Archive for the ‘Editoriali – Opinioni’ Category

Terzo Polo, passione triste

sabato, Aprile 15th, 2023

Massimo Recalcati

La logica tristemente infausta dei due galli in un pollaio è davvero sufficiente per spiegare quello che appare come il naufragio politico del progetto del cosiddetto Terzo Polo? È un fatto di esperienza: non sempre le separazioni affettive ci obbligano a distribuire in parti eguali la responsabilità del fallimento di una unione. A volte si constata che è una delle due parti a perseguire (coscientemente o inconsciamente) l’obbiettivo della divisione, mentre l’altra prova in tutti i modi a difendere la relazione dalla sua fine. È forse questo il caso della morte prematura del progetto di unione tra Azione e Italia viva promesso agli elettori nell’ultima campagna elettorale? Vi sarebbe allora qualcuno dei due più colpevole dell’altro? Qualcuno che ha maggiori responsabilità nell’aver reso impossibile un progetto politico atteso da diversi come una speranza di questo Paese?

È quello che insistono a raccontare in queste ore, con più o meno livore, i rappresentanti dei due schieramenti in conflitto. Non intendo entrare nel ginepraio psichico che queste domande spalancano a cielo aperto. È inutile, scriveva Majakovsky prima di suicidarsi, “rinfacciarsi i torti reciproci”. Il problema mi pare assai più generale e prescinde dai caratteri dei due contendenti, come dai calcoli individuali o di schieramento. Riguarda piuttosto la politica nell’epoca della sua evaporazione ideologica. Più del teatrino dei due galli nello stesso pollaio obbligati ad affermarsi l’uno contro l’altro, utilizzerei la metafora, altrettanto nota, del dito con l’unghia sporca che indica la luna. Restare a osservare l’unghia sporca – sempre quella dell’altro ovviamente – impedisce, lo sappiamo, di contemplare la bellezza della luna. È questo un problema che la vita politica contemporanea – non solo quella del nostro Paese – patisce profondamente. È una delle ragioni che hanno sospinto recentemente Elly Schlein ad una vittoria inattesa. Ci voleva uno strappo, una discontinuità col passato, un movimento in avanti. Perché la crisi della politica implica anche la spinta a farla risorgere dalle ceneri, ovvero la necessità di rendere ancora possibile la visione della bellezza della luna. E non mi stupisce che Schlein debba gran parte della sua affermazione all’essere una leader capace di esprimere la forza e il coraggio della giovinezza. La sua vittoria scaturisce, infatti, ben al di là dei contenuti specifici del suo programma, se non, a mio avviso, addirittura in contraddizione con alcuni di essi, dall’incarnazione persuasiva di una passione che non arretra di fronte agli ostacoli e che sa coinvolgere in modo avvincente le nuove generazioni. Ma è indubbio che la politica ai tempi della sua evaporazione, comporti per lo più il fiorire di leadership sempre più narcisistiche e sempre meno al servizio della comunità. Questo restringe fatalmente l’orizzonte del pensiero politico a quello del proprio Ego e alla difesa dei suoi prestigi.

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L’orologio che ha rovinato Macron

sabato, Aprile 15th, 2023

di Aldo Cazzullo

Il presidente è fondamentalmente l’argine contro il populismo, di destra e di sinistra, ma non è riuscito a risolvere le questioni da cui il populismo trae vita e forza

S e è vero che ognuno di noi verrà ricordato per due o tre cose, allora Emmanuel Macron resterà nella memoria collettiva come il presidente con l’orologio; proprio come il suo lontano predecessore e dichiarato modello Valéry Giscard d’Estaing è ricordato come il presidente dei diamanti. Ma se quello fu uno scandalo mai chiarito che coinvolgeva un odioso dittatore, Bokassa, stavolta il presidente non ha fatto nulla di male. Si è soltanto tolto un orologio di lusso durante un’intervista televisiva in cui spiegava i motivi della propria riforma delle pensioni, contro le mobilitazioni di piazza. Nella foga dell’argomentazione ha sbattuto l’orologio; così se l’è slacciato di nascosto, tenendo per un breve e fatale attimo le mani sotto il tavolo. Ma per i suoi nemici l’ha fatto per vergogna, per occultare un simbolo di ricchezza e di privilegio proprio mentre sosteneva le ragioni per cui bisogna chiedere un sacrificio a lavoratori anziani e mal pagati.

Molto probabilmente ha ragione Macron. L’orologio non vale 80 mila euro, come hanno scritto i suoi odiatori, ma duemila: che non sono pochi, ma restano nella sfera dei fatti propri, non in quella delle brioches di Maria Antonietta, dell’ostentazione aristocratica e dello sfregio al popolo. E ovviamente ha ragione Macron pure quando ricorda che la vita si allunga e lavorare sino a 64 anni, con l’eccezione dei lavori usuranti, è necessario.

Eppure la popolarità del presidente è crollata, e secondo un sondaggio abbastanza terrificante se si votasse oggi Marine Le Pen entrerebbe trionfalmente all’Eliseo, battendo in un ballottaggio altrettanto terrificante il campione della sinistra radicale Jean-Luc Mélenchon. Ma allora, se l’orologio non era poi così costoso e la riforma prevede due soli anni di lavoro in più, perché la Francia ha reagito con tanta indignazione e tanta violenza?

Ieri sera sulla legge che Macron ha imposto in Parlamento senza avere la maggioranza dei voti si è espresso il Consiglio costituzionale: «i nove Saggi», come li ha definiti un’analisi del Figaro firmata dal soave nome di Célestine Gentilhomme, ma corredata di foto di celerini armati e scontri di inaudita durezza. Com’era prevedibile i saggi, presieduti da un vecchio e accorto arnese come Laurent Fabius che era primo ministro di Mitterrand a 37 anni e ora ne ha 76, hanno individuato una soluzione di mezzo, cassando parti secondarie della riforma ma salvandola nella sostanza. Come a dire: abbiamo ascoltato il popolo, senza boicottare il sovrano. Ora ci saranno altre fiammate, ma forse la questione si assopirà; in attesa della prossima rivolta.

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L’invisibile fragilità dei 18 anni

venerdì, Aprile 14th, 2023

Annalisa Cuzzocrea

È inutile guardare dentro quel telefonino. Inutile spiare un video, chiedere agli amici, aspettare l’autopsia, perché mai nessuno capirà fino in fondo cosa sia successo. Non possiamo sapere nulla di Julia Ituma e dei suoi pensieri di 18enne forte, audace, splendente, quindi è di noi che dobbiamo parlare. Di questo spaesamento che ci prende là dove immaginiamo possa esistere solo bellezza e troviamo dolore. Di questa incapacità di accettare che si possa morire cadendo da una finestra a 18 anni e spezzare così un filo che fino a un minuto prima ci appariva fortissimo. Un filo che doveva condurre a vittorie, sconfitte, balli, baci, carezze, film, canzoni, schiacciate, abbracci, vita, futuro, e che invece all’improvviso non conduce più a nulla.

Può succedere tutto a 18 anni. Può succedere tutto sempre, è vero, ma a 18 anni di più, perché è quando la vita batte più forte. Quando schiacci più forte, corri più forte, senti tutto – emozioni, paure, ansia, aspettative, speranza – più di quanto pensassi di poter sentire. La gioia e la rabbia, l’entusiasmo e il vuoto. È vita che preme fino a scoppiare e noi non siamo fatti per accettare che diventi il suo opposto. Se accade stiamo lì ipnotizzati a cercare tracce, chiederci perché, cosa avremmo dovuto vedere o capire prima, cosa non abbiamo fatto per. È così per ogni morte improvvisa, ma forse di più quando a morire è una ragazza che fino a pochissimo tempo fa era una bambina e quindi affidata a noi: alla nostra capacità di guardare e di capire, di sorvegliare e di proteggere.

È solo di noi che possiamo parlare e di noi sappiamo questo: che spesso, a un certo punto, i ragazzi che vorremmo proteggere tirano su un muro e noi non riusciamo più a guardarci dentro. Non pensiamo come loro, non reagiamo come loro, non sentiamo come loro e quel che ci resta sono solo la paura e la speranza che alla fine vada tutto bene perché questo promettono le loro braccia forti, le gambe sicure, il sorriso aperto. Si è parlato molto durante quest’anno della fragilità inaspettata delle giovani atlete. Si è parlato molto, dopo il Covid, di una generazione che ha sempre più bisogno di aiuto e adesso lo chiede, perfino. Come stanno facendo gli universitari scoperchiando il tabù dell’ansia e della paura dell’insuccesso che ha portato a troppi suicidi solo negli ultimi mesi. Come fanno i ragazzi che si presentano nelle neuropsichiatrie al collasso con tagli alle braccia, alle gambe, il corpo ferito dalla fame o dal desiderio di sentire dolore.

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L’opposizione indebolita aiuta (per ora) il governo

venerdì, Aprile 14th, 2023

MASSIMO FRANCO

L’implosione del sodalizio tra Calenda e Renzi contribuisce all’immagine di opposizioni in frantumi. Nella prospettiva immediata, la frammentazione rafforza Meloni

L’implosione del sodalizio tra Carlo Calenda e Matteo Renzi contribuisce all’immagine di opposizioni in frantumi. Sia quella larvatamente dialogante del loro Terzo Polo, sia quella estremista del nuovo Pd e del M5S stanno mostrando un’inadeguatezza che alla fine non fa bene a nessuno. Nella prospettiva immediata, la frammentazione favorisce e rafforza il governo di Giorgia Meloni. Ma l’assenza di una minoranza in grado di criticare e contrastare in modo credibile la coalizione di destra nel merito delle decisioni è destinata a pesare in maniera ambigua.

Promette di condizionare lo stesso governo: nel senso di dargli un’illusione di onnipotenza, sempre rischiosa. Lo espone alle proprie contraddizioni e soprattutto alla tentazione di sottovalutarle, forte dei numeri parlamentari e della debolezza avversaria. Così, di fronte alla realizzazione di un Piano per la ripresa che deve fare i conti con ostacoli e ritardi crescenti, la coalizione si trova a combattere con se stessa. E l’effetto, in particolare per i suoi riflessi internazionali, non è dei migliori.

La mediazione sulle nomine nelle aziende pubbliche ha placato lo scontro tra la premier e gli alleati Matteo salvini, leader della Lega, e i berlusconiani. I distinguo sono tuttavia destinati a riemergere. Sia su riforme istituzionali come l’autonomia regionale, sia sul presidenzialismo, esiste un patto di scambio più che un’intesa convinta. Giorgia Meloni accetta di appoggiare il progetto leghista di un’autonomia differenziata, voluta dalle regioni del Nord. Ma nutre forti dubbi, anche per il timore di perdere voti al Centro e al Sud: lo stesso di Forza Italia.

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La premier cede alla spartizione

giovedì, Aprile 13th, 2023

Marcello Sorgi

Chiusa con un compromesso che alla fine ha ridimensionato le ambizioni di cambiamento – almeno nel metodo – della premier Meloni, la partita delle nomine nelle più importanti imprese statali si conclude, politicamente, con un rafforzamento della maggioranza, ma al prezzo di una classica lottizzazione spartitoria, per cui appunto la presidente del consiglio ha dovuto cedere su Enel – in cui sono approdate due vecchie conoscenze come Cattaneo e Scaroni, manager pubblici già sperimentati in altre stagioni del centrodestra – per ottenere il via libera alla sua linea delle conferme di candidati già scelti da altri governi. In particolare De Scalzi, nominato nove anni fa da Renzi e confermato da Draghi come amministratore delegato di Eni, l’ente petrolifero e la maggiore impresa italiana. E Cingolani, il ministro della Transizione ecologica di Draghi, conservato da Meloni come consulente su questa delicata materia per poi spedirlo alla guida di Leonardo, l’ex-Finmeccanica proiettata su mercati internazionali sensibili come quelli degli armamenti.

Per una che si era presentata al tavolo delle trattative calando il suo poker d’assi e avvertendo che sugli ad non avrebbe ammesso alcun cedimento, si tratta evidentemente di un passo indietro.

Meloni vince sull’Eni e su Leonardo, abbozza sull’Enel e oggi sapremo come finirà la partita di Terna, per cui aveva avanzato la candidatura di una donna, Di Foggia, già al vertice di Nokia, come amministratrice delegata al posto dell’attuale ad, Donnarumma, che pensava di trasferire all’Enel. Dove invece il posto è stato rivendicato e ottenuto da Salvini per Cattaneo, manager di provata esperienza nel pubblico (Rai) e nel privato (Telecom, Italo treni), cresciuto all’ombra di Fini, amico del presidente del Senato La Russa e poi curiosamente riapparso alla festa dei cinquant’anni del Capitano leghista.

Quanto ai presidenti, tolta la figura – attribuita a Forza Italia oltre che alla rinomata testardaggine di Gianni Letta, negoziatore del Cavaliere al tavolo delle nomine – di Scaroni, già ad di Eni ai tempi del governo Berlusconi 2001-2006, quando siglò un impensabile, oggi, per gli effetti della guerra in Ucraina, largo accordo di fornitura di gas con Putin, di cui ha continuato a rivendicare l’opportunità, le altre sono scelte più scolorite. Il nuovo presidente dell’Eni, Zafarana, è l’ex-comandante generale della Guardia di Finanza. Il nuovo presidente di Leonardo, Pontecorvo, è l’ex-ambasciatore in Afghanistan noto per la brillante operazione di evacuazione di migliaia di civili al momento del ritiro degli americani, due estati fa.

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Governo, il principio di realtà

mercoledì, Aprile 12th, 2023

MASSIMO FRANCO

Attribuire le responsabilità di quanto accade solo al governo in carica sa di alibi delle minoranze almeno quanto sa di scaricabarile della destra la tentazione di addebitarle all’esecutivo di Draghi. Sarebbe meglio prendere atto della situazione e discuterne in modo meno elettoralistico

Governo, il principio di realtà
Matteo Salvini e Giorgia Meloni (Ansa)

È difficile sottrarsi all’impressione di un governo sovrastato dalle emergenze. E circondato da una mole così imponente di variabili, da essere costretto a fotografarle e arginarle: senza potere ancora abbozzare una strategia in grado di prevenirle e sconfiggerle. Vale per l’immigrazione, che si presenta come un problema strutturale, fronteggiato ieri con la proclamazione di uno «stato di emergenza» di sei mesi. Anche lessicalmente, infatti, la risposta riflette un fenomeno difficilmente governabile; e aggravato dalla persistente indifferenza di gran parte dei Paesi europei.

Può darsi che alla fine il provvedimento serva davvero a rendere più efficaci e rapide le risposte. Ma sia l’esiguità dei fondi destinati allo scopo, sia i timori di un aggravamento del problema, già emerso nelle ultime settimane, consigliano cautela. Sottolineare troppo l’efficacia di misure che alla fine debbono fare i conti con una realtà difficile rischia sempre di rivelarsi a doppio taglio; e di dare fiato a opposizioni che oscillano tra istinti autodistruttivi e estremismo antigovernativo. Si tratta di dinamiche sempre più evidenti anche quando si parla di Piano per la ripresa.

Il fatto che la logica emergenziale si proietti quasi per inerzia perfino su un progetto strategico per l’Italia, finisce per oscurare limiti oggettivi e margini di manovra risicati.

Per quante critiche si possano rivolgere al governo di destra guidato da Giorgia Meloni, sottovoce il giudizio condiviso è che qualunque esecutivo si sarebbe trovato a affrontare problemi simili: di ritardi, di infrastrutture inadeguate, di difficoltà a spendere i finanziamenti europei.

L’opacità che si riscontra in alcuni dei progetti in incubazione è in primo luogo il frutto di una zavorra burocratica e culturale; e di un cambiamento dello sfondo in cui l’esecutivo è costretto a operare. Pandemia ma soprattutto aggressione russa all’Ucraina sono oggettivamente elementi di trasformazione dai quali nessuna nazione europea può prescindere. Probabilmente, quando a Palazzo Chigi c’era Mario Draghi, la durezza della realtà veniva percepita in modo meno drammatico. Ma si intravedeva già allora.

È comprensibile che da sinistra si accusi Palazzo Chigi di mettere in discussione un’occasione storica per riformare il Paese. L’ammissione delle strozzature, fatta nelle scorse settimane da esponenti del governo, conferma un percorso tutt’altro che facile. Rivela la volontà di non nascondere una serie di passaggi che metteranno a dura prova la credibilità dell’Italia; e di evitare che una battuta d’arresto sui finanziamenti possa essere sfruttata da chi in Europa li ha sempre considerati troppo generosi, e magari aspira a ricalibrarli a proprio vantaggio.

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Lo scacco matto della Premier

mercoledì, Aprile 12th, 2023

Stefano Lepri

Un leader che vuole durare deve tentare di guardare più in là dei partiti che lo sostengono; deve almeno far mostra di sottrarsi a patteggiamenti di potere quando si tratta di aziende che hanno un peso importante nell’economia del Paese. Giorgia Meloni ha intrapreso questa sfida con ambizione ma deve accettare compromessi.

Riuscirà a imporre alla guida di Leonardo, ex Finmeccanica, azienda di importanza anche militare, un tecnico senza etichette di partito come Roberto Cingolani (che però ha scarsa esperienza come manager). Rischia invece di subire il recupero come presidente Enel di Paolo Scaroni, che all’Eni fino al 2014 promosse la dipendenza dalle forniture di gas russo.

Comunque vada, dopo un accordo frutto di vari do ut des, le nuove dirigenze societarie che usciranno da questa prova saranno meno forti. Non va bene, proprio in una fase in cui nuovi importanti investimenti, quelli legati al Pnrr, richiederanno anzi maggiore incisività ed efficienza, specie da parte di chi si occupa di energia.

Si è discusso di poltrone da occupare senza mai discutere nel merito se i capi azienda da sostituire o da confermare abbiano operato bene o male durante i loro mandati; se alcune scelte fossero buone o cattive, o se semplicemente, dopo anni che la stessa persona è alla guida, si ritiene preferibile un ricambio.

Le questioni di sostanza restano eluse. L’Eni ha saputo realizzare in poco più di un anno prima sotto il governo Draghi poi sotto l’attuale, una conversione rapida delle forniture per svincolarsi da Mosca. Però non si è mai chiarito se le alternative ora sfruttate, come l’Algeria, fossero state disponibili già da prima e perché fossero state scartate.

Se scelte anche valide, su queste aziende che molto contribuiscono all’immagine dell’Italia all’estero, vengono controbilanciate da patteggiamenti su altre, si rischia di allarmare gli investitori privati dai quali proviene una fetta consistente del capitale azionario. Sarà lecito domandarsi se d’ora in poi le mosse aziendali saranno sottoposte a maggiore influenza politica.

Negli anni ’80, furono queste pratiche perverse – compresa la «lottizzazione» degli incarichi di dirigente fino ai livelli intermedi – a completare il dissesto di aziende già deformate dal loro asservimento a scopi di consenso politico. Alcune furono chiuse, altre vendute; negli anni ’90 nuovi manager capaci dovettero faticare molto per ritrovare l’efficienza, ma per fortuna ci riuscirono.

Quei tempi non possono ritornare. Mercati aperti e concorrenziali e azionisti di minoranza attenti non lo permettono. Ai manager poco disposti a sottomettersi è più facile sbattere la porta. Però in un Paese dall’amministrazione inefficiente e dalla politica sempre assai permeata dalla corruzione le grandi partecipate di Stato svolgono un ruolo cruciale.

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I conti con il nostro passato: la saggezza della Costituzione

mercoledì, Aprile 12th, 2023

di Ernesto Galli della Loggia

Nel tumultuoso dopoguerra, i padri fondatori probabilmente ritennero che ci avrebbe pensato la democrazia a mettere le cose a posto, come infatti è sostanzialmente avvenuto

C’era da aspettarselo: nell’Italia della vittoria della destra è cominciata subito a spirare un’aria di «passato che non passa». Cioè una continua tendenza a riaprire i conti e a farlo sempre nel modo più aggressivo e perentorio: come del resto piace ai media che hanno sempre il problema dell’«audience». All’ordine del giorno non è il pericolo del fascismo per fortuna, questo no, ma è ciò che pensa del fascismo chi sta al governo, sono le sue idee su quel passato lontanissimo. Ogni sera nei talk televisivi si richiedono dunque spiegazioni, chiarimenti, precisazioni. E naturalmente abiure. Per prendere una boccata d’aria viene allora in mente di sfogliare qualche testo, ad esempio la nostra Costituzione.

Tra le cui prescrizioni una di certo tra le meno conosciute in assoluto è quella contenuta nel secondo capoverso della XII disposizione transitoria e finale. La quale, dopo aver vietato «la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista» recita: «In deroga all’articolo 48 sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e all’eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista».

In altre parole, dopo il primo gennaio 1953, se lo avessero voluto i «capi responsabili del regime fascista» (facciamo qualche nome di quelli allora viventi: Federzoni, Grandi, Bottai, Scorza ecc., quasi tutti squadristi, responsabili di cosucce come le leggi razziali e la seconda Guerra mondiale) avrebbero potuto tranquillamente essere eletti nel Parlamento della Repubblica.

Come si spiega questa decisione all’apparenza così contrastante con l’immagine di una Costituzione coerentemente antifascista? Forse con il fatto che i padri fondatori immaginavano che a quella data i suddetti «capi responsabili» del fascismo sarebbero stati pronti a rinnegare le loro convinzioni e magari a dirsi antifascisti? Difficile crederlo. Assai più probabile, mi azzardo a ipotizzare, che nella loro saggezza fossero convinti che così come a molti altri italiani un tempo genuinamente fascisti e nel loro intimo con ogni probabilità restati tali, anche a quei capi fascisti non aveva senso comminare l’esclusione dalla vita pubblica, né tanto meno chiedere loro una ritrattazione o una dissociazione postuma. Con il tempo — essi piuttosto si auguravano — ci avrebbe pensato la democrazia a mettere le cose a posto: come infatti è sostanzialmente avvenuto. Con il tempo che serve a riconciliare con il passato smorzando il fuoco dei ricordi. Non a caso amnesia e amnistia — quella amnistia saggiamente decretata da Togliatti nel 1946 per chiudere la guerra civile — hanno la medesima radice. Per ricominciare bisogna in qualche modo dimenticare.

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Il Pnrr vale il doppio del Piano Marshall: perché i soldi dell’Europa non devono andare persi

martedì, Aprile 11th, 2023

di Ferruccio de Bortoli

Anche il pluricelebrato piano Marshall fu accompagnato da dubbi e polemiche sui tempi di attuazione, sulla nostra capacità di spendere e investire. Lucius Dayton, capo della missione speciale Eca (Economic cooperation administration) arrivò a minacciare il governo di Alcide De Gasperi di non versare la terza rata degli aiuti. «Si può fare di più» recitava un allarmato titolo del Corriere d’Informazione, del 5-6 ottobre del 1950, che dava conto delle parole contenute nella lettera di messa in mora del governo scritta dall’inviato dell’amministrazione americana. Era in gioco un assegno di 218 milioni di dollari, nel terzo anno del programma Erp (European recovery program). Giorgio La Malfa, in un articolo sul Sole 24 Ore, ricorda un episodio significativo. Donato Menichella, governatore della Banca d’Italia, incarica il presidente dell’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale, Francesco Giordani, di accedere ai finanziamenti della Banca mondiale — di cui era membro del board — per lo sviluppo del Mezzogiorno. Giordani si sente rispondere: «Ma se non siete riusciti a spendere tutti i soldi del piano Marshall!».

La Cassa del Mezzogiorno

Nasce così, nel 1950, grazie all’intuizione di Pasquale Saraceno — e proprio per superare le rigidità americane — la Cassa del Mezzogiorno. Uno strumento più adatto per assicurare, come in realtà avverrà, una stagione di investimenti produttivi. E ridurre le disuguaglianze fra Nord e Sud. Il nostro potente alleato, vincitore della Seconda Guerra Mondiale, spingeva affinché gli aiuti si traducessero — al di là degli interessi di mercato delle aziende americane e degli investimenti nella Difesa — in lavoro e reddito, dunque minori tensioni sociali. Un argine all’ascesa comunista. Era quella un’Italia che usciva dalla guerra prostrata da morti e distruzioni, visibili ogni giorno agli occhi di chi andava a lavorare, ferite aperte in tutte le memorie familiari. Le previsioni

Riscatto nazionale

Una Repubblica appena nata, una Costituzione appena scritta, un Paese assetato di libertà con la voglia di conquistare il futuro. Se soltanto una parte, anche piccola, di quel sentimento di riscatto nazionale fosse presente oggi, i dubbi sulla nostra capacità di portare a termine, nei tempi previsti, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), sarebbero fortemente limitati. Il piano Marshall fu la premessa del miracolo economico italiano, grazie al quale il nostro Paese si affermerà tra le sette più grandi economie del mondo (addirittura quinta alla fine degli anni Ottanta). Il Pnrr vale il doppio del piano Marshall portato ai valori attuali. Il doppio! Possibile che non riesca — inutile illudersi in un secondo miracolo economico — a riportarci su un cammino di crescita duratura e stabile? Ma quella era un’Italia più giovane, che faceva più figli, che si accontentava di ciò che aveva, disposta al sacrificio. C’era una grande forza lavoro. Anche sottoutilizzata. Un’esuberanza imprenditoriale. Anche selvaggia. Si continuava a emigrare (solo nel 1975 il saldo fra immigrazione ed emigrazione cambierà di segno). La produzione industriale nel 1948 era tornata già ai livelli pre guerra. E così il reddito pro capite nel 1950. Noi, nel 2023, non siamo ancora riusciti a tornare al 2008, al tempo della crisi finanziaria, nonostante la nostra crescita sia stata dell’11 per cento in due anni. Ci accontentiamo — considerandolo quasi miracoloso — di aver recuperato il livello di Prodotto interno lordo (Pil) del 2019.

Le difficoltà

Si fa un gran parlare in questi giorni delle difficoltà del governo Meloni nel rispetto dei tempi del Pnrr con il rischio di perdere la prossima rata. La terza, come ai tempi del piano Marshall. Ma di 19 miliardi per il 2022. La prossima rata (16 miliardi) dovrebbe essere pagata a fine giugno. A patto che si raggiungano 27 obiettivi (96 nell’intero anno). La realtà (amara) è che nessuno sa esattamente a che punto siamo.E anche oggi, come nel 1950, i principali problemi riguardano progetti nelle aree del Sud per le quali è destinato il 40% dei sussidi e dei prestiti avuti dall’Unione europea. All’epoca del piano Marshall si risolse con una struttura ad hoc, la Cassa del Mezzogiorno. Ci si chiede, di conseguenza, se nel previsto (dal Pnrr) esercizio dei poteri sostitutivi degli enti locali e dei comuni, non sia necessaria una figura o una struttura commissariale.

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Cosa lascerà alla politica un Cavaliere senza eredi

martedì, Aprile 11th, 2023

MASSIMO GIANNINI

Non vi sforzate di immaginare il dopo Berlusconi: come D’Annunzio, ma più triviale e teatrale del Vate, il Cavaliere ha vissuto e vive una “vita inimitabile”. E dunque non replicabile. Si rassegnino figli e famigli, senatori e coordinatori, deputate e fidanzate, badanti e cantanti: al di là dei patrimoni miliardari e dei conti fiduciari, delle ville ottocentesche e delle residenze picaresche, non c’è un’altra eredità da spartire. Solo la “roba”. Che è tanta, tantissima. Ma non c’entra (più) niente con la politica. Come tutti, e senza falsa retorica, auguriamo anche noi al “Presidente” di rialzarsi anche stavolta, dopo l’ennesima caduta cui lo condannano il Fato, la malattia, l’anagrafe. Ma come tutti, con altrettanta onestà, dobbiamo sapere che il suo finale di partita – speriamo comunque più lungo e sereno possibile – coincide inevitabilmente con la fine del suo partito.

Berlusconi è esistito ed esisterà anche senza Forza Italia: prima della politica c’erano già sia il costruttore seriale che ha sfornato Milano Due sia il tycoon televisivo che ha stravolto i nostri usi culturali e i nostri consumi commerciali. Ma Forza Italia non sarebbe esistita e non può esistere senza Berlusconi. Questo destino inscindibile è l’essenza stessa del “partito personale” che lui ha fondato e plasmato a sua immagine e somiglianza (e nel quale si sono beatamente rispecchiati corrivi cantori e cattivi imitatori, in Italia e nel mondo). Ed è l’effetto naturale e non collaterale del primo dei tre lasciti che (insieme al populismo e al bipolarismo) il Cavaliere consegna alla Storia italiana: il leaderismo. Cioè la sacralità del comando e la natura octroyée del suo esercizio, dove ogni atto non è negoziato ma concesso dal sovrano al suddito.

L’unto del Signore, auto-investito di un mandato messianico e sempre titanico, “scende in campo” con una missione epocale: salvare l’Italia dai comunisti (benché rimanga in eterno il sospetto che l’abbia fatto per salvare se stesso dai processi). Per questo inventa dal nulla il “partito di plastica”, trasformando la rete della raccolta Publitalia nella tela del consenso azzurro, e in pochi anni lo trasforma nel “partito di Silvio”. Col suo carisma e col suo strapotere, tutto decide e tutto amministra. Con la sua spregiudicata destrezza e la sua smisurata ricchezza, applica alla politica la regola che Enrico Cuccia adattava alla finanza: “Ogni uomo ha un prezzo” (lui di suo ci aggiunge anche “ogni donna”, ma questo è un altro discorso). Nel Palazzo, come al Mercato, tutto si può comprare e vendere: leggi e sentenze, elettori ed eletti, concessioni e condoni.

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