Archive for the ‘Editoriali – Opinioni’ Category

La diplomazia del buon senso

martedì, Giugno 20th, 2023

Stefano Stefanini

Mentre in Italia – forse – finiva un’era, il mondo tira avanti imperterrito. Ieri, a Pechino, il Segretario di Stato americano ha incontrato Xi Jinping. Snodo diplomatico chiave negli equilibri mondiali. Non ci aspettava un granché, né un granché c’è stato. Non era un negoziato, non era un vertice, non erano in gioco guerra e pace. La visita di Antony Blinken in Cina era semplicemente il banco di prova della capacità, o meno, delle due maggiori potenze mondiali di gestire competizione e rivalità fra di loro. Non è emerso nulla di conclusivo se non la reciproca volontà di provarci. La strada imboccata potrebbe condurre a un incontro fra Xi Jinping e Joe Biden entro la fine dell’anno. Quella di ieri è stata diplomazia per creare le condizioni per altra diplomazia. Non un risultato da poco vista la posta in gioco.

Cina e Stati Uniti sono apertamente in concorrenza per la supremazia internazionale – politica, economica, tecnologica, ideologica. Entrambi lo riconoscono. Questa gara può finire in due modi: con un “vinca il migliore” senza esclusione di colpi ma pacifico; in un conflitto, inevitabilmente mondiale. Il primo richiede che i due contendenti si diano le regole del gioco – e le osservino. E il primo passo consisteva nel mettere le carte in tavola. È quanto ha fatto Blinken a Pechino, non solo e non tanto nell’incontro con Xi durato una quarantina di minuti, ma in quelli con il suo omologo, il Ministro degli Esteri Qin Gang, e con il predecessore di Qi Gang, Wang Yi, oggi a capo della Commissione affari esteri del Partito comunista cinese (tre ore). Entrambe le parti non hanno lesinato rimostranze. Buon punto partenza per continuare il dialogo. Pechino e Washington si trovavano infatti agli antipodi su una lunga lista: Taiwan; guerra russo-ucraina; diritti umani; Tibet, Sinkiang, Hong Kong; competizione tecnologica; crescente rivalità militare nel Pacifico. Meglio dirselo.

La Cina risente del contenimento americano esercitato attraverso una rete di cooperazioni politico-militari dal Quad (Usa, India, Giappone, Australia) all’Aukus (Usa, Uk, Australia) e collaborazioni bilaterali, da ultimo con le Filippine. Teme le conseguenze sulla propria economia dei controlli all’esportazione americani – e in prospettiva europei – sull’alta tecnologia. Washington vuole tenere a bada l’espansionismo cinese e le pretese territoriali su arcipelaghi (talvolta scogli su cui costruire basi militari) del Mar cinese meridionale e orientale che, oltre a urtarsi contro il diritto internazionale marittimo e/o scontrarsi con altri Paesi, dal Giappone al Vietnam, darebbero a Pechino il controllo di acque attraverso cui passa più della metà del commercio mondiale. Sul piano economico e tecnologico non sono soltanto gli americani ma anche l’Unione europea e il G7 ad aver adottato la strategia di minimizzazione del rischio (“de-risking”) per allentare la dipendenza dalla Cina che, ad esempio, ha praticamente il monopolio di minerali rari come il litio, essenziali per la transizione energetica.

Queste divergenze fermentano tutte da tempo ma ormai lievitano, con una Cina sempre più assertiva, militarmente in crescita, tornata col XX Congresso al primato leninista della politica sull’economia, e Stati Uniti oscillanti fra unilateralismo protezionista dell’America first di Donald Trump alla politica delle alleanze di Joe Biden – entrambe percepite a Pechino come due versioni di un’identica matrice anticinese. Si sovrappone la sempre più marcata dimensione ideologica dello scontro fra autocrazie e democrazie. Assicurandosi il terzo mandato con una scoperta vena di culto della personalità, Xi Jinping ha abbandonato ogni apparenza di sistema guidato da regole collegiali e, chissà, di possibili convergenze. Non nasconde la convinzione che Stati Uniti, e intero Occidente, siano in definitivo declino e, di conseguenza, il futuro appartenga alla Cina, in rivincita sulle umiliazioni subite nell’era coloniale.

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Elon Musk, le democrazie e la dittatura dell’algoritmo

lunedì, Giugno 19th, 2023

MASSIMO GIANNINI

«Fate più figli, l’Italia sta scomparendo». Ci mancava Elon Musk a Palazzo Chigi, per spiegarci l’inverno demografico che, insieme all’Apocalisse climatica, ci cancellerà dalla faccia della Terra. Ce lo doveva dire lui, quintessenza delle contraddizioni contemporanee, simbolo vivente dei sogni più affascinanti e degli incubi più distopici della post-modernità. Seduto su un patrimonio personale di 187 miliardi di dollari, il Turbo-Capitalista più ricco e più visionario del mondo ha appena ricevuto l’autorizzazione della Food and Drug Administration a impiantare microchip nel cervello, ma a Giorgia Meloni ha detto che è preoccupato per l’Intelligenza Artificiale, che secondo un documento da lui stesso firmato insieme al capo di ChatGpt e ad altri 350 guru potrebbe «annientare il genere umano».

D’accordo, sulla natalità lui la sua parte la sta facendo: ha ben sette figli (compresa una bimba concepita con la maternità surrogata, che per la Sorella d’Italia sarebbe «reato universale»). Nel frattempo, ha spedito nell’atmosfera i suoi 130 mila satelliti Starlink e nel cosmo una comitiva di astronauti a bordo delle sue navicelle private SpaceX. Ha riempito le strade, sfornando le sue Tesla elettriche da 130 mila euro l’una. Ma ha svuotato Twitter, licenziando 36 dipendenti al giorno da quando la comprò per 44 miliardi di dollari nell’ottobre 2022. Cosa può fare Elon Musk per l’Italia non è ancora chiaro. Il governo è a caccia di investimenti stranieri, ma il funambolico tycoon ha appena scelto la Germania per insediare la sua prima Gigafactory europea per le batterie elettriche. Con la premier e col ministro degli Esteri ha parlato di tutti i business che gli stanno più a cuore.

L’aerospazio, la cybersecurity, l’automotive, dove siamo al terzo posto in Europa con 50 miliardi di ricavi, 2.467 aziende e 163 mila occupati. Ma soprattutto i Social Media, con tutte le sue implicazioni e derivazioni, dal Deep Fake all’impiego delle «macchine intelligenti».

Qui sì, il ruolo dei «Capitalisti della Sorveglianza» è veramente cruciale. Dopo aver tirato la volata a Trump e poi lanciato il suo endorsement per l’altro candidato repubblicano (il governatore della Florida Ron De Santis), Musk con la sua «compagnia dell’uccellino» sta giocando una partita ambigua. Meloni e Tajani gli hanno chiesto perché si sia ritirato dal Digital Service Act Europeo. La risposta non la sappiamo. Ma conosciamo le incognite che si nascondono in questa gigantesca zona grigia, dove si incrociano libertà dell’informazione, tecnologie digitali e Intelligenza Artificiale.

Siamo tutti contenti per la decisione del Parlamento europeo, che una settimana fa ha approvato a larghissima maggioranza un Regolamento sull’uso delle «macchine intelligenti». Come hanno scritto su La Stampa Luigi Manconi e Federica Resta, è il primo provvedimento al mondo che introduce una disciplina minima all’algoritmo, per tutelare diritti e libertà. C’è il divieto di riconoscimento facciale in tempo reale nei luoghi pubblici, che evita quelle odiose forme di biosorveglianza sperimentate in Cina durante il Covid. C’è il divieto dei metodi di «polizia predittiva» fondati sulla previsione dei comportamenti futuri di un soggetto in base alla serie statistica delle condotte passate, che ci ricordano le mostruose indagini sugli «psico-reati» descritte da Philip Dick in Minority Report. C’è il divieto delle tecniche di riconoscimento delle emozioni nelle indagini e del cosiddetto social scoring, cioè la classificazione dei cittadini sulla base delle caratteristiche soggettive, che rievoca le vecchie dottrine lombrosiane rivisitate in forma più sofisticata. Può bastare, tutto questo?

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Imprese e politica: Berlusconi e l’eredità difficile

lunedì, Giugno 19th, 2023

di Ernesto Galli della Loggia

Dietro una bonomia e un’affabilità molto milanesi Silvio Berlusconi nascondeva la realtà di un uomo dal temperamento e dalla volontà d’acciaio. Agito da mille interessi, dotato di mille vite e di mille capacità, tenacissimo nella cattiva sorte e nella sconfitta, pronto sempre a ricominciare senza mai darsi per vinto: un temperamento d’acciaio, appunto. Ma Forza Italia, la sua creatura politica, invece, è sempre rimasta un partito di plastica: collettore di grandi consensi elettorali, certo, ma sempre privo di una autentica capacità di vita autonoma, di veri organi interni, di qualunque articolazione territoriale della cui attività si avesse notizia. Insomma un’obbediente creatura nelle mani del suo padrone che così la volle sempre. Proprio questa duplicità — da una parte la qualità dell’uomo e l’eccezionalità del suo ruolo nell’economia e dall’altra la pochezza della sua creatura politica — aiuta a mettere a fuoco un significato centrale della presenza di Silvio Berlusconi nella storia d’Italia.

Berlusconi appartenne a quella schiera di grandi imprenditori dotati di un geniale spirito innovatore che, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, segnarono l’ingresso dell’Italia nel novero dei grandi paesi industriali moderni. La schiera degli Enrico Mattei, dei Giovanni Borghi, degli Enzo Ferrari, dei Serafino Ferruzzi, dei Michele Ferrero: il Cavaliere era di quella razza lì.

La sua intuizione e la sorte vollero però che il principale campo d’azione in cui a un certo punto decise di cimentarsi fosse la televisione. Vale a dire il settore, tra tutti, che per ovvii motivi è il più intrecciato con la vita pubblica e perciò è il più contiguo alla politica, ai più o meno legittimi interessi di questa: e dunque anche alle sue ostilità. Silvio Berlusconi si trovò così fatalmente costretto ad avere a che fare in misura massiccia con la politica, a doverla utilizzare e a doversene proteggere. Di conseguenza, una volta caduto nel 1992-93 il comodo velo d’interposizione offertogli per anni dal craxismo, a entrare direttamente in politica. A farsi lui stesso politico.

Da quel momento la sua vicenda diventa esemplare di molte cose ma di una in particolare: del modo di atteggiarsi rispetto alla politica tipico di chi viene dal mondo del fare, dell’imprenditoria. Berlusconi, infatti, è stato un rappresentante per antonomasia della cultura politica di quel mondo. E insieme quindi della cultura politica prevalente in una parte consistente dell’elettorato italiano: quello che ruota intorno all’universo vastissimo della microimprenditorialità, del commercio, della miriade di persone che aspirano a far parte dell’uno e dell’altra. Gente che in genere ha le idee molto chiare (e spesso anche giuste) su ciò che vuole dalla politica, su quanto sarebbe bene che la politica facesse, anche se quasi mai sul modo in cui quelle cose, poi, sarebbe possibile farle davvero.

In nessun caso però dei nemici dell’ordine costituito. Il New York Times dell’altro giorno ha intitolato il necrologio di Silvio Berlusconi: «Addio all’uomo che ci ha dato Trump». Nulla di più falso. Mai e poi mai Berlusconi avrebbe aizzato i suoi seguaci a dare l’assalto a Montecitorio (la massima prova eversiva che gli si può attribuire fu qualche anno fa un patetico coro di una cinquantina di parlamentari di Forza Italia davanti al Palazzo di Giustizia di Milano). Coloro che per anni hanno farneticato del Caimano pronto a incitare la plebaglia a mettere a ferro e fuoco l’Italia, oggi non possono che riconoscere il proprio abbaglio.

È questa una distinzione fondamentale se si vuole capire la vicenda di Berlusconi: un conto è l’antipolitica, un altro l’estraneità alla medesima. E fu questa la specialità di cui l’ex premier è stato un campione naturale (guadagnandosi così il successo che si è guadagnato tra la gente comune). Tutti gli ingredienti quotidiani della prassi politica democratica — dalle schermaglie parlamentari alle dichiarazioni infarcite di sottintesi — non gli dicevano nulla. Ma in realtà poco gli interessava, addirittura forse lo annoiava, anche decidere, anche governare quando si trattava di cose lontane dai suoi interessi (non intendo solo di quelli delle sue aziende). Non è un caso che i governi Berlusconi, pur disponendo a lungo di maggioranze massicce, sono stati per più versi una collezione di promesse e di occasioni mancate. A pensarci bene una cosa abbastanza singolare per un uomo che in pochi anni era stato capace di fare ciò che lui aveva fatto. Eppure egli si rivelò inspiegabilmente incapace di decidere e di cambiare incisivamente proprio dove più sarebbe apparso ovvio che decidesse e cambiasse: ad esempio nel riformare la macchina dell’amministrazione pubblica e delle sue regole, nel disboscare la giungla burocratica italiana, nel cancellare istituzioni ed enti inutili, nell’ imprimere una spinta realizzativa negli investimenti pubblici (caso tipico i lavori dei cantieri), nel diminuire le tasse. Insomma nel realizzare quella rivoluzione liberale tanto promessa e mai neppure iniziata.

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Così siamo il coccio tra i vasi di ferro

sabato, Giugno 17th, 2023

Stefano Lepri

Meglio che l’Italia abbandoni le idee velleitarie su cui si è trastullata per qualche mese. Sulle nuove regole di bilancio per i Paesi europei siamo a una stretta imprevista: da una parte la Germania, dall’altra la Francia. L’Italia non può che schierarsi con la Francia, con la quale in materia di finanza pubblica ha parecchio in comune.

Oltre non si può andare. Anche per tentare ricatti o cercare baratti servono alleati, tra i 27 dell’Unione e i 20 dell’euro. In teoria ha buone ragioni il ministro Giancarlo Giorgetti per sostenere che le spese per investimenti, almeno quelli importanti, andrebbero favorite. In pratica, è da quando esiste l’euro che ogni tanto si prova a trovare una regola chiara per farlo, e non ci si riesce.

Se si condivide una moneta occorrono salvaguardie perché gli eccessi di un Paese danneggiano anche gli altri. Però si è visto che una volta fissate le regole quasi tutte le maggioranze di governo sfruttano gli spazi concessi molto più per spese correnti, di più rapido effetto sugli elettori, che per spese volte al futuro. Da quando ci sono i vincoli – ossia il Patto di stabilità nelle sue tre successive versioni – quasi tutti i Paesi membri dell’euro hanno investito troppo poco. Ha investito poco l’Italia dandone la colpa alle regole e ha investito poco la Germania che talvolta ha persino strafatto nel rispettarle. Il problema non è facile da risolvere.

In Germania si era provato, con la Costituzione del 1949, ad adottare una formula semplice: lo Stato può far deficit solo per gli investimenti. Poi negli anni ci si era impantanati in discussioni senza fine su che cosa sia investimento. Dal 2009 si passò a una regola numerica, rigidissima nella lettera ma elusa con sotterfugi negli ultimi anni. Si ricorreva dunque a numeri precisi per litigare di meno. Ma più volte la realtà si è evoluta in modo diverso dai ragionamenti concordati. Il Patto del 1997 parve a un certo punto schematicamente rigido di fronte a una crescita economica infiacchitasi. L’allentamento concordato nel 2005 parve poi un errore di fronte al panico sui debiti del 2010-2011.

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L’effetto del lutto nazionale sull’opposizione (divisa)

sabato, Giugno 17th, 2023


di Antonio Polito

La decisione di Giorgia Meloni ha riaperto una ferita e l’anti-berlusconismo ha ripreso a scavare solchi profondi

Tutti ci siamo chiesti che effetti avrebbe avuto sul centrodestra la scomparsa di Berlusconi. La risposta che abbiamo davanti ai nostri occhi è che ne ha rafforzato, almeno per un po’, l’unità. Ma che conseguenze avrà invece sull’opposizione? Stando a quello che si vede in queste ore potrebbe ulteriormente dividerla, e dunque indebolirla, almeno per un po’.

C’è da considerare innanzitutto l’«effetto bolina». Se una barca a vela viaggia sbandata a destra per il forte vento, l’equipaggio si sposterà a sinistra per bilanciarla e mantenere l’equilibrio. Ma se all’improvviso il vento muore, la barca rischia di scuffiare e capovolgersi se chi ci sta sopra non ritorna rapidamente al centro, ristabilendo un equilibrio.

Qualcosa del genere può accadere anche in politica. Per trent’anni la sinistra ha potuto dire di no a ogni ipotesi di riforma della giustizia (e non solo) sulla base del sospetto, spesso fondato, che servisse gli interessi privati del Cavaliere. Depenalizzare il falso in bilancio o accorciare i tempi di prescrizione aveva infatti un effetto diretto sugli innumerevoli processi, più di trenta, intentati contro di lui. Ma adesso che lui non c’è più, l’abrogazione di un reato come l’«abuso di ufficio» non può essergli messa in conto.

Anzi, migliaia di amministratori locali, in gran parte del Pd, festeggiano la fine di una fattispecie penale generica e discrezionale, e per questo abbastanza minacciosa da paralizzarne l’azione. Così i due «terzi poli» di Renzi e Calenda hanno approvato, il Pd di Schlein ha contestato ma sapendo che i suoi sindaci sono d’accordo, e i Cinquestelle di Conte hanno direttamente gridato allo scandalo. Nei confronti del disegno di legge Nordio, l’opposizione ha così finito per parlare più lingue, oscillando nel giudizio tra l’attentato alla libertà e la montagna che ha partorito il topolino. È la prova che d’ora in poi l’anti-berlusconismo non basterà più a unificare il fronte, e bisognerà esprimersi nel merito, dividendo così le tre opposizioni.

L’altro fattore è l’«effetto lutto nazionale». Dichiarandolo per la giornata dei funerali, Giorgia Meloni ha compiuto un gesto politico: non era un atto istituzionalmente dovuto, non era mai accaduto prima, e di sicuro le sarebbe costato molte polemiche. Però l’ha deciso deliberatamente, perché intendeva connettersi così anche sentimentalmente alle origini del berlusconismo, al ‘94 e alla discesa in campo, anche se la sua storia è molto diversa (Angelo Panebianco ha spiegato ieri con lucidità su questo giornale la differenza tra l’individualismo vitalista e libertario di Berlusconi e il comunitarismo politico della destra di Meloni). In qualche modo se n’è appropriato, pagando in morte al Cavaliere il tributo che lui aveva sempre sognato: non solo e non tanto entrare nella storia, cosa che aveva già fatto, ma esserne accettato alle sue condizioni, sotto l’«occhio magico» delle tv, in diretta a reti unificate, contornato da cantanti, soubrette, calciatori e presentatori, messi sullo stesso piano dei politici. In fin dei conti il trionfo della sua antropologia, che poi è ciò che ha sedotto metà del Paese per vent’anni. La tragica scomparsa di Flavia Franzoni Prodi, moglie dell’unico leader che era riuscito a batterlo, ha quasi simbolicamente sottolineato la diversità culturale delle due Italie che si sono combattute nella Seconda repubblica: lei è morta camminando su un sentiero francescano.

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Pagati per fare i cretini

sabato, Giugno 17th, 2023

di Massimo Gramellini

Immaginate se sul Corriere apparisse ogni giorno una pagina che inneggia a sfide estreme e potenzialmente pericolose, sponsorizzata da aziende grandi e piccole, queste ultime incaricate di fornire agli sfidanti la materia prima per le loro mirabolanti imprese: si scatenerebbe un putiferio. Invece nel far west della Rete accade che un canale di YouTube, dove degli svalvolati viaggiano per 50 ore di fila su un bolide messo a disposizione da un autonoleggio debitamente reclamizzato, possa accumulare centinaia di migliaia di «follower» senza che nessuno intervenga. Poi ci scappa l’incidente, muore un bambino e improvvisamente si scopre che bisognava fare qualcosa. Parliamo di un mondo, Internet, in cui sempre più spesso si viene censurati per avere espresso un’opinione politicamente scorretta, mentre chiunque può impunemente fornire modelli artigianali di distruzione a legioni di emulatori.

Non credo che il web ci abbia peggiorati. Non ci ha neanche migliorati, però. Nelle caverne dell’età della pietra ci sarà stato più di un cretino che roteava la clava davanti a una tigre addormentata per fare colpo sui «follower» della sua tribù, ma prima o poi qualcuno lo avrà disarmato, altrimenti ci saremmo già estinti. Poiché il web è una clava più potente, richiederebbe di essere maneggiata da esseri più evoluti. Nell’attesa (piuttosto lunga, temo) che ciò accada e soprattutto di capire come togliere la clava ai cretini, mi accontenterei che le aziende, grandi e piccole, smettessero di finanziarli.

CORRIERE.IT

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L’Europa disumana

venerdì, Giugno 16th, 2023

Annalisa Cuzzocrea

L’abisso dell’Europa è nelle parole prive di pietas e prive di senso che sa pronunciare all’indomani di una tragedia come quella di Pylos. Ci sono, secondo tutti i testimoni, 600 persone che mancano all’appello: erano partite dall’Egitto, transitate dalla Libia, arrivate nel mar Egeo. La barca su cui erano stipate non è stata soccorsa in tempo, anche se – è un copione già visto – un aereo di Frontex l’aveva avvistata, la Guardia Costiera di Atene era stata allertata.

C’erano, anche questo lo dicono tutti i testimoni, bambini e donne chiusi – chiusi – nella stiva. Cento bambini, quaranta bambini, di nulla si ha certezza tranne che in tantissimi erano lì e adesso non ci sono, tra i superstiti. Non ci sono né donne né bambini, tra i sopravvissuti di un barcone che si è inabissato e che nessuno pensa neanche più a cercare. A Kalamata, nel Peloponneso che è meta di viaggi da sogno, ci sono ombre che si aggirano con fotografie plastificate in mano e chiedono: “È mio fratello, qualcuno lo ha visto”. Sono palestinesi, siriani, egiziani, pachistani. Fuggivano per salvarsi e l’unica cosa che la fortezza Europa sa dire è: “Non dovete partire”. Senza sforzarsi neanche un istante di immaginare vie legali che possano mettere fine a tutto questo. E quindi è qui, l’abisso: mentre i militari greci controllano a vista il campo in cui sono stati portati i salvati, mentre il conto dei cadaveri continua – 78, per ora – Giorgia Meloni incontra il premier maltese Robert Abela e dice con linguaggio burocratico: «Abbiamo convenuto che senza una adeguata difesa dei confini esterni dell’Ue diventa molto più difficile parlare di movimenti secondari». Bisogna pensare ai “movimenti primari”, su questo Italia e Malta sono d’accordo, e così sappiamo che insieme hanno lavorato «per cambiare il punto di vista della commissione Ue».

Si parla di flussi migratori, ma la tragedia di Pylos non merita neanche una dichiarazione a latere. È una delle peggiori di sempre, ricorda quella del 3 ottobre 2013, quando davanti all’Isola dei Conigli ci furono 368 morti. O quella del 2015, quando a inabissarsi nel canale di Sicilia, a sud di Lampedusa, fu un barcone con a bordo tra le 700 e le 950 persone. E i sopravvissuti furono solo 28. Parliamo di numeri simili, forse maggiori, ma per l’Europa è come fosse ordinaria amministrazione. Il portavoce della commissione europea fa sapere che Frontex non può fare che segnalare alle autorità competenti. E quindi, è il sottotesto, “che volete da noi?”. La commissaria agli Affari interni Ylva Johannson, che pure difende l’operato delle Ong che salvano vite in mare (le stesse che il governo italiano ostacola), si limita a dire: «Penso che questo naufragio sia il segno del fatto che la nostra politica migratoria al momento non funziona bene». Si direbbe un eufemismo, se ci si potesse prendere il lutto di essere ironici davanti a una tragedia.

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Giudici, intercettazioni e riforma penale

giovedì, Giugno 15th, 2023

Vladimiro Zagrebelsky

Mentre in Italia il governo si appresta ad adottare un’iniziativa legislativa in materia di giustizia penale, su un terreno simile, anche se con contenuto diverso, proprio in questi giorni si muove il legislatore francese. In Italia, dopo le recenti limitazioni poste alle dichiarazioni dei magistrati sui casi di cui si occupano, si vuole ora intervenire vietando ulteriormente la pubblicazione del contenuto di atti processuali (come le intercettazioni). Il tema è quello della presunzione di innocenza e della tutela delle persone non coinvolte nell’indagine penale. In proposito va ricordato che connesso e non residuale è il diritto alla conoscenza dei fatti di rilievo sociale o politico. È un aspetto della costituzionale libertà di espressione e spetta a tutti e all’opinione pubblica in generale. La vicenda legislativa francese, che anch’essa vuole affrontare questioni varie di disfunzione della giustizia penale, accanto ad un forte aumento del budget della giustizia, al reclutamento di 1.500 magistrati in più e ad alcune modifiche procedurali, ha riguardato nel corso della discussione in Senato anche un aspetto della comunicazione pubblica dei magistrati e dei loro gruppi associativi. Si è proposto di inserire una limitazione al diritto dei magistrati di creare sindacati, aggiungendo alla legge che lo prevede una semplice riga, carica di problemi nella sua apparente ovvietà. Si tratta di aggiungere “nel rispetto del principio di imparzialità che s’impone ai membri del corpo giudiziario”.

A fondamento di questa proposta i proponenti scrivono che troppo spesso i sindacati dei magistrati intervengono con dichiarazioni su temi politici non direttamente collegati con lo statuto dei magistrati e il funzionamento della giustizia. Soltanto su tali materie le organizzazioni dei magistrati (in Italia le “correnti” della Associazione nazionale magistrati, altrove le varie associazioni) dovrebbero esprimere le loro opinioni. I problemi non sono pochi, a partire proprio dalla portata che si vuole assegnare al naturale e fondamentale dovere di imparzialità dei magistrati, richiamato dalla Costituzione, dalla Convenzione europea dei diritti umani, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Chiara può essere l’esigenza d’imparzialità del giudice rispetto a ciascuna delle parti in giudizio. Vi sono nella legge disposizioni analitiche in proposito e mezzi per assicurarla, eliminando ogni elemento di vera o sospetta parzialità. Una serie di incompatibilità impedisce ai giudici, che si sono già pronunciati in una fase del procedimento, di partecipare poi alle fasi successive. Il motivo di tali incompatibilità (molto onerose sul piano dell’organizzazione dei piccoli tribunali) è legato al fatto che una volta maturata una opinione -tanto più se formalizzata ed espressa- vi è come una resistenza psicologica a modificarla, quando nuovi motivi o nuovi argomenti svolti dalle parti nel processo vi si contrappongano. Ma un problema può porsi anche quando il giudice si sia espresso fuori del procedimento, donde l’obbligo di prudenza. I casi sono infiniti e quelli che provocano polemiche anche politiche sono solo una parte di essi. Vi sono le questioni generali di diritto e quelle di principio o anche specifiche di carattere sociale e politico. Il problema può nascere quando il giudice si debba occupare di un caso che ricade nel quadro entro il quale egli si è già espresso. Il legame con il caso concreto da giudicare è tanto più tenue quanto più generale è la questione su cui il magistrato si è espresso. Il codice etico della magistratura italiana, che proclama la “piena di libertà di manifestazione del pensiero” dei magistrati, richiede loro di ispirarsi a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste anche quando intervengano senza riferimento a casi di cui si devono occupare professionalmente. Non è menzionata la imparzialità, anche di immagine, ed è un peccato; ma l’esigenza di tenerne conto può essere implicita. La imparzialità, accanto alla indipendenza, rappresenta un dovere per il magistrato, ma è anche un diritto che spetta ad ogni cittadino, anche se non coinvolto in un processo.

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Il decennio della fase breve con il ritorno alle origini

mercoledì, Giugno 14th, 2023

di Paolo Mieli

Rifiutando la formula «Ursula», Berlusconi ha offerto una prospettiva alla destra che verrà dopo di lui

Il decennio della fase breve con il ritorno alle origini
Illustrazione di Doriano Solinas

La versione ufficiale degli ultimi trent’anni, già consegnata a provvisori libri di storia, divide l’esperienza politica berlusconiana in due parti. La prima, la «fase lunga», va dal 1993, quando Silvio Berlusconi si pronunciò a favore di Gianfranco Fini sindaco di Roma, al 2011, allorché l’allora presidente del Consiglio fu costretto a cedere a Mario Monti la guida del governo. Nel corso dei diciotto anni Berlusconi è stato più volte a Palazzo Chigi: la «fase lunga» è considerata anche per questo un’epoca eroica, combattiva, vitale, creativa. La «fase breve», durata poco più di dieci anni (2011-2023), è invece tenuta nel conto di un lento, agonizzante declino, assai poco significativo. Credo che, con l’andare del tempo, questo giudizio andrà rivisto e l’esperienza politica di Berlusconi dovrà essere riconsiderata proprio alla luce della stagione più recente. Non foss’altro per il fatto che nel corso della «fase breve» l’uomo ha saputo affrontare la prova più difficile della sua esistenza: la condanna del 2013 e la resurrezione (da tutti ritenuta impensabile) che lo ha riportato, pochi mesi prima di morire, tra i banchi di Palazzo Madama.

Torniamo al 2011. Nel momento in cui consegnò a Monti i propri voti di maggioranza, Berlusconi probabilmente si rese conto che stava abdicando.

Al di là delle apparenze, la scelta del 2011 era assai diversa da quella per altri versi analoga del 1995 (con Lamberto Dini). All’epoca, anche per le intemperanze della Lega di Umberto Bossi, Berlusconi poteva mettere nel conto di essere sconfitto da Romano Prodi, di dover compiere — come disse — una traversata del deserto, per poi, però, ripresentarsi ai nastri di partenza e vincere una seconda volta. Cosa che avvenne nel 2001: centrodestra contro centrosinistra in condizioni simili (più o meno) a quelle del 1994.

Dieci anni dopo, nel 2011, tutto era cambiato. Berlusconi si arrendeva a una pressione europea e si rassegnava ad entrare, intruppato con la sinistra, in una maggioranza di sostegno al governo presieduto da Monti. Stavolta, a differenza del ’95, era chiaro che a Palazzo Chigi non sarebbe tornato mai più. Dopo le elezioni del 2013 — nelle quali si affacciò trionfante il M5S — l’uomo di Arcore, pur rinfrancato da un esito non deludente, si sentì praticamente obbligato a donare i propri voti per la rielezione di Napolitano alla Presidenza della Repubblica, rassegnandosi poi a tornare, da gregario, in una maggioranza a guida Pd. E fu il governo di Enrico Letta. Trascorsero poche settimane e venne la condanna di cui si è detto: uno scatto d’ira lo indusse a uscire da quella maggioranza (ma i «suoi» ministri restarono con Letta). Qualche tempo dopo acconsentì alla trattativa con Matteo Renzi per la riforma delle istituzioni. Andata in frantumi, quella riforma, per l’elezione non concordata al colle di Sergio Mattarella (2015).

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Uno, nessuno, centomila B

mercoledì, Giugno 14th, 2023

di Massimo Gramellini

Se fossi chiamato a tenere un discorso ai funerali di Stato, cosa che per fortuna dello Stato non avverrà, e mi venisse chiesto un aneddoto — uno solo — in grado di illustrare l’essenza dell’uomo, credo che ignorerei le tv, la politica, il sesso e gli affari, e mi concentrerei su una monetina. Una monetina da cento lire, come quella che, nella primavera del 1990, dagli spalti dello stadio di Bergamo planò sulla testa del centrocampista Alemao, consentendo al Napoli di vincere la partita a tavolino e di precedere il Milan in classifica.

Berlusconi non se ne fece mai una ragione. Dapprima ordinò una perizia, nientemeno che all’università di Stoccarda, dalla quale risultò che la parabola compiuta dalla monetina per scavalcare la recinzione che separava il campo dalle gradinate ne aveva ridotto sensibilmente la velocità, rendendola più innocua di un petalo di rosa. «Ma essendo come san Tommaso» si infervorava nelle convention, «ho voluto sperimentare anche di persona. Ho mandato mio figlio (in realtà il maggiordomo) al primo piano di Arcore e gli ho ordinato di tirarmi una monetina sulla testa. Poiché non ho sentito nulla, l’ho pregato di salire al secondo e di tirarmela da lì: ho avvertito un dolore risibile. Solo quando sono stato colpito dal terzo piano mi è venuto un bernoccolo guaribile in tre giorni».

Era dunque questo, Berlusconi? Un uomo che per avere ragione adorava presentarsi come vittima, al punto da arrivare ad infliggersi il martirio da solo? Dopo avere letto i giornali di ieri, compresi quelli stranieri che quasi all’unanimità lo dipingono ingiustamente come un fenomeno da baraccone, mi sono accorto che ognuno di noi ha il suo Berlusconi, apparentemente incompatibile con quello degli altri. Come se ci fosse impossibile accettare che nella stessa persona possano coesistere il nostro pregiudizio e il suo contrario.

Marchionne, che era un po’ italiano e un po’ no, non si capacitava che l’uomo capace di accoglierlo a Palazzo Chigi dicendo «sai perché i cannibali piangono mentre gli esploratori bianchi cuociono in pentola? Per intenerirli» riuscisse a conciliare lo spiritaccio da animatore di villaggio-vacanze con il senso del business. Quando Marchionne disse che non aveva tempo da perdere con le storielle, avendo molto da lavorare, l’altro gli rispose che quello per lui era il lavoro: condire gli affari di barzellette e di barzellette gli affari. Berlusconi era davvero tante cose, in contemporanea. Il playboy vanesio del bunga-bunga, ma anche il classico italiano medio che la sera costringeva le sue ospiti di palazzo Grazioli a sedersi davanti a uno schermo per sorbirsi il rito a tutti noi tragicamente noto del Filmino delle Vacanze, che per lui erano i viaggi di Stato all’estero: Silvio con Bush, Silvio con Putin e Silvio con Silvio, il suo preferito.

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