stessa esimente, confessando di non sapere se «quella notizia, più volte pubblicata e da me presa per buona», fosse in realtà errata. Un tempo neanche troppo lontano le polemiche su natura e sorti di fascismo e nazismo le facevano gli storici, e si citava George Mosse o Francois Furet, Eric Hobsbawm o Renzo De Felice, Emilio Gentile o Claudio Pavone.

Oggi gli accademici hanno lasciato il passo a meno studiosi militanti, che dilaniano la vicenda storica prendendosene ciascuno il suo brandello. Ma questo esercizio, man mano che si allontana la memoria degli eventi di circa ottant’anni fa e i suoi testimoni scompaiono, diventa paradossalmente anche più pericoloso: perché un Paese senza memoria è un Paese senza storia, come avvertiva già nel 1975 Pier Paolo Pasolini.

Così siamo di nuovo qui a chiederci sorpresi come mai la festa della Liberazione non sia ancora, come pure dovrebbe essere, un valore condiviso, patrimonio nazionale e comune. Ma la verità è che quella data è sempre stata «divisiva», spesso deliberatamente «divisiva». Si può anzi dire che ha fatto notizia solo quando ha diviso.

Nei tornanti storici in cui è stata sconfitta o ha rischiato l’emarginazione, per esempio, la sinistra l’ha usata di solito per «delegittimare» i nemici del momento. Così il De Gasperi che nel 1947 fa un governo senza i comunisti viene accusato di aver rotto l’unità antifascista della lotta di Liberazione; nel 1960 il governo Tambroni, che si fa votare la fiducia dal Msi, viene imputato di riaprire le porte al fascismo; e i gruppi extraparlamentari negli anni ’70 identificano nella Dc il «nuovo fascismo»; e le Brigate Rosse si propongono come la «nuova Resistenza»; e nel 1994 perfino Umberto Bossi si materializza alla manifestazione del 25 aprile promossa dal «manifesto» contro la vittoria elettorale del «Cavaliere nero», perché stava per portare al governo i post-fascisti di Fini; e nel 2006 la sindaca di Milano, Letizia Moratti, viene cacciata a furia di fischi e cori dal corteo, nonostante spingesse la sedia a rotelle del padre, deportato a Dachau e decorato con la medaglia della Resistenza; e la Brigata ebraica, che alla liberazione dell’Italia ha partecipato per davvero, viene fischiata ogni anno. Perché è «ebraica».

Rating 3.00 out of 5

È la satira bellezza, anche quando è volgare

venerdì, Aprile 21st, 2023

Luca Bottura

La politica che spiega alla satira cos’è la satira non è mai un bello spettacolo. Anche in presenza di satira disgustosa. Forse soprattutto: altrimenti si è Charlie solo quando qualcuno arma il Kalashnikov. Lo fu persino Daniela Santanché, per dire.

È che in democrazia ciò che non è diffamatorio, è permesso. Anche al netto del nitore artistico o persino morale della vignetta. E cosa sia diffamatorio lo stabilisce un giudice, non la seconda carica dello Stato coram populo.

Così, il disegno contro la sorella di Giorgia Meloni, anzi: soprattutto contro suo marito, apparso ieri sul Fatto Quotidiano, può legittimamente apparire greve, irricevibile, sessista, eccetera. Ma non è il Parlamento il luogo per discuterne. Non è la sede di partito il posto giusto per indignarsi. Non è, l’opposizione, il Malaussène virtuale che deve scusarsi per ciò che non ha commesso, facendosi schiacciare come sempre nella narrazione che la vede colpevole delle guerre puniche, del terrorismo, forse anche dei 15 punti restituiti alla Juve.

Specie se, per scomodare Debord a casaccio, ha assistito (quella politica che oggi indossa le gramaglie) al progressivo smantellamento delle barriere di opportunità tra potere, informazione, appunto satira. Contribuendo al loro sfaldamento. Non solo il mezzo non è più il messaggio: il mezzo si sovrappone al messaggio in un turbinio di sciocchezze a favore di camera. E di Camera. E di Senato. In un doppiopesismo che la politica ha sempre avuto ma, da qualche decennio, (facciamo quattro), da quando cioè abbiamo inventato a Milano due un format per cui la Fox dovrebbe pagarci la Siae, è diventato programma di Governo.

Fratelli d’Italia, la Lega, la Destra italiana tutta, compresi, per primi, i Cinque Stelle a trazione Casaleggio, utilizzano nei confronti degli avversari politici una logica di fideismo Qanonista che prevede lo strepitio contro qualcuno, categoria o persona: basta che non possa difendersi, come volàno del consenso. Per quella discutibile vignetta prendono cappello gli stessi che hanno crocifisso “la Boldrina”, chi ne esibiva la bambola gonfiabile sui palchi, quelli che davano degli oranghi agli avversari di colore, quelli per due voti parlano per anni di sostituzione etnica e poi dicono che non sapevano e che si riferivano al ristorante indiano sotto casa.

Di più: Arianna Meloni è comprensibilmente risentita per l’improntitudine grossier applicata alle cose di famiglia, ma oltre che dell’agguato satirico è vittima di una società dello spettacolo che le è toccato cavalcare “autodenunciandosi” per smentire gossip conosciuti solo nell’inner circle del generone romano.

Rating 4.00 out of 5

Lo Stato che non premia il merito

venerdì, Aprile 21st, 2023

di Sabino Cassese

Si pensa a nuove assunzioni invece di retribuire meglio quelli che ci sono, anche per migliorare il servizio

Autorevoli esponenti di governo continuano ad annunciare cospicue assunzioni nel settore pubblico. Già altre ne sono state disposte con il piano di ripresa. Si aggiungono le immissioni in ruolo dalle graduatorie provinciali degli insegnanti di sostegno e la stabilizzazione dei precari con 36 mesi di servizio, anche non continuativo, nonché dei precari degli enti locali. Il Dipartimento della funzione pubblica è al lavoro per fare una ricognizione del personale da stabilizzare e un fondo sarebbe stato costituito al ministero dell’Economia e delle finanze per coprire parte dei costi di queste assunzioni. Poi, ci si può attendere che, nel 2026, si dovranno stabilizzare le persone assunte a tempo determinato dalle amministrazioni e dagli uffici giudiziari per il piano di ripresa. Infine, un decreto legge approvato dal governo il 6 aprile scorso ha dettato «disposizioni urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle amministrazioni pubbliche», disponendo cospicui aumenti delle dotazioni organiche. Solo nel 2023 sono programmate 170 mila assunzioni. È questo il modo per rafforzare la capacità amministrativa del settore pubblico?

Sgombriamo il campo dall’illusione che le assunzioni vogliano dire più voti. Coloro che nutrono questa speranza saranno presto disillusi. Si tratta di un pessimo calcolo. S i creerà un altro esercito di scontenti a causa delle condizioni di lavoro negli uffici pubblici, che, per essere generosi, possono essere definite subottimali.

L’argomento usato da chi sostiene la necessità di assumere altro personale pubblico è quello del blocco del «turn-over» durato almeno un decennio. Ma questo non tiene conto dello Stato-arcipelago, di quanti nuovi organismi esterni alla pubblica amministrazione si sono aggiunti in questi anni, autorità, agenzie, istituti ausiliari, che fanno parte del settore pubblico perché operano con risorse pubbliche. Se la Ragioneria generale dello Stato curasse le statistiche del settore pubblico, dovrebbe calcolare anche il personale addetto alle funzioni che sono state esternalizzate.

Bisognerebbe, invece, cogliere la duplice occasione di un mercato del lavoro con minori tensioni e della disponibilità di risorse che derivano dal piano di ripresa e dalla denatalità, che diminuisce la richiesta di alcuni servizi pubblici, in particolare di quello scolastico, per una cura dimagrante che serva ad aumentare la produttività, ma specialmente le retribuzioni del pubblico impiego.

Rating 3.00 out of 5

Debito e crescita, ecco perché è un errore dire no ai prestiti Ue

giovedì, Aprile 20th, 2023

di Federico Fubini

Ci sono realtà che bisogna riconoscere, quando si parla del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Non per gettare la spugna e dirsi che non c’è più niente da fare, ma al contrario per definire i punti di partenza e la strategia. Ecco dunque alcune di queste realtà. Solo nel 2022, tra settore pubblico e settore privato, la Francia ha investito 256 miliardi di euro più dell’Italia e la Germania ne ha investiti 474 in più. In un solo anno i nostri due principali partner e concorrenti hanno dispiegato in ricerca, macchinari, infrastrutture e tecnologie somme pari — rispettivamente — a oltre un Recovery e a oltre due Recovery in più rispetto all’Italia. Si potrebbe pensare che questi scarti riflettano le diverse dimensioni fra le economie nazionali, ma non è così. Non era già più così una quindicina di anni fa, quando il ritardo italiano negli investimenti era di cento o 150 miliardi l’anno (ai valori correnti) sui due grandi Paesi dell’area euro. Ma ora che lo scarto si è allargato a molte centinaia di miliardi l’anno, la sproporzione è ancora più evidente.

La Francia sviluppa un prodotto interno lordo di un terzo maggiore del nostro, ma investe due terzi di più; la Germania ha un Pil pari quasi al doppio del nostro, ma investe parecchio più del doppio rispetto a noi.

Lo Stato francese nel 2022 ha investito il doppio dello Stato italiano, le imprese francesi oltre duecento miliardi in più rispetto alle imprese italiane. Queste sono le grandezze relative a dove stiamo andando, basate sulla banca dati della Commissione europea. Immaginiamo di proiettare un simile ritardo sui prossimi dieci anni e l’arretratezza dell’Italia rispetto alla frontiera europea — non parliamo neanche di Stati Uniti, Cina o Giappone — sarebbe abissale. Avremmo infrastrutture, nuovi immobili, tecnologie, conoscenza, capacità digitale, capacità di produzione energetica, capacità di produzione agricola, automazione industriale per un valore di migliaia di miliardi in meno. È il futuro che vogliamo?

Difficile credere che questa visione animi le voci che in queste settimane si fanno sentire perché il governo rinunci almeno a una parte dei prestiti del Pnrr. Eppure in Italia si è formata una strana coalizione, molto eterogenea, che spinge in quella direzione: l’ala più anti-europea della maggioranza non vede l’ora di veder fallire il progetto di Bruxelles che più contraddice i suoi pregiudizi; ci sono poi osservatori divenuti più scettici su quanto sia possibile fare oggi del Pnrr, preoccupati soprattutto che i prestiti europei non finiscano per far salire il debito senza benefici visibili per l’economia. Questi timori sono legittimi, ma di nuovo vanno confrontati alle grandezze in gioco e ai possibili scenari alternativi. Il punto di partenza è che dei 191,5 miliardi di investimenti del Pnrr, 67 li faremmo comunque perché erano e restano già programmati. Invece si può ipotizzare che, senza Pnrr, rinunceremmo ai restanti progetti per 124,5 miliardi.

La differenza nel costo fra i due scenari salta agli occhi: poiché il Piano europeo è un misto di sussidi e prestiti a scadenza trentennale sui tassi agevolati di Bruxelles, con il Pnrr l’Italia è in grado di sviluppare investimenti per quasi duecento miliardi di euro pagando solo 2,5 miliardi di interessi all’anno. Senza il Pnrr, finanziandoci ai costi del debito trentennale italiano, l’Italia potrebbe sviluppare solo 67 miliardi di investimenti pagando in interessi 2,7 miliardi l’anno. In sostanza, rinunciando ai prestiti, avremmo meno della metà degli investimenti. Eppure pagheremmo di più.

Rating 3.00 out of 5

Quei soliti metodi per le poltrone di stato

mercoledì, Aprile 19th, 2023

Montesquieu

Da un paio di lustri, più o meno dopo il governo di Mario Monti, la nostra politica (con l’eccezione della fiammata autocombustiva del governo Renzi), sforna legislature capaci al più di una sterile e penosa sopravvivenza. Un rischio serio, soprattutto se replicato, per un sistema democratico. Se noi continuiamo a essere una quasi tranquilla democrazia, lo dobbiamo al pronto soccorso istituzionale del nostro Capo dello Stato, intuizione geniale dei mai abbastanza ringraziati costituenti, in tempi in cui si sbriciolano le barriere tra democrazie e autocrazie, col compiacente stadio solo all’apparenza intermedio delle cosiddette democrature. A lui, al Capo dello Stato, la Costituzione affida la formazione del governo o, se impossibile, la decisione di sciogliere le Camere. Il compito degli elettori, nel nostro ordinamento, si esaurisce con l’elezione dei propri rappresentanti nelle due Camere. Così, il sistema è in sicurezza, comunque tenuto in vita con una sorta di coma farmacologico che attenua la debolezza dell’offerta politica, e tutela la funzionalità, a basso regime, dei fondamentali organi costituzionali. In attesa che la politica si riconcili con la propria fondamentale funzione.

Così fino allo scorso 25 settembre, una data che rappresenta, per molti, una sorta di natale di una nuova politica: una donna al comando del Paese. Non una “quota rosa”, scelta dagli uomini della politica nell’apposito, raffinato catalogo, destinato a perpetrare il potere maschile; bensì la forza di una donna che conquista prima un partito, il suo, il meno sensibile alle istanze della parità di genere. E poi attraverso il voto, la guida del governo del Paese. Gli uomini non mancano, in quello schieramento, e nemmeno le loro ambizioni, subito rimesse nel fodero dietro un sorriso tirato. Una rivoluzione , attesa da più di settant’anni, per chi è certo che tutto ora cambierà per il meglio; una novità, seguita con curiosità e buona disposizione da chi non ha prevenzioni o preferenze di genere, ma giudica intollerabile lo squilibrio di rappresentanza. Ma reputa il giudizio più attendibile del pregiudizio. Inseguita la novità, immediatamente, per la forza dell’emulazione, da un segnale di tendenza verso la stessa direzione nel versante opposto della nostra politica: la conquista da parte di una candidata (tutt’altro una “quota rosa”, anche questa ) della segreteria del principale partito avversario, il Partito democratico. Una spinta verso una sfida per il governo completamente al femminile.

Ce ne sarà, da osservare e commentare, a cominciare da ora. I primi passi del governo Meloni consegnano elementi insufficienti, al di là delle ideologie, per formulare previsioni d’insieme. Se non si considera tale la conferma di una raffinata, e oramai rara in entrambi i generi, capacità politica del presidente del Consiglio, e di un promettente avviamento di temibili relazioni sovranazionali e internazionali. Difficile da giudicare il primo atto del presidente del Consiglio in quello che è da sempre il punto debole dei nostri governi, la formazione della immensa (assai più del dovuto) dirigenza del Paese attraverso la politica delle nomine di spettanza governativa e politica in generale.

Rating 3.00 out of 5

Il valore dell’acqua: pericolose (e costose) trappole

mercoledì, Aprile 19th, 2023

di Ferruccio de Bortoli

Il Figliuolo dell’acqua non c’è ancora ma come commissario all’emergenza siccità dovrà lavorare più duramente — e molto più a lungo — del generale degli alpini protagonista della campagna vaccinale.
Il decreto legge, varato il 6 aprile dal Consiglio dei ministri, ha un solo, non secondario, problema: quello delle coperture finanziarie. Le risorse indispensabili per adeguare le infrastrutture e potenziare il servizio idrico nazionale vanno trovate rimodulando i piani di spesa di altri investimenti già messi a bilancio. Non semplice. Il provvedimento è comunque entrato in vigore il 15 aprile. Istituisce una cabina di regia, presieduta dalla presidente del Consiglio, che potrà avvalersi di cinque esperti (pagati fino a un massimo di 50 mila euro lordi l’anno). Il nuovo commissario, che verrà nominato probabilmente alla fine della settimana, dovrà completare entro un mese un’attenta ricognizione delle opere più urgenti. Eserciterà poteri sostitutivi nei confronti di amministrazioni locali e non solo. Semplificherà le procedure. Un compito titanico. In Italia vi sono 30 mila enti, 10 mila uffici. Un intreccio diabolico di competenze locali e nazionali. E, come segnala il rapporto Water Economy in Italy, non esiste una mappatura di tutti gli usi. Il servizio idrico integrato, ovvero acquedotti, fognature e depurazione, su cui esercita la propria sorveglianza l’Arera l’autorità di settore, riguarda solo il 20 per cento del totale dei prelievi.

L’urgenza è assoluta perché la mancanza di acqua è drammatica; i segni della desertificazione di intere aree dolorosamente visibili; le condizioni di alcune filiere agricole potenzialmente disastrose. Eppure nel dibattito pubblico – e ciò interroga la nostra coscienza civica – prevale un colpevole e inspiegabile fatalismo che rasenta l’irresponsabilità collettiva e individuale. Basta che piova un po’ e subito l’emergenza scompare. Il dissesto idrogeologico purtroppo no, peggiora. Secondo l’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) viviamo in una delle aree, nelle quali le anomalie climatiche saranno, nei prossimi anni, superiori alla media mondiale.

Siamo il Paese con il consumo pro capite (215 litri a testa al giorno) più alto della media europea (125). La perdita dei nostri acquedotti, seppur lievemente migliorata, è del 42 per cento. L’acqua piovana — ne abbiamo il 20 per cento in meno rispetto al secolo scorso — la raccogliamo e la sfruttiamo solo al 10 per cento. Gli invasi sono pochissimi. La loro realizzazione non piace alle comunità. Disturbano come le pale eoliche e gli impianti fotovoltaici. L’articolo 6 del decreto prevede che le vasche di raccolta dell’acqua piovana a uso agricolo, fino a un volume massimo di 50 metri cubi, possano essere eseguite liberamente. L’irrigazione in agricoltura è quasi tutta a scorrimento e per canali in terra. Inefficiente a dir poco. Non si potrà andare avanti a lungo così, pena la sopravvivenza di tante colture e il destino commerciale di molti prodotti tipici. Solo il 5 per cento delle acque reflue depurate è impiegato a fini agricoli o industriali. L’articolo 7 ne favorisce l’uso. È sufficiente un’unica autorizzazione che certifichi la sostenibilità sanitaria e ambientale. L’acqua desalinizzata è riutilizzata solo per lo 0,1 per cento contro il 7 per cento della Spagna. L’articolo 10 prevede minori ostacoli agli impianti di desalinizzazione, assai difficili da realizzare in base alla cosiddetta legge «Salvamare».

Rating 3.00 out of 5

Giorgia va veloce, ora Elly si muova

lunedì, Aprile 17th, 2023

Alessandro De Angelis

Come evidente, l’annuncio dell’abolizione della “protezione speciale”, tanto utile per gasare la curva, è del tutto ininfluente sul controllo degli arrivi. Come lo è stato – altra misura bandiera – l’inasprimento delle pene per dare la caccia agli scafisti su tutto “l’orbe terraqueo”. Chissà come mai gli scafisti non consultano il codice penale. E i seicento disperati soccorsi al largo di Porto Palo o gli oltre duecento a Lampedusa non si informano sulla legislazione nazionale prima di intraprendere i viaggi della speranza.

E il sole di maggio, con una crescita esponenziale degli sbarchi, è destinato a illuminare il cortocircuito della propaganda messo in campo per supplire al non governo della situazione. Non governo icasticamente raffigurato dalla dichiarazione della premier che da Addis Abeba promette il famoso piano Mattei in autunno, ampiamente a babbo morto, quando cioè la Commissione sarà già in ordinaria amministrazione perché si vota. Il cortocircuito è questo: l’assenza di una strategia, in Europa e in Italia, ha aperto uno spazio alla radicalizzazione su cui Salvini si è infilato, supportato dai giornali di destra che menano la gran cassa dell’invasione (come se i loro beniamini fossero all’opposizione). E Giorgia Meloni, entrata nella dimensione dell’inseguimento in quanto esposta sul tema (nonostante Salvini non sia al Viminale), sceglie, per non subirlo, di intestarsi la radicalizzazione, prima col varo dello stato di emergenza, poi con l’abolizione della protezione speciale. Come a dire: sono pronta allo scontro e guido io (nell’anno delle Europee).

Se ci fosse un’opposizione degna di questo nome, incalzerebbe il governo, disvelandone le contraddizioni. Prima tra tutte che la misura introduce un pericoloso principio di insicurezza nazionale: il non riconoscimento della protezione crea un “esercito di invisibili” che non vengono censiti, alimentando il rischio che diventino massa di manovra della delinquenza nelle periferie. L’opposto (qui il cortocircuito è con la realtà) di come viene presentata. Peccato che invece, di fronte a un’evidente difficoltà del governo, il miglior alleato sia proprio l’opposizione, ognuna persa dentro i fatti suoi. Chi in una lite da “comari” che ne ha sancito l’implosione, chi (i M5s) impegnato solo a ordire trappole al Pd (su guerra e termovalorizzatore), chi scomparso dal discorso pubblico se non per qualche incursione, anch’essa solo propagandistica: “Where is Elly?”.

Rating 3.00 out of 5

Gli Usa ci ignorano, Europa allo sbando

lunedì, Aprile 17th, 2023

Lucio Caracciolo

Ma chi comanda in Europa? Fino al febbraio dello scorso anno, la risposta suonava ovvia: gli Stati Uniti sul piano strategico e militare, con la Germania a mettere insieme una politica economica per l’Eurozona compatibile con i propri interessi mercantili e con la propria cultura monetaria. L’egemonia americana si esprimeva via Nato, sulla base del motto originario: «Americani dentro, russi fuori, tedeschi sotto». La subegemonia economica tedesca, sotto ombrello atlantico ovvero protettorato americano, verteva sulla vestizione europea delle priorità germaniche. L’invasione russa dell’Ucraina e l’inasprirsi della sfida fra Washington e Pechino hanno travolto queste certezze. E prodotto interessanti paradossi. Dei quali l’Italia dovrà tener conto per non finire fuori gioco. Cominciamo dagli Stati Uniti. Non passa giorno senza che da Casa Bianca e dintorni ci si comunichi che noi europei non siamo in cima ai loro pensieri (con la simpatica eccezione irlandese, fissazione di Biden per via di sangue).

Perché la bussola è il contenimento della Cina. Gli apparati a stelle e strisce si preoccupano di noi quasi solo per impedire che l’influenza cinese in Europa diventi troppo pervasiva. Vale soprattutto per la competizione tecnologica – ossessione americana – meno per i commerci.

La guerra in Ucraina viene dopo. Per l’ottima ragione che Washington ha già raggiunto il suo obiettivo strategico: rompere l’interdipendenza energetica fra Russia e Germania. Il 7 febbraio 2022, tre settimane prima dell’inizio della guerra, Biden aveva pubblicamente proclamato davanti al silente cancelliere Scholz: «Noi porremo fine ai gasdotti Nord Stream 1 e 2. Prometto che saremo in grado di farlo». Che siano stati direttamente sabotatori americani a eseguire la volontà del presidente o altri che ne condividessero i propositi, alla fine il risultato è Usa batte Germania-Russia due a zero.

Il secondo obiettivo era dare una lezione a Putin tenendo unita la Nato. La partita è in corso. Il risultato incerto. Il sostegno alla resistenza ucraina ha sventato la presa russa di Kiev, ma la guerra di attrito nel Donbas continua. Il Pentagono lamenta che sta esaurendo gli stock di munizioni. Ed è in ritardo di quattro anni nelle forniture di armi a Taiwan perché le deve stornare verso l’Ucraina, teatro secondario. Molti negli apparati americani vorrebbero chiudere entro l’anno la guerra in stile coreano: una «Corea del Nord» – i territori ucraini in mano ai russi – concessa a Mosca e una «Corea del Sud» – il grosso del paese, sotto Kiev, «garantita» (si fa per dire) dalle maggiori potenze. Con gli europei a pagare il grosso della ricostruzione. Due utopie difficilmente fanno una realtà.

Rating 3.00 out of 5

Quei cristi invisibili che vogliamo respingere

domenica, Aprile 16th, 2023

Massimo Giannini

La profezia era stata fin troppo facile, affidata alle parole del grande Fernando Aramburu in “Patria”: un giorno non molto lontano in pochi ricorderanno quello che è successo. «Ed è inutile farsi il sangue amaro: è la legge della vita, alla fine vince sempre l’oblio». Infatti l’oblio ha vinto anche stavolta. Sono passati quasi due mesi dal naufragio di Cutro del 26 febbraio. Novantuno vittime accertate, di cui trentacinque bambini. Ottanta sopravvissuti. Almeno dodici dispersi. Da allora quella spiaggia – punteggiata prima di corpi, poi di croci e di fiori – è già svanita dalla nostra memoria. Il mare ha smesso di restituire i morti, noi abbiamo smesso di preoccuparci dei vivi. La compassione è finita. Adesso è di nuovo «invasione». E dobbiamo ricominciare a difenderci.

Tonificato dall’audace colpo messo a segno con le nomine nelle “Big Five” partecipate dallo Stato, Matteo Salvini rilancia la crociata cattivista contro i migranti, tornando sul luogo del delitto compiuto ai tempi dei due decreti sicurezza varati dal governo grillo-leghista. Dopo aver picconato allora l’istituto della protezione «umanitaria», ora si tratta di abolire o indebolire anche quella «speciale» che è rimasta. Il Capitano non si accontenta di aver cancellato quattro anni fa la tutela per i profughi che non avevano diritto al riconoscimento dello status di rifugiato ma non potevano essere allontanati dal territorio nazionale a causa di oggettive e gravi situazioni personali. Adesso vuole abolire anche la protezione per il cittadino straniero che, se rimpatriato, possa essere oggetto di persecuzione o rischi di essere sottoposto a tortura, trattamenti degradanti, violazioni sistematiche e gravi di diritti umani.

Lo prevedevano già due disegni di legge incardinati presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera. E ora lo ribadisce un emendamento della maggioranza al decreto-Cutro, in discussione al Senato, che vieta la possibilità di convertire la protezione speciale in permessi di soggiorno per lavoro e i permessi legati a calamità naturali o a patologie mediche curabili nel Paese d’origine.

Poteva sembrare solo l’ennesima fuga in avanti del Carroccio, per mettere alla prova i Fratelli d’Italia e testare nuovamente i rapporti di forza interni alla coalizione. Purtroppo non è così. Lungo la frontiera del «peggiorismo» ideologico e del revanchismo identitario la rincorsa a destra non ammette né soste né deroghe. Libera da ogni retaggio ideologico del Fascismo e sciolta da ogni vincolo storico col Colonialismo, Giorgia Meloni ad Addis Abeba rilancia la controffensiva sovranista/revisionista. Respinge tutte le critiche, all’insegna della rimozione del passato e dell’assoluzione del presente. Abbraccia tutti i bambini, in nome dell’indiscutibile «fratellanza euro-africana» e dell’immancabile “Piano Mattei”. Siamo tutti etiopi, a casa loro. Ma vogliamo solo italiani, a casa nostra. Dunque sì, la presidente del Consiglio conferma che l’obiettivo della «eliminazione della protezione speciale» non è solo di Salvini, ma è anche il suo. E allora prepariamoci, perché il governo andrà avanti su questa strada. Anche se stavolta l’Europa non ce lo chiede, il buon senso ce lo sconsiglia, l’ordinamento giuridico ce lo vieta.

Rating 3.00 out of 5
Marquee Powered By Know How Media.