Archive for the ‘Editoriali – Opinioni’ Category

Rinunciare al Mes, scelta perdente

martedì, Marzo 28th, 2023

Veronica De Romanis

L’Europa, dal 2008, si è dotata di diversi strumenti per far fronte a nuove eventuali crisi finanziare. I principali sono l’Unione bancaria e il Meccanismo europeo di stabilita (Mes). Ad oggi, però, nessuno dei due è operativo al cento per cento. E, ciò danneggia, in particolare, il nostro Paese. Per un motivo molto semplice: l’elevato debito restringe (e di molto) i margini d’azione nel caso di un intervento pubblico. Spingere per completare l’Unione bancaria e ratificare la riforma del Mes dovrebbe, pertanto, essere una priorità dell’attuale governo. Eppure, l’esecutivo prende tempo. Al Consiglio europeo della scorsa settimana, Meloni ha spiegato che il Mes è superato dall’Unione bancaria che sarebbe, a suo avviso, “uno strumento ben più efficace”. La realtà, tuttavia, è un po’ diversa. I due strumenti non si sovrappongono. Bensì agiscono congiuntamente in presenza di una crisi sistemica. Vediamo il perché.

L’Unione bancaria è stata creata nel 2014, subito dopo il salvataggio della Spagna. Il crollo del settore bancario iberico dimostra l’inadeguatezza di un sistema basato su diciannove supervisioni nazionali diverse sia in termini di regole sia in termini di efficacia. Nello specifico, quello della Banca centrale spagnola è estremamente debole. Come oramai da prassi, l’Europa compie passi in avanti verso una maggiore integrazione solo dopo (e non prima, ahinoi) una crisi. E, così, solo dopo il salvataggio di Madrid, i leader trovano un compromesso in materia di vigilanza. Viene, così, creata l’Unione bancaria europea volta a garantire l’affidabilità, la trasparenza e la sicurezza del settore creditizio. Il nuovo assetto istituzionale è composto da tre pilastri, che si applicano alle economie della zona euro (a quelle non appartenenti ma solo su base volontaria). Il primo pilastro prevede un Meccanismo di vigilanza unico in capo alla Banca centrale europea (Bce), seppur in stretta cooperazione con quelle nazionali. Con simile schema, le norme e i conseguenti controlli periodici diventano uguali per tutti. Ciò consente di evitare che alcuni istituti possano essere soggetti a regolamentazioni più blande di altri con il rischio di creare instabilità all’interno dell’Unione monetaria. Il secondo pilastro è basato su un Meccanismo di risoluzione unico composto da un Comitato e da un Fondo di risoluzione finanziato dai contributi erogati dal settore bancario a livello nazionale. In caso di crisi di una determinata banca, il Comitato decide il tipo di intervento. Le soluzioni dipendono dalla gravità della situazione. In alcune circostanze può essere sufficiente trovare nuovo capitale. In altre è necessario ricorrere al cosiddetto bail-in, ossia a un salvataggio interno. Si tratta di un cambio radicale rispetto al passato quando le banche venivano salvate con i soldi dei contribuenti europei (bail-out). Con la nuova normativa, infatti, le perdite vengono assorbite in base alla logica della responsabilità: paga di più chi ha maggiormente contribuito al dissesto. Si comincia con gli azionisti che hanno scelto i manager incompetenti; poi i creditori subordinati che hanno comprato prodotti ad alto rischio ma anche ad alto rendimento; infine, i depositanti sopra centomila euro che hanno commesso l’errore di scegliere la banca sbagliata. In questo processo, il Fondo di risoluzione unico entra in gioco solo quando è stato applicato un bail-in minimo, ossia pari all’otto per cento delle passività totali. In altre parole, il Fondo può assorbire le perdite al posto dei creditori solo entro certi limiti. La capacità totale è di circa 55 miliardi di euro. Il terzo pilastro dell’Unione bancaria prevede la creazione di un’assicurazione unica per proteggere i depositanti sotto centomila euro. Ad oggi, essi sono tutelati dai sistemi nazionali che, però, variano, in termini di entità, da Paese a Paese. L’obiettivo è quello di disporre di una copertura più solida e più uniforme. Ciò contribuirebbe ad assicurare parità di condizioni per le banche dell’eurozona. E, quindi, maggiore stabilità. Nonostante ciò, questo sistema comune di protezione dei depositi non è ancora stato introdotto.

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Destra e sinistra, scosse e correnti

lunedì, Marzo 27th, 2023

Alessandro De Angelis

Da un lato, dunque, Giorgia Meloni si è presa Forza Italia, nell’ambito di un’intesa con Marina, i cui prodromi erano ravvisabili già all’atto della formazione del governo, quando la primogenita stoppò le bizze del padre in nome del realismo aziendale. Insomma, un classico esempio di “successione in vita”, fondato sullo scambio tra dominio politico assicurato alla premier e tutela dell’impero, non proprio competitivo ma molto bisognoso di un legislatore che blindi lo status quo: duopolio, canone, concorrenza delle nuove piattaforme, eccetera.

Dall’altro Elly Schlein con grande fatica riuscirà a piazzare i suoi capogruppo solo grazie a un’intesa con Pina, nel senso di Picierno. E, parafrasando Peppino: “Ho detto tutto”. Destinata a diventare vicesegretaria di Bonaccini se avesse vinto, Picierno, con altri, ha fondato una corrente formata da un pezzo della minoranza che diventa maggioranza non su una rottura politica su un tema politico – immigrazione, Ucraina, lavoro – ma in nome, semplicemente, dei posti. E così, con questa, siamo più o meno a quota dieci correnti: quella di Franceschini, che ottiene Chiara Braga come capogruppo alla Camera, i “lettiani” di Boccia (prossimo capogruppo al Senato), Orlando che fa partita a sé (con Schlein ma un po’ in disparte), Provenzano pure, poi Cuperlo coi suoi, De Micheli, Articolo 1, i popolari di Castagnetti e la minoranza di Bonaccini.

Solo apparentemente la dinamica racconta di un rafforzamento della neo-segretaria che, due settimane fa, aveva promesso di “estirpare i cacicchi”. Occhio alla modalità: non nomina i capigruppo, lanciafiamme in mano, sulla base di una spinta esterna, ma si adatta a un meccanismo, che si riproduce uguale a se stesso, di un partito – o meglio: una confederazione di cacicchi – a vocazione minoritaria dove l’unica cosa che conta è il rapporto col potere: i ministeri, quando sta al governo, ciò che rimane quando è all’opposizione.

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La stanga di De Gasperi e la forza di Mattarella

lunedì, Marzo 27th, 2023

MASSIMO GIANNINI

Le democrazie resistono. Ma se la passano male. L’America non ha ancora superato il trauma dell’assalto a Capitol Hill: resta ipertesa per le mattane di Trump e rimane appesa alla ricandidatura di Biden. Israele è a un passo dalla guerra civile: da due mesi l’intero Paese, compresi i riservisti dell’esercito e i dipendenti del Mossad, si mobilita contro la riforma della giustizia del falco Netanyahu, che toglie poteri alla Corte Suprema. In Francia Macron impone la riforma previdenziale solo grazie ai “poteri speciali” (manco ci fosse un Papeete a Parigi). Il popolo in piazza risale sulle barricate, ancora annerite dai roghi che cinque anni fa i gilet gialli appiccavano ogni fine settimana sui Campi Elisi: oggi come allora, per stare alle parole di Annie Ernaux, non se ne può uscire «senza un po’ di violenza».

E pazienza se la legge Macron alza l’età pensionabile a 64 anni, nell’unico Paese europeo che ancora la fissa a 62. Ce n’è abbastanza per mettere a ferro e fuoco la non più Douce France, con buona pace per quei fessi degli italiani che nel 2011 accettarono senza un plissé la legge Fornero, che l’età pensionabile l’ha elevata a 67 anni. E ce n’è abbastanza perché Simone Kuper, sul New York Times, scriva «è tempo di porre fine alla Quinta Repubblica, con la sua presidenza onnipotente, la cosa più vicina a una dittatura eletta nel mondo sviluppato, e inaugurare una Sesta Repubblica meno autocratica». La Germania di Olaf Scholz sta pagando il prezzo più alto all’indecisione politica del Cancelliere e alla storica dipendenza dal gas russo: tremano i giganti del credito, e anche lì da domani scatta la rivolta sociale con il Gross Streik, il maxi sciopero che paralizzerà i trasporti in tutto il Paese, unendo in una storica alleanza le due principali sigle sindacali.

La Gran Bretagna di Rishi Sunak vive l’ora più buia, unico Paese in recessione già dal 2023, con un Pil che cala dello 0,6%, un’inflazione al 16. Sei inglesi su dieci sono pentiti della Brexit e voterebbero per un ritorno immediato nella Ue, con tanti saluti al premier che considera ancora “un’enorme opportunità” il divorzio tra Londra e Bruxelles.

Tre choc globali in quindici anni hanno fiaccato i governi, devastato le economie, avvelenato le società. In modo strisciante, si insinua anche in Occidente l’idea che dalla delegittimazione della politica e dalla disaffezione delle opinioni pubbliche si possa uscire solo con la secessione delle élite: cioè alterando la qualità delle democrazie, intaccando i pilastri del costituzionalismo e rafforzando l’esecutivo a scapito degli altri poteri. Per questo, in Italia, è prezioso il Presidente della Repubblica. Teniamocelo stretto, Sergio Mattarella. Nella sua ultima esternazione, all’assemblea fiorentina delle Camere di Commercio, rilancia l’appello di Alcide De Gasperi, che al congresso della Dc di Venezia, nel giugno del ’49, invitò tutti gli italiani a “scendere dal carro e a mettersi alla stanga”, per trainare l’Italia fuori dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale. Parla del “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, il Capo dello Stato, preoccupato dei ritardi conclamati della macchina politico-amministrativa, che possono farci perdere i 34 miliardi dei prossimi due “assegni” europei. Rischiamo di fallire l’obiettivo, perché come avverte Paolo Gentiloni, invece di essere ossessionata da questa missione la politica insegue le farfalle del Ponte sullo Stretto e della flat tax. Sarebbe un delitto. Il Pnrr è il nostro Piano Marshall, che proprio De Gasperi ottenne nel suo “Viaggio del pane”, nel gennaio del ’47, quando volò con il cappello in mano negli Stati Uniti.

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Questo governo discrimina i bambini

lunedì, Marzo 27th, 2023

Annalisa Cuzzocrea

Eugenia Roccella ha ragione: vengono prima i diritti del bambino. Se la ministra della Famiglia fosse in grado di seguire il significato di questa sua affermazione, tutto il resto semplicemente non ci sarebbe. Non ci sarebbe la mostrificazione della gestazione per altri, non si tirerebbe fuori – addirittura – la categoria del razzismo perché gli ovociti delle donne nere sarebbero meno costosi di quelli delle donne bianche. Non si chiederebbe di andare a controllare su internet, non si evocherebbero pericolose fiere dell’“utero in affitto” in giro per l’Italia.

Peccato che a questa destra del superiore interesse del minore non interessi nulla. Non interessano i 35 minori morti nel naufragio di Cutro, o i 26 bambini che restano chiusi in carcere grazie agli emendamenti di Lega e Fratelli d’Italia. Non importa nulla degli 800mila ragazzini privi di cittadinanza e dei conseguenti diritti. Men che meno dei figli delle coppie arcobaleno, che siano queste formate da due donne o da due uomini. L’unica cosa che interessa a questa destra di cui Eugenia Roccella – dopo essere transitata da molti lidi politici – è fiera portatrice, è la propaganda.

I sondaggi dicono che gli italiani sono contrari alla gestazione per altri. E allora, è quella che bisogna evocare. Le persone che sfilano chiedendo diritti per i loro figli non vogliono l’introduzione in Italia di una pratica che da noi è illegale, molti di loro con la gestazione per altri non hanno nemmeno avuto a che fare, pretendono solo che i loro bambini siano trattati dallo Stato come tutti gli altri. Riconosciuti, come tutti gli altri. Ma tant’è: la propaganda non guarda la realtà, la distorce a suo piacimento. Alla destra serve proclamare la sua idea di famiglia: una madre un padre e più bambini possibile. Per farlo, è disposta a disconoscere tutte le altre, in una deriva da Stato etico di cui su queste pagine ha scritto Luigi Manconi e che va rigettata per la sua violenza.

La gestazione per altri è un tema che divide il mondo e di cui occorrerebbe parlare con una profondità di cui con tutta evidenza nessun esponente di questo governo è capace. Ma non è un tema all’ordine del giorno. Di più, l’unica proposta di legge evocata – quella del segretario di Più Europa Riccardo Magi – la prevederebbe solo in caso di assoluta gratuità e volontarietà. Niente a che vedere col mercato cui allude Roccella, che pure c’è ma non riguarda noi.

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Ormai è il debito il vero sovrano

sabato, Marzo 25th, 2023

Massimo Cacciari

Può aiutarci una riflessione non costretta nei tempi della cronaca a decifrare il senso della “grande trasformazione” in corso nei rapporti economici, negli equilibri geopolitici, negli assetti istituzionali? In politica l’arte della tattica e della strategia è sempre fondamentale, ma temo sia alla fine inefficace se non comprende in che contesto epocale si colloca, così come storia e scienza politica diventano un pallido pensiero se non si coniugano a prassi, a volontà, a invenzione di nuovi mezzi per aggredire e risolvere i problemi. La crisi del 2007-2008 sembra ripetersi. Dunque, pure le crisi finanziarie sembrano aver perduto la periodicità di un tempo per risolversi anch’esse in perenne emergenza. Gli interventi degli Stati attraverso i diversi organismi cui hanno dato vita si sono rivelati di un’efficacia incomparabile rispetto al passato, riuscendo a isolare le zone rosse ed evitare che scoppi la pandemia. Sarà così anche ora probabilmente. Ma a che prezzo? Gli Stati pompano risorse immense all’interno del sistema economico-finanziario e più sono politicamente potenti più ne pompano, alla faccia delle retoriche liberiste su interventi, aiuti pubblici e sacralità delle “leggi di mercato”.

Ma questo può avvenire soltanto attraverso la crescita del debito. Ancora una volta, gli Stati più forti possono gonfiarlo senza temere, almeno a breve-medio periodo, contraccolpi catastrofici. A quelli più deboli queste pratiche risultano proibite. La disparità che si viene a creare è sistemica. Lo Stato debitore, più è debole più finisce col dipendere dal creditore. Il meccanismo del debito diventa il vero sovrano. Chi è in debito – debito significa de-habere, non avere – non ha alcun reale potere, alcuna autonomia rispetto alle decisioni dei mercati che ne posseggono i titoli. Esso deve accettare le regole imposte dal creditore, eseguire le politiche che a questi sembreranno utili. Laddove anche il debito privato è alle stelle cumulandosi con quello pubblico la situazione è analoga per il singolo cittadino. La sua condizione è quella di chi è in costante debito nei confronti di un sistema perfettamente anonimo, di cui non conosce gli attori e di cui ignora le finalità. Non può che aspettarne gli ordini e obbedire. E così sostanzialmente dovrà fare lo Stato debole.

Con la differenza che uno Stato disporrà sempre dei mezzi, se lo vuole, per cercare di scaricare sul privato il costo del proprio debito, soprattutto là dove quello privato sia, come in Italia, di gran lunga inferiore a quello pubblico e forse il più basso in Europa. L’inflazione serve anche a questo, tuttavia il ricorso da parte di un singolo Stato a tale classico mezzo per ridurre il costo del debito può risultare oggi bloccato da autorità e poteri sovranazionali. Non così quell’altro, più ancora efficace, che consiste nel fare a pezzi ogni residuo di Welfare, ridurre l’incidenza della spesa sociale, in termini reali, sul complesso degli investimenti pubblici. Il sistema che offre credito e garantisce il debito indirizza la politica di investimenti, stabilisce le priorità, controlla la realizzazione dei piani.

Ciò produce disuguaglianze sempre più intollerabili e moltiplica i motivi di protesta. Una società politica “indebitata” potrà sempre meno rispondere alle domande della società civile, che non rientrano negli interessi del creditore. La contraddizione si aggrava naturalmente quando ai motivi della crisi finanziaria se ne aggiungono altri derivanti dai conflitti geopolitici intrinseci alla globalizzazione. Si tratta, allora, di dirottare investimenti colossali per il rinnovo dei sistemi di sicurezza e di difesa. Il creditore benedice tali scelte, poiché il sistema economico-militare è un elemento cardine del processo produttivo e dell’aumento dei profitti. D’altra parte, è ben noto a chi studia le fondamentali regolarità della prassi politica che in momenti di tensione sociale la “struttura” di uno Stato regge tanto meglio quando più chiaramente individua un avversario o un nemico all’esterno. Il conflitto geopolitico può benissimo funzionare in questo schema: obbliga a investire nei settori più remunerativi del capitalismo attuale e, a un tempo, “struttura” all’interno il sistema socio-politico.

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Quelle paghe da fame e l’assurda ostilità per il salario minimo

venerdì, Marzo 24th, 2023

Marco Revelli

Il caso dei lavoratori e delle lavoratrici delle RSA piemontesi pagati 5 euro lordi all’ora è uno scandalo sociale d’indubbia gravità, per numerose ragioni. Intanto perché umilia le persone che prestano il proprio lavoro “di cura”, e quindi particolarmente impegnativo, carico di responsabilità e di rischi (lo si è visto durante il Covid), misurando la loro fatica sui gradi più bassi del riconoscimento sociale. In secondo luogo perché offende gli stessi assistiti in quelle strutture, come ha scritto giustamente Elsa Fornero su questo giornale: quegli anziani, molti dei quali non autosufficienti, che avrebbero tutti i diritti a essere curati da un personale ben retribuito e, per questo, consapevole del proprio valore e della propria responsabilità, e che invece vengono considerati oggetti di scarto da affidare a manovalanza considerata a sua volta (ingiustamente) di scarto. Infine perché una simile pratica, in genere permessa dall’esistenza di “sindacati pirata” poco rappresentativi ma molto disponibili, introduce una grave distorsione nel mercato del lavoro favorendo quelle imprese che praticano una simile forma di dumping salariale realizzando sproporzionati utili a danno di quelle che operano con correttezza e subiscono per questo una vera e propria concorrenza sleale.

Uno scandalo, si è detto. Ma non un caso-limite, come ha dimostrato il Dossier pubblicato da “La Stampa”. Dire che in Italia 6 milioni di lavoratori dipendenti, il 30% dell’intera forza-lavoro nazionale, non arriva a guadagnare 12.000 euro lordi al mese, poco più di 600 netti, significa affermare che una parte assai grande del “mondo del lavoro” sta, con dolore, a cavallo di quella soglia di povertà assoluta che segna il confine tra l’essere e il non essere: lo si è detto ma è utile ricordarlo che, come certificato dall’Istat, quella soglia è fissata in una forbice tra gli 852 euro per un singolo che viva in un’area metropolitana del nord e 576 dei piccoli comuni del sud. In entrambi i casi ognuno di quei sei milioni di lavoratori avrebbe grande difficoltà a nutrirsi adeguatamente, vestirsi, curarsi, vivere insomma una vita “dignitosa”, a meno che non abbia in famiglia almeno un paio di altri membri in condizione di lavoro; ma se avesse per sciagura un’altra persona a carico, un figlio, un disabile, un coniuge disoccupato, finirebbe in un abisso. Sono i working poor, quelli cioè che pur avendo un posto di lavoro, restano tuttavia in condizione di povertà assoluta. E che in molti casi hanno dovuto ricorrere per sopravvivere a quel Reddito di cittadinanza tanto vituperato da chi questi problemi non li vive, ma che da quando è in vigore ha comunque salvato dalla miseria oltre un milione di persone all’anno, funzionando in molti casi come strumento di supplenza rispetto a una dinamica salariale asfittica in modo anomalo, con una curva trentennale appiattita sul basso o addirittura negativa mentre in tutti gli altri paesi Ocse cresceva.

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Perché i margini di trattativa in Europa sono ridotti

venerdì, Marzo 24th, 2023

di Massimo Franco

L’inizio del disgelo tra Macron e Meloni è un buon segno. Ma va inserito in una cornice che limita i comportamenti e i margini di manovra di tutti

È difficile sottrarsi alla sensazione che quanto sta succedendo a Bruxelles sia condizionato dall’invasione russa dell’Ucraina. E questo rende ogni decisione interlocutoria, destinata a successive verifiche e aggiustamenti. L’inizio del disgelo, o forse solo la fine del gelo tra la premier italiana Giorgia Meloni e il presidente francese, Emmanuel Macron, che ieri si sono incontrati dopo mesi di veleni, è un buon segno. Ma va inserito in una cornice che limita i comportamenti e i margini di manovra di tutti.

L’insistenza con la quale sia Meloni, sia il capo della Lega, Matteo Salvini, negano qualsiasi contrasto sulla politica estera, ne è la conferma. Nessuno può uscire da un recinto prestabilito. E per il resto, si procede quasi a vista. È così sulla politica migratoria, sulla quale il nostro Paese riceve rassicurazioni ma non garanzie che l’atteggiamento delle altre nazioni cambierà. Vale per la transizione ecologica, che vede il tentativo dell’Italia di ritagliarsi spazi di autonomia rispetto alle regole europee, e per il Piano per la ripresa.

Ieri è stato discusso di nuovo dal ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto, col commissario alle questioni economiche di Bruxelles, Paolo Gentiloni. Si indovinano ritardi mentre deve arrivare il terzo finanziamento. E la neosegretaria del Pd, Elly Schlein, presente nella capitale belga per incontrare i vertici socialisti, esprime «preoccupazione». Ma nessuno può tirare la corda più di tanto. La Lega che ha disertato coi suoi ministri il discorso di Meloni in Parlamento sull’Ucraina, ora minimizza.

La stessa premier ridimensiona l’episodio. D’altronde, è oggettivo che la coalizione di destra alla fine abbia votato compatta, a differenza delle opposizioni che si sono divise. Non poteva essere diversamente, perché, distinguo a parte, l’esecutivo è convinto o costretto ad appoggiare le iniziative dell’Ue e della Nato contro l’aggressione militare russa. E per quanto Salvini e Silvio Berlusconi abbiano probabilmente il cuore che batte di solidarietà non solo verso Kiev ma anche verso Mosca, sanno di dover tenere a bada questi impulsi.

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La rivalità Usa-Cina allunga la guerra

giovedì, Marzo 23rd, 2023

Lucio Caracciolo

Il rumoroso rientro della Cina sulla scena internazionale, dopo tre tristi anni di letargo da Covid e di arroganti scomuniche inflitte al resto del mondo, potrebbe inavvertitamente prolungare e inasprire il conflitto in Ucraina. L’esibizione di Xi Jinping fra stucchi e ori del Cremlino, in relativa sintonia con Putin, ha infatti due facce fra loro incoerenti. Xi si ostenta onesto sensale nella guerra ucraina sulla base del suo “piano di pace”, apprezzato solo in parte da Putin, che in realtà è il manifesto della geopolitica globale cinese. Manifesto che comunque induce Zelensky a proporre al leader cinese un incontro virtuale, previsto nei prossimi giorni. Allo stesso tempo, Xi stringe il rapporto speciale con la Russia, ridotta a junior partner nel cosiddetto “partenariato strategico globale di coordinamento dei due Paesi per la nuova èra” – leggi: Cina e Russia alla testa del vagheggiato fronte anti-occidentale.

Nasce così una peculiare figura da ombre cinesi, quella del mediatore di parte. Nulla di straordinario nell’arte politica, incurante del principio di non-contraddizione. È però evidente che gli Stati Uniti mai consentiranno alla Cina di intestarsi la pace in Ucraina. Comunicazione subito girata da Biden a Zelensky. La guerra deve finire declassando la Cina, più ancora che la Russia. O non deve finire.

Il presidente ucraino ne ha preso nota, ma non per questo rinuncia a esplorare la pista cinese, considerando anche i notevoli interessi e investimenti sinici nel suo Paese. Certo il “piano di pace” di Xi non è in grado di avviare la sedazione del conflitto che per lui non sarebbe mai dovuto cominciare. Lo stesso vale per gli altri tentativi di stabilire un cessate-il-fuoco, cominciati subito dopo l’invasione russa. Colloqui informali e segreti a medio livello fra russi e ucraini sono finora inutilmente in corso su binari diversi e paralleli, per esempio a Ginevra con la facilitazione svizzera. Anche fra Mosca e Washington i canali restano aperti, non solo per evitare lo scontro militare diretto causa incidente.

In teoria, la tregua potrebbe essere facilitata dalla duplice pressione dell’America sull’Ucraina e della Cina sulla Russia. Gli americani da mesi segnalano non troppo riservatamente a Kiev che prima o poi si dovrà arrivare al congelamento del conflitto in stile coreano: impregiudicati i confini di Stato perché nessuno può cedere qualcosa all’altro, si traccerà una linea divisoria presidiata da contingenti internazionali e garantita dalle maggiori potenze. Tutto ciò dopo un’offensiva ucraina che consentisse di recuperare parte dei territori annessi da Putin, altrimenti Zelensky non potrebbe nemmeno accennare il negoziato. Resta da dimostrare che la Russia sia disposta a questa soluzione. Putin spera di poter spingersi ancora più avanti nella conquista del Donbass e prepara una nuova mobilitazione. Comunque il concetto di vittoria è mobile. Vale per entrambi i contendenti.

Ma la guerra in Ucraina non è questione a sé. È ricompresa al grado strategico nello scontro Stati Uniti-Cina per il primato mondiale. Washington e Pechino differiscono su quasi tutto, non nella consapevolezza della posta in gioco. E nella priorità del teatro indo-pacifico rispetto all’ucraino. Tanto che al Pentagono non vedrebbero poi male l’invio di armi cinesi alla Russia, perché sarebbero sottratte al quadrante di Taiwan e dintorni. Quelle forniture che invece gli americani offrono agli ucraini, a scapito del flusso di armi agli amici e alleati asiatici impegnati nel contenimento delle ambizioni oceaniche di Pechino. Ciò spiega le recenti pressioni dei militari americani sui colleghi di Kiev perché chiudano la partita entro l’estate. La priorità è la Cina, non la Russia.

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Mario Antonietto

giovedì, Marzo 23rd, 2023

Mattia Feltri

Amo alla follia la Francia, ma non riesco a nascondere l’entusiasmo alla vista di Parigi cosparsa di rifiuti. Noi, qui a Roma, ci riusciamo da anni senza nemmeno la scusa dello sciopero degli spazzini (ma intanto, zitto zitto, il nostro sindaco Gualtieri la sta ripulendo mica male e, a proposito di petulante autodiffamazione, per il terzo anno consecutivo La Sapienza è la miglior università al mondo per studi classici: allons romains!).

Ai cari amici francesi, che ricordano di aver tagliato la testa a Luigi XVI, e lo rifaranno con Emmanuel Macron, questo Mario Antonietto sfrontato al punto d’aver varato la riforma che manderà i sudditi in pensione a sessantaquattro anni anziché a sessantadue, vorrei sottolineare che noi, pizza e mandolino, ci andiamo a sessantasette. Voilà. Però qualcosa glielo invidio: proprio Macron. Il quale ha varato la riforma, secondo superpoteri costituzionali, nonostante la maggioranza dei parlamentari fosse contraria e nonostante il popolo con le picche fuori dall’Assemblée.

Noi, fichissimi con la nostra Sapienza e la nostra età pensionabile, vantiamo leader tremolanti davanti ai follower e volatili a seconda della viralità su Facebook, e ogni volta a svolazzare in favore di vento col brandello di Costituzione: la sovranità appartiene al popolo (senza eccetera, però).

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I migranti, noi e l’Europa: gli accordi che servono

giovedì, Marzo 23rd, 2023

di Ernesto Galli della Loggia

Per affrontare il problema dell’immigrazione abbiamo bisogno dell’aiuto dell’Unione, ma per ottenerlo occorre un’intesa tra i partiti in nome dell’interesse nazionale

Forse le cose andranno come Angelo Panebianco ha previsto l’altro giorno sul Corriere (21 marzo, «I migranti e l’Europa più unita»), e cioè che sul lungo periodo la popolazione degli Stati nazionali europei è destinata a divenire in misura massiccia multietnica facendo dunque segnare una profonda frattura rispetto al passato. Ma sul lungo periodo. Per il momento siamo chiamati a vedercela con il fenomeno migratorio che conosciamo, anche se di sicuro caratterizzato nell’immediato futuro da un numero assai alto e crescente di migranti (si parla già per quest’anno di una cifra superiore di molto ai centomila). Da anni l’Italia è alle prese con questo problema. Che è sbagliato però definire con il termine «migrazione», come continuiamo a fare. Finora infatti è stato un’altra cosa, anche per la nostra incapacità di dargli una forma diversa. Finora si è trattato di donne, uomini, bambini che sotto i nostri occhi si può dire — con il radar e la radio non possiamo forse quasi vederli? — mettono in gioco la loro vita, in pratica chiedendoci ogni volta di salvarli. Chi paragona tutto ciò ad esempio con le migrazioni dall’Italia verso le Americhe compie solo un esercizio retorico: quei viaggi di oltre un secolo fa, infatti, non consistevano in nulla e per nulla in qualcosa di simile.

Oggi, chi si getta all’avventura cercando di raggiungere l’Italia assomiglia piuttosto a quei poveri diavoli senza una casa o un lavoro che minacciano di buttarsi dall’ultimo piano di un palazzo se non si trova modo di dar loro ciò di cui hanno bisogno. Una forma estrema di richiesta di aiuto, ma è ovvio che in ogni caso il primo dovere è cercare comunque di impedirgli di morire, di salvarli.

Altrove forse non si ragiona così. Ma noi siamo italiani, siamo fatti diversamente e non ci dispiace (almeno alla maggior parte di noi…). Qui da noi, ad esempio, se qualcuno pensasse non dico di prendere di mira con proiettili di gomma gli immigrati in arrivo sulle coste di Lampedusa ma solo di cingere di filo spinato quelle coste, come invece tranquillamente fanno gli spagnoli a Ceuta e Melilla (e senza che a Madrid si riempiano le piazze), o magari di usare verso gli stessi migranti minacce analoghe a quelle usate dal premier inglese, chi solo pensasse qualcosa del genere qui da noi sarebbe giustamente messo al bando dai più.

Perciò, finché non riusciremo a stipulare accordi efficaci con i Paesi di provenienza o di partenza dei migranti verso l’Italia (campa cavallo!), il problema dell’immigrazione per noi non potrà certamente essere un problema di respingimento bensì di accoglienza. E finché non otterremo l’aiuto dell’Europa (altro campa cavallo!) sarà inevitabilmente un problema di accoglienza e di integrazione.

Per la molteplicità degli interventi che richiede si tratta dunque di un problema complessivamente immenso: logistico-organizzativo, culturale e finanziario, di politica interna ed estera. Per la sua portata più che di un problema si tratta di una vera emergenza nazionale. Che è venuta crescendo negli anni fino alla misura attuale senza che però in tutto questo tempo nessuna forza politica, nessuna, sia mai riuscita a proporre una qualunque soluzione adeguata. Senza che nessun esponente di partito — vuoi di destra, di centro o di sinistra — sia mai riuscito neppure a immaginare il complesso di misure — intendo misure concrete, corredate di cifre, di indicazioni verosimili non già di buone intenzioni e basta — capaci di dare una soluzione accettabile alla questione. Anche perché tutti — ripeto: tutti senza distinzione di parte — hanno ogni volta ritenuto più facile e più comodo sfruttare il problema dell’immigrazione, sfruttare il contenuto altamente emotivo che esso ha presso l’opinione pubblica, per cercare di ricavarne un piccolo utile immediato a base di «tu avevi detto…», «tu avevi fatto…» e così via recriminando a vicenda. Diciamo la verità: sulla questione dell’immigrazione il sistema politico italiano e i suoi attori hanno dato finora il peggio di sé, in un clima di generale incapacità/irresponsabilità nel quale ognuno ha puntato ogni giorno a guadagnare qualcosa mentre il Paese nel suo complesso annaspava sempre di più.

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