Archive for the ‘Editoriali – Opinioni’ Category

Opposizione surrogata

venerdì, Giugno 2nd, 2023

Augusto Minzolini

Spesso quando la politica lascia dei vuoti, ci sono altri soggetti che ne riempiono lo spazio. È una legge della fisica dei fluidi che può essere anche applicata alla politica. È inevitabile e, magari, a volte non è neppure intenzionale. Motivo per cui se oggi un’opposizione divisa e distratta dai propri miraggi ideologici arranca, c’è chi per un motivo o per l’altro finisce per farne le veci. Soggetti «parapolitici» come il sindacato, visto che la Cgil non ha mai smesso di fiancheggiare la sinistra politica. O addirittura istituzionali come Bankitalia, che avendo ceduto molti poteri alla Bce è diventata una sorta di ufficio studi di prestigio che svolge un’azione di stimolo nei confronti del governo. O ancora la Corte dei Conti che interviene sul Pnrr con il rischio di rendere più complicato uno sforzo già di per sé difficile per l’esecutivo.

Le ragioni sono molteplici, specie quando c’è un cambio di stagione profondo come quello determinato dalle ultime elezioni, per cui il vecchio establishment ha pochi rapporti e magari nutre una diffidenza innata verso i nuovi governanti. Così visto che il Pd e i 5stelle appaiono poco efficaci e ininfluenti, nella dialettica politica salgono alla ribalta i potenziali supplenti. È già successo in passato: lo scontro al fulmicotone tra il governatore Ignazio Visco al momento della sua riconferma nel 2017 e il potente di turno di allora Matteo Renzi, fu memorabile. Oggi per Visco, arrivato irrimediabilmente a fine carriera, non si pone neppure il problema di una permanenza al vertice dell’Istituto di via Nazionale, per cui può togliersi i sassolini dalle scarpe: lancia segnali al governo sui ritardi del Pnrr, sposa la posizione di grillini e Pd sul salario minimo, storce la bocca sulle ricette fiscali che piacciono al centrodestra. Il paradosso è che su questi temi il governatore echeggia gli slogan di Maurizio Landini e della Cgil che non digeriscono neppure gli industriali. Così va il mondo.

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Quel nonno di Kiev piegato sulla nipote dilaniata a 9 anni

venerdì, Giugno 2nd, 2023

Domenico Quirico

Quel nonno di Kiev piegato sulla nipote dilaniata a 9 anni

La fotografia l’abbiamo sotto gli occhi e sotto le dita. Il volto non lo vedo, coperto dalla reverenza di un lenzuolo bianco. Non lo vedrò mai. Non saprò se questa bambina di Kiev era bionda o bruna, se era paffuta, se le sue mani cominciavano ad acciuffare le cose… e gli occhi…? Dolci o fieri? Vedo il nonno che la veglia abbandonato su una di quelle sedie di plastica degli umili bar di periferia senza che gli escano parole di dentro: l’illusione di possedere ancora la persona che si ama, di incorporarsi in lei, non fare più che una cosa con la sua sostanza, essere trasformati nel proprio amore vivente… E provare nella carne l’orrore di questa assenza infinita. Vorremmo fargli dono di una tenerezza divina, una consolazione che non sia dell’uomo.

Chissà se lei ha capito che di questo si trattava, di morire. Un cuneo di verità nel soffice non sapere dell’infanzia, le ha strappato l’ingenuità come una benda dagli occhi e ha visto in un lampo tutto ciò che la bomba le toglieva. E’ una immagine sconvolgente perché per metà è di morte e per metà di quiete; più esattamente di un distacco calmo e prematuro come se cose del mondo lì si fossero scolorate d’improvviso. Già: i bambini ucraini, i bambini di Aleppo, di Sanaa, di Sarajevo, di Kabul…

C’è sempre qualcosa di incomprensibile nell’orrore. Non riesci a reagire in modo sensato: repulsione, dolore, paura , lutto, vergogna e nulla di sensato. Nel momento in cui lo vedi ti domandi se riesci davvero a vedere quello che stai vedendo. La cronaca spiega che è stata uccisa da un bombardamento russo , uno dei tanti di questi giorni sulla capitale, in un luogo, l’ucraina, dove da più di un anno!, non è la morte ma la vita ad apparire come un incidente del destino. La vita degli innocenti, dei miseri, dei travolti dalla Storia crudele e dai suoi lucidi burattinai.

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L’Italia delle sorprese (senza dimenticare le cautele)

giovedì, Giugno 1st, 2023

di Daniele Manca

Italia delle sorprese. La velocità e il modo con il quale stiamo uscendo da una doppia crisi finanziaria come quella dell’euro e dei debiti sovrani, dalla pandemia con il crollo delle attività economiche fino allo choc della guerra, ha del sorprendente. Ci ha pensato ieri il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, a rimarcarlo. Invitando però ancora una volta alla cautela. Perché dalle sorprese, per quanto positive, si deve passare a uno sviluppo che sia strutturale.

Con la consueta severità ma anche con incoraggiante lungimiranza e il necessario ottimismo il governatore ha accompagnato il Paese in questi anni difficili. Ma vietato illudersi che i rischi siano scomparsi. E questo per una inflazione che scende sì, ma non alla velocità necessaria; e non sempre per motivi esterni al Paese, vista la caduta dei prezzi delle materie prime. Cautela per un debito che assorbe risorse che potrebbero invece contribuire allo sviluppo. Per le tante riforme ancora da fare, la cui mancata attuazione impedisce di passare dalle sorprese a una crescita strutturale.

A confortare Visco e noi tutti, quei dati Istat che ci hanno regalato la fotografia di un Paese che quest’anno crescerà quasi dell’uno per cento. L’Italia è uscita meglio del previsto dalle crisi, ha detto il governatore. Persino più dei nostri partner. Cosa che, peraltro, fa gioire molti. Non sempre a ragione.

Forse si dimentica che quella crescita c’è, ma non è spinta da una domanda interna che resta stagnante, da consumi al rallentatore, da salari fermi e precarietà. Una precarietà che fa sì che dopo 5 anni di lavoro il 20% dei giovani abbia ancora contratti a tempo determinato, come sottolineato dal governatore. Troppi giovani e donne risultano inoccupati e spesso con condizioni contrattuali inadeguate.

A sostenere lo sviluppo sono i record dell’export proprio verso quella Germania, Francia e Stati Uniti che frenano. E che guai se non tornassero a crescere in maniera sostenuta, visto che sono i nostri partner migliori e benzina per il motore dello sviluppo italiano. La creazione di prodotto interno lordo non è una gara, tantomeno tra Paesi che fanno parte di una stessa squadra. Il Pil, il suo aumento, è garanzia di politiche che possano permettere di superare i colli di bottiglia storici del nostro Paese.

La stabilità di una maggioranza così solida che vuole governare cinque anni è uno degli elementi che possono garantire lo sviluppo con scelte di lungo periodo. Qualcuna la si è vista ieri al Consiglio dei ministri.

È stato esaminato ieri il disegno di legge di valorizzazione, promozione e tutela del made in Italy. Il riordino delle agevolazioni per le imprese impegnate nella transizione che si compone di quel combinato di tecnologie, sostenibilità e attenzione ai cambiamenti climatici, ne è un esempio. Purché, nell’attesa del nuovo non si perda il vecchio di quegli aiuti che hanno permesso in campo digitale e tecnologico la tenuta del sistema manifatturiero in questi anni.

La riforma del Fisco messa di nuovo al centro delle politiche di bilancio è un altro segnale nella giusta direzione. Ma senza alcuna indulgenza verso l’evasione fiscale. Che ancora il numero uno di Banca d’Italia ha indicato assieme al «sommerso» come uno degli elementi che danneggia le aziende a più alto potenziale alterando i meccanismi della concorrenza. E quindi la crescita oltre che la civile convivenza.

Per anni la mancanza di disponibilità di fondi ha funzionato da alibi per non fare. Oggi quell’alibi è caduto. L’Italia ha avuto a disposizione 126 miliardi tra il 2014 e il 2020 sotto forma di fondi europei nazionali e di coesione. Ne sono stati spesi solo il 34%. Altri 80 saranno pronti da qui al 2027. A questi vanno aggiunti i circa 220 del Pnrr. Non si può fare tutto, ma molto sì.

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Il collasso educativo di scuola e famiglia

mercoledì, Maggio 31st, 2023

Umberto Galimberti

I giovani oggi stanno male, come dimostra la tragica vicenda del sedicenne di Abbiategrasso. Ma non cerchiamo facili spiegazioni imputando il loro malessere al distanziamento sociale imposto dalla pandemia. Ben più profonde sono le ragioni. E vanno cercate nel collasso educativo della famiglia e della scuola, avvenuto con il progressivo passaggio dalla società della disciplina che si regolava sul ciò che era permesso e ciò che era proibito, alla società dell’efficienza e della performance spinta, spesso misurata dal numero dei like e dei follower a cui viene affidata la propria identità, spesso accompagnata da un senso di insufficienza per ciò che si vorrebbe essere e non si riesce ad essere a partire dalle attese altrui, dalle quali ciascuno misura il valore di se stesso. L’identità, infatti, non la possediamo per il fatto che siamo nati, ma è un dono sociale, è il risultato del riconoscimento o del misconoscimento che riceviamo dagli altri.

La famiglia oggi è molto carente in termini educativi. I genitori parlano poco con i figli, soprattutto in tenera età, e in compenso li riempiono di regali che stanno al posto di tutte le parole mancate. Doni a Natale, ai compleanni, alle promozioni, alle immediate soddisfazioni delle loro richieste che hanno come effetto l’estinzione del desiderio. Perché il desiderio è mancanza. Non si desidera quello che si ha, ma quello che non si ha. E in un clima di abbondanza e di gratificazioni il desidero si spegne. Inutile poi lamentarsi se, in età adolescenziale, i ragazzi non desiderano più niente e sono indifferenti a tutto. Oggi poi i genitori vivono spesso il mito del giovanilismo che li conduce a comportamenti non proprio esemplari. Non parliamo delle separazioni e dei divorzi, necessari quando il clima in famiglia è connotato dall’indifferenza reciproca, quando non dalla violenza. Ma non si creda che separazione e divorzi non incidano in termini depressivi sui figli. Non sono rari i casi in cui si cambia partner come si cambiano i vestiti o i lavori. È infatti diffusa una concezione della libertà intesa solo come revocabilità di tutte le scelte.

Ma veniamo alla scuola che accompagna i nostri ragazzi per dodici anni della loro vita. Qui me lo si lasci dire. La scuola Italiana istruisce quando riesce, ma non educa. L’istruzione è una trasmissione di contenuti culturali e scientifici da chi li possiede (gli insegnanti) e chi non li possiede (gli studenti). L’educazione consiste nel prenderei cura della condizione emotiva degli studenti, perché come dice Platone: “La mente non si apre se prima non si è aperto il cuore”. E quando dico “cuore” penso a quel passaggio all’emozione a partire dalle pulsioni a cui si arrestano i bulli che, incapaci di esprimersi con le parole, sanno muoversi solo con i gesti, il più delle volte violenti, senza una risonanza emotiva dei loro comportamenti. Kant diceva che «il bene e il male potremmo anche non definirli perché ciascuno li sente naturalmente da sé». Oggi non è più vero che tutti i ragazzi avvertono la differenza tra parlare male di un professore, (cosa che abbiamo fatto tutti) o aggredirlo fisicamente (oggi ci provano anche i genitori), tra corteggiare una ragazza o stuprarla. E non sto esagerando a giudicare dalle risposte che i ragazzi che compiono queste azioni danno ai magistrati che li interrogano. Sono risposte disarmanti: «Ma cosa abbiamo fatto di strano?», «Volevamo solo divertirci». Quindi non sanno distinguere più il bene dal male, ciò che è grave da ciò che grave non è. Cosa fa la scuola con i bulli? Li sospende. Malissimo. Deve tenerli a scuola il doppio del tempo e aiutarli a guadagnare quella risonanza emotiva dei loro comportamenti, senza la quale questi ragazzi diventeranno soggetti pericolosi.

Ma per accorgersi dei percorsi emotivi e sentimentali di questi adolescenti, i cui lobi frontali che presiedono la razionalità giungono a maturazione intorno ai vent’anni, occorre che gli insegnanti dispongano di empatia, che è la capacita di leggere cosa passa nella mete e nel cuore degli alunni che ogni giorno hanno di fronte. Si diventa insegnanti superando un concorso che misura la preparazione culturale dei candidati. A questa prova dovrebbe aggiungersi un test di personalità che misura il grado di empatia, come peraltro avviene nei Paesi del Nord Europa. Perché chi non ha empatia non può fare l’insegnante, come chi è alto un metro e cinquanta non può fare il corazziere. Tutti noi abbiamo studiato con piacere le discipline dei professori che ci avevano affascinato, e trascurato quelle dei professori che ci demotivavano. Oggi, su nove professori che compongono una classe, sono fortunati quegli studenti che hanno uno o due maestri su cui fare affidamento e riferimento per la loro formazione. Sempre in ordine alla formazione degli insegnanti è mai possibile che, avendo a che fare con ragazzi in età evolutiva, non sia previsto nel loro curriculum di studi un solo libro di psicologia dell’età evolutiva?

Temo i professori che seducono gli studenti con la loro personalità, o peggio che vadano a mangiare con loro la pizza, perdendo immediatamente al loro autorevolezza. Approvo invece i professori che li seducono con la loro cultura, che però deve essere offerta come, ad esempio, Benigni ha recitato la Divina Commedia, perché la cattedra è un palcoscenico. E non sarebbe male che un insegnante, nel suo percorso formativo, frequentasse anche una scuola d teatro, invece di insistere nelle sue interrogazioni ad esempio su la battaglia di Campaldino nota 31, pagina 50.

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Governo: identità e riforme da fare

mercoledì, Maggio 31st, 2023

di Angelo Panebianco

Un vero bilancio sarà possibile sono quando si sarà conclusa la sua parabola. Ma forse l’esperienza del governo Meloni ci consentirà già prima di allora di comprendere quali siano i vincoli, i limiti e le possibilità di azione di un governo dell’Italia democratica nelle condizioni di oggi. Sulla carta, questo esecutivo gode di vantaggi superiori a quelli di molti che lo hanno preceduto: una forte maggioranza parlamentare, una opposizione debole, radicalizzata e divisa, l’aspettativa di una lunga durata.

È un insieme di condizioni che rende possibile tentare di rispondere a una domanda: ha ragione o torto chi pensa che i partiti (non importa il colore politico) se vincono le elezioni, siano sempre dotati di una personalità scissa? È vero o no che tali partiti siano, da un lato, spesso, ottime macchine elettorali, efficienti strumenti per la raccolta del consenso e, dall’altro, se si guarda alle loro performance come forze di governo, semplici gestori dello status quo (salvo qualche correzione al margine)? Intendiamoci su ciò che significa in questo caso status quo: significa che chi va al governo ne fa una occasione per sostituire personale nei posti-chiave di nomina governativa e che, per il resto identifica il «governare» nel modo in cui lo si è sempre inteso in Italia: spendere risorse per acquisire consenso. Gli interventi a margine sono quelli ad alto contenuto simbolico (es. abolizione del reddito di cittadinanza, o interventi normativi in tema di immigrazione). Gestione dello status quo significa che le strozzature, gli ostacoli, le disfunzioni, i lacci che da sempre opprimono il Paese non vengono presi di petto: una cosa che si potrebbe fare solo con un vasto piano di riforme le quali, identificate con la massima precisione possibile le cause delle strozzature, siano finalizzate a rimuoverle. Con effetti positivi che, inevitabilmente, si manifesterebbero non nel breve ma nel medio-lungo termine. L’assenza di quelle riforme è nascosta da un diluvio di annunci di provvedimenti che i ministri fanno e che, anche quando vengono attuati (la maggior parte degli annunci però si perde normalmente per strada) non intaccano, o intaccano solo in minima parte, le suddette strozzature e disfunzioni.

Traggo due esempi da altrettanti editoriali apparsi sul Corriere nell’ultima settimana.

Sabino Cassese (Corriere del 27 maggio) ha documentato come il recente decreto ufficialmente volto a rafforzare la capacità amministrativa dello Stato abbia la sola funzione di assumere nuovi dipendenti e di stabilizzare quelli assunti a tempo indeterminato. Osserva che il decreto non affronta alcuno dei problemi che determinano l’inefficienza dell’amministrazione. «Non è un aumento del numero di dipendenti pubblici — conclude Cassese — l’obiettivo a cui puntare ma piuttosto il miglioramento del servizio alla collettività e un miglior trattamento stipendiale per quelle categorie pubbliche che non hanno prospettive di carriera o per quelle qualifiche che trovano sul mercato condizioni migliori…». In sintesi: assunzioni al posto di interventi sulle disfunzioni dell’amministrazione. Come si è sempre fatto.

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Ferragni e la bambina

mercoledì, Maggio 31st, 2023

di Massimo Gramellini

Sto diventando pazzo, o forse soltanto vecchio, anche se una cosa ovviamente non esclude l’altra. Riassunto: sul suo profilo Instagram una ragazzina di undici anni, Giulia D., critica il suo idolo Chiara Ferragni per essersi fotografata in déshabillé davanti allo specchio. E il vecchio sobbalza perché, più delle forme della Ferragni, lo sconvolge che a undici anni una ragazzina abbia già un profilo Instagram. Il messaggio rivela una scrittura adulta e l’eccesso di riferimenti complimentosi alla madre lascia supporre che ne sia lei l’autrice. Però il profilo è formalmente intestato a Giulia D. ed è quindi a lei che Chiara Ferragni risponde stizzita. Sì, avete capito bene, una imprenditrice di trentasei anni polemizza in pubblico con una ragazzina di undici, chiamando in causa la libertà di espressione, che è l’alibi con cui i capitalisti dei social giustificano qualsiasi contenuto pruriginoso consenta loro di fare più soldi. A questo punto interviene Instagram, il padrone del giocattolo, che chiude d’imperio il profilo. Della Ferragni? Figuriamoci. Chiude quello della ragazzina, accorgendosi all’improvviso che ha solo undici anni, mentre per aprirne uno bisognerebbe averne almeno tredici.

Conclusione: Giulia D. e sua madre strillano in difesa della libertà, la Ferragni strilla in difesa della libertà, e il vecchio pazzo resta afono, con la sensazione che tutte e tre abbiano ragione e al tempo stesso torto.

CORRIERE.IT

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La destra travolge una sinistra suicida

martedì, Maggio 30th, 2023

MARCELLO SORGI

Si dice cappotto quando in una partita la vittoria di una delle due squadre è talmente forte, sproporzionata, da lasciare senza speranze l’altra. Esattamente così è andata tra destra-centro e centrosinistra nei ballottaggi che, segnati da una scarsissima, sotto il 50 per cento, affluenza ai seggi hanno chiuso la tornata amministrativa di maggio, e nel primo turno del voto in Sicilia, dove in molti casi i sindaci sono risultati subito eletti. Si sa: ogni test locale, per quanto esteso – e questo, sulla carta, coinvolgeva oltre dieci milioni di elettori, anche se domenica e ieri se ne sono presentati molti di meno – vale fino a un certo punto per disegnare un nuovo quadro nazionale. Ma una tendenza, a otto mesi dalla vittoria del destra-centro, quella sì: il consenso alla coalizione di governo guidata da Meloni, non solo è ancora molto forte, ma se possibile s’è accresciuto. E, con la sola eccezione di Vicenza, la sconfitta del centrosinistra, in tutte le versioni in cui s’è presentato – Pd-5 stelle, Pd-Terzo polo, con o senza liste civiche -, è perfino più cocente di quella di settembre 2022.

La spiegazione di tutto ciò è chiara ed è una sola: le opposizioni non sono riuscite in questo periodo a costruire un’alternativa credibile, né ci hanno provato. L’illusione del Pd di contrapporre Schlein, con il suo notevole tasso di novità, alla prima donna premier, s’è rivelata artificiosa. Anche in caso di dubbi, gli elettori, quei pochi che vanno a votare, preferendo esprimersi nelle urne piuttosto che nell’astensione, se cambiano, cambiano all’interno del centrodestra. Si vede soprattutto nel voto siciliano, dove le liti interne all’alleanza di governo hanno aperto la strada a sindaci “centristi” sostenuti da liste civiche e vittoriosi senza simboli di partito, ma riferiti sempre alle stesse maggioranze di destra.

Nel dettaglio, nella sfida di Ancona, il centrosinistra è stato battuto dove tentava di mantenere l’amministrazione per cambiare di segno la regione già passata al centrodestra. La premier Meloni aveva accettato la sfida, andando lì a chiudere la campagna elettorale, e ha vinto la scommessa. Lo stesso è accaduto a Pisa, Siena e Massa, dove il Pd puntava a riprendersi i sindaci sull’onda della vittoria in Toscana alle ultime regionali, e a Brindisi dove aveva riposto le sue speranze nell’unico asse con i 5 stelle riconosciuto da Conte, grazie al fatto che il candidato proveniva dalle file del Movimento.

Non serve qui ripercorrere la mappa dei risultati comune per comune, dato che si votava in 41 differenti realtà: basta annotare che il destra-centro ha prevalso dappertutto; e che a Vicenza, la sola eccezione, il neo-sindaco ha vinto quasi a dispetto, più per le sue apprezzate qualità personali che per il sostegno del Pd e del Terzo polo. I cui due leader, Calenda e Renzi, hanno passato a litigare e a coprirsi di insulti e accuse reciproche le due settimane che separavano il primo dal secondo turno elettorale. Non va poi ignorato che in Sicilia nella maggiore città in cui si votava, Catania, la vittoria del centrodestra ha raccolto i due terzi dei voti, e in molti casi non saranno necessari i ballottaggi, grazie alla legge elettorale regionale che dichiara vincitore chi supera il 40 per cento.

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Elezioni: Spagna laboratorio per l’Europa

martedì, Maggio 30th, 2023

di Aldo Cazzullo

La Spagna può diventare il laboratorio del ribaltone europeo, della nuova alleanza tra popolari e conservatori, che è poi lo schema di Giorgia Meloni. Di più: con il leader di Vox, Santiago Abascal, la premier ha una dichiarata sintonia personale; e l’alleanza con Vox è la chiave della vittoria del Partido popular nelle amministrative di domenica. Impressionato dalla sconfitta, il premier socialista Pedro Sanchez ha deciso di drammatizzare la situazione. E ha convocato nuove elezioni generali per il 23 luglio, con quasi cinque mesi di anticipo sulla scadenza della legislatura.

Un conto è il voto amministrativo, che l’altro ieri ha premiato nettamente la destra. Un altro è il voto politico, in un Paese dove la memoria della dittatura non è così remota. Sanchez e i suoi alleati di sinistra faranno tutta la campagna sul fantasma dell’«España negra», la Spagna nera. Tenteranno di spostare il confronto su una guerra culturale, come già in passato quando il governo ha traslato prima il corpo di Franco poi quello di José Antonio capo della falange dal monumentale Valle de los Caìdos a un cimitero privato, tra le proteste di Vox e l’imbarazzato silenzio del Pp. Saranno due mesi di fuoco.

Il verdetto amministrativo è stato netto. La destra vince in tutti i quartieri di Madrid, compreso Vallecas, irriducibile roccaforte rossa anche durante il franchismo. E prevale in tutti i capoluoghi dell’Andalusia, tradizionale granaio socialista, la terra di Felipe Gonzalez. A Barcellona la sinistra si è divisa in tre: i socialisti, i radicali dell’ex sindaca Ada Colau, arrivata solo terza, e i separatisti dell’Esquerra republicana; risultato, ha vinto l’uomo della destra catalanista, e Vox per la prima volta è entrata in consiglio comunale. Sanchez perde anche il bastione dell’Estremadura.

L’uomo nuovo è Alberto Núñez Feijóo, il leader popolare. Gallego come Francisco Franco, come Manuel Fraga Iribarne, come Mariano Rajoy, ma anche come il padre di Fidel Castro (Castro e il Caudillo ebbero sempre un buon rapporto personale, e la Spagna franchista non ruppe mai le relazioni con Cuba). Quel che unisce politici tanto diversi è la storica «retranca gallega», lo spirito taciturno e sornione dei galiziani, così distanti dalla calorosa e passionale Spagna mediterranea. Núñez Feijóo non è un estremista, è un centrista che ad esempio mal sopporta l’esuberanza della presidenta della comunità di Madrid Isabel Díaz Ayuso. Ma dovrà allearsi con il leader di Vox Santiago Abascal, l’amico della Meloni. Neppure Abascal è tecnicamente un franchista; è un nazionalista spagnolo, un basco avversario dei separatisti, vissuto sotto scorta negli anni del terrorismo dell’Eta. Il voto per il suo partito non è tanto nostalgico quanto metropolitano, giovane, social – il massimo storico lo raccoglie nel quartiere più ricco di Madrid, Salamanca -, populista; non ha sfondato, ma si è rafforzato proprio grazie al rigetto verso gli indipendentisti baschi e più ancora catalani.

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Il test delle urne e i pericoli per Schlein

lunedì, Maggio 29th, 2023

Alessandro De Angelis

Lo si è visto già al primo turno di questa tornata amministrativa, sufficiente (quando corrono le liste) a tastare il polso del Paese: nei suoi rapporti di forza reali, siamo ancora al 25 settembre. La fase non è cambiata. E tuttavia i ballottaggi, molto condizionati da elementi locali, cui si aggiunge il voto di Catania dove la destra punta chiudere subito la partita, inevitabilmente avranno un valore simbolico, nei termini di «chi ha vinto e chi ha perso»: se il giovane Giacomo Possamai – uno che ha chiesto ai big del suo partito, compresa Elly Schlein, di non andare a «fare passerelle» – espugnerà Vicenza si aprirà il dibattito sul “modello civico”; se la destra invece riuscirà a conquistare Ancona, Brindisi, e a mantenere le tre città toscane (Pisa, Massa, Siena) sarà un bel problema per la segretaria Pd, la cui gestione solipsistica del partito alimenta già dei malumori sottotraccia da parte di chi, anche tra i suoi sostenitori, chiede maggior coinvolgimento, in termini di scelte e agenda.

Poi, come in un volta-pagina, la dinamica (forse l’illusione) bipolare, lascerà il campo alla grande proporzionalizzazione della discussione politica, con l’orologio fissato al voto per le Europee, dove il primo avversario è l’alleato potenziale o reale cui erodere voti. Con la non irrilevante differenza che, mentre da un lato Salvini potrà agitarsi sul canone Rai o sull’autonomia, ma non è nelle condizioni di forzare più di tanto nell’ambito di una coalizione guidata da una leadership saldamente egemonica, dall’altro non solo non c’è un embrione di alternativa, ma il solco politico tra Pd e Cinque stelle è destinato ad acuirsi. Certamente sulla guerra, ma il trailer di quel che accadrà è andato in onda anche sulle nomine Rai, dove uno ha gridato all’occupazione, l’altro ha preso parte alla spartizione, il che fissa la divisione sull’elemento morale e sulla soglia dello scandalo tollerabile, mica un dettaglio.

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Il potere infinito (e le colpe) di Erdogan

lunedì, Maggio 29th, 2023

di Aldo Cazzullo

Elezioni che si tengono con la stampa imbavagliata e i dissidenti in galera non sono davvero libere. Ma la maggioranza dei turchi ha confermato il presidente, anche se non si può considerare un leader democratico quanto un autocrate

Il potere infinito (e le colpe) di Erdogan
Recep Tayyip Erdogan è stato confermato presidente (Ap)

Ha imprigionato scrittori, generali, giornalisti, blogger. Ha tentato di soffocare passo dopo passo la laicità su cui è stata costruita la Turchia moderna. Si è messo contro le grandi città: Istanbul di cui era stato sindaco, Izmir (Smirne) che l’ha sempre osteggiato, Ankara offesa dalla costruzione del suo sardanapalesco palazzo. Ha gestito male la tragedia del terremoto. Non è riuscito a entrare nell’Unione europea, anzi con molte scelte — dalla persecuzione dei curdi al dialogo con i peggiori satrapi — si è chiamato fuori dall’Occidente. Non ha saputo frenare l’inflazione, oggi in Turchia a livelli drammatici, tanto che è difficile pure comprare un’automobile, divenuta un bene rifugio: chi se ne accaparra una la rivende dopo pochi mesi per trarne profitto.

Allora, perché? Perché, dopo oltre vent’anni di potere, Recep Tayyip Erdogan è stato rieletto per l’ennesima volta, sia pure di misura, in modo non certo trionfale?

Intendiamoci: elezioni che si tengono con la stampa imbavagliata e i dissidenti in galera non sono davvero libere. Erdogan non si può considerare un leader democratico, quanto un autocrate.

Eppure non è che la maggioranza dei turchi sia incapace di intendere e di volere. Né può essere considerata vile e conformista: se c’è un popolo indomabile e coraggioso, formidabile in pace e in guerra fino alla spietatezza, è il popolo turco. Che è anche un popolo nazionalista, più ancora di altri.

Il motivo è scritto nella geografia e nella storia: la penisola anatolica è il ponte naturale tra Asia ed Europa, crocevia e terra di passaggio, sede di un impero dai tempi di Costantino; e i turchi, che a Costantinopoli entrarono quasi sei secoli fa, dopo aver vissuto l’apogeo e la decadenza hanno dovuto lottare duramente per non essere spazzati via. Certo hanno commesso crimini, ai danni degli armeni, dei curdi, dei greci; ma altre volte ne sono stati vittima, e tuttora popolazioni turcofone dell’Asia centrale dopo aver subito il giogo russo devono sottostare a quello cinese.

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