Archive for the ‘Editoriali – Opinioni’ Category

Le conseguenze economiche del melonismo post-draghiano

domenica, Maggio 28th, 2023

MASSIMO GIANNINI

Non vogliamo rovinare il presepe meloniano, così mirabilmente agghindato dalle tante Agenzie Stefani acquartierate nelle redazioni dei “picchiatori d’area” e nei telegiornali della Tv di Stato (e mai definizione fu più in linea con i tempi). Siamo felici di questa straordinaria resilienza italica, di fronte ai tre choc globali di questi ultimi tre lustri: crisi dei debiti sovrani, pandemia e guerra in Ucraina. Siamo fieri di questa economia reale che non solo si cura le ferite, riparte e addirittura fa meglio di quelle dei partner occidentali. Per quest’anno il Fondo monetario assegna all’Italia una crescita dell’1,1% (migliore della stima precedente ferma allo 0,7), mentre la Commissione europea prevede un più 1,2% (contro una media dell’1,1 nell’Eurozona).

Se poi pensiamo che da giovedì scorso la Germania è ufficialmente in recessione, allora mancano solo i Re Magi, e anche l’Epifania Tricolore sarà infine compiuta. In realtà, come ricorda giustamente Mario Deaglio, questa bolla festosa che il governo gonfia ogni giorno d’aria e propaganda rischia presto di scoppiare. Il fronte internazionale è pieno di incognite. Secondo il Global Debt Monitor dell’Iif, proprio nel momento in cui Fed e Bce hanno stretto il nodo scorsoio dei tassi di interesse, il debito mondiale è volato alla cifra monstre di 304.900 miliardi di dollari. In America la stretta monetaria ha innescato una discesa del costo della vita, ma i debiti delle famiglie hanno superato per la prima volta nella storia quota 17 mila miliardi di dollari: se va bene ci sarà meno inflazione ma crescita anemica, se va male ci saranno recessione e default privati, che si aggiungono a quello pubblico non ancora scongiurato dalla Casa Bianca e dal Congresso.

In Europa il caro-prezzi è più ostinato, e questo spingerà Christine Lagarde a elevare ancora i tassi, proiettando sull’economia dell’area euro lo spettro di una vera recessione.

Il fronte interno è ancora più vischioso. Come osserva opportunamente Alessandro Penati, tanto “compiacimento per le previsioni gratificanti di crescita del nostro Paese” potrebbe portarci presto a “un brusco risveglio”. Al di là della spinta momentanea dell’edilizia drogata dal Superbonus, delle ottime performance di alcune filiere produttive come l’agroalimentare e dell’export manifatturiero, la politica economica è confusa, contraddittoria, corporativa. La Melonomics, semplicemente, per adesso non esiste. Non è una critica faziosa, perché finora non esiste nemmeno una Schleinomics. È, più banalmente, la somma delle gravi criticità evidenziate in questi ultimi giorni da tutte le principali istituzioni indipendenti.

L’ultimo a smontare il vacuo storytelling della presidente del Consiglio e del suo ineffabile ministro del Tesoro è l’Fmi, che invoca “un piano credibile di riduzione del debito a medio termine”, suggerisce una revisione del sistema previdenziale con “un’età pensionabile collegata alle aspettative di vita, prestazioni maggiormente allineate ai contributi e abolizione dei regimi di prepensionamento”, consiglia un Fisco che “incoraggi l’occupazione, abolisca le spese fiscali inutili, rafforzi la riscossione delle entrate, tuteli la progressività”. La Banca d’Italia, in audizione alla Camera, è inflessibile sulla delega fiscale: mancano “le opportune coperture finanziarie”, non è chiaro “né quali incentivi saranno oggetto di razionalizzazione né quindi l’entità delle risorse che potranno essere recuperate”, ma soprattutto il sistema ad aliquota unica e a riduzione del carico fiscale risulta “poco realistica per un Paese con un ampio sistema di Welfare, specie alla luce dei vincoli di finanza pubblica”.

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Formazione professionale, un paradosso italiano

domenica, Maggio 28th, 2023

di Ferruccio de Bortoli

Centinaia di migliaia di posti restano scoperti per mancanza di candidati adeguati. E il sistema economico avrà necessità di 5,8 milioni di nuovi occupati ancora più qualificati

Sembra solo una questione di soldi. Da una parte non si sa come spenderli, dall’altra non sappiamo dove trovarli. Mai avuti tanti investimenti da fare, grazie (e non solo) al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Mai avuti così tanti capitoli da finanziare: dalle inesistenti coperture della riforma fiscale agli interventi contro il dissesto idrogeologico. Una lunga lista di promesse. I vasi della spesa pubblica, specialmente a fronte di impegni europei – che includono anche le riforme – non sono comunicanti. Qualcuno coltiva però questa insana illusione che conferisce al dibattito pubblico un’atmosfera oppiacea di leggerezza finanziaria. Ci sarebbe anche il ponte di Messina che il vice presidente del Consiglio, Matteo Salvini, dopo l’ultimo decreto, presenta in Rete sotto il promettente titolo: «Dalle parole ai fatti». Siamo più tranquilli.

Non è il solo paradosso dell’Italia contemporanea. Ce n’è un altro, drammatico, del quale non vogliamo, chissà perché, occuparci. Un’emergenza sempre secondaria. Il processo di rimozione è collettivo. Proprio ieri Eurostat ha ribadito che siamo, dopo la Romania, il Paese europeo con il maggior numero di ragazze e ragazzi, tra i 15 e i 29 anni, che non studiano né lavorano. Uno su cinque. E non ci scandalizziamo. Tiriamo dritto. Sull’altro piatto della bilancia del lavoro, sono raddoppiate, rispetto al periodo pre Covid, le aziende che non riescono a trovare i profili professionali di cui hanno bisogno. Una su due.

Secondo il rapporto Excelsior-Unioncamere, già oggi più di un milione e duecentomila posti di lavoro rimangono scoperti per mancanza di candidati adeguati. E nei prossimi 5 anni il sistema economico, nel suo complesso, avrà necessità di 5,8 milioni di nuovi occupati — ancor più qualificati — per sostituire tra l’altro 2,7 milioni di persone che andranno in pensione. Intanto l’Italia invecchia. Avrà sempre meno giovani che però non riesce a preparare adeguatamente, salvo farsi sfuggire quelli più bravi o intraprendenti. Siamo ancora largamente convinti — perché questo è il tenore della discussione pubblica — che per innalzare il tasso di natalità bastino gli asili nido e gli aiuti alle famiglie. Abbiamo bisogno di immigrati ma temiamo di doverli integrare. Non è solo un tabù politico. Quelli che ci aiutano in famiglia vanno bene; quelli che si incontrano per strada no.

Uno studio della Banca d’Italia, firmato da Gaetano Basso, Luigi Guiso, Matteo Paradisi e Andrea Petrella, ha quantificato in 300 mila unità, l’occupazione aggiuntiva che verrà creata dal Pnrr nel solo 2024. Gli autori si chiedono però, desolatamente al termine del loro studio, se quei posti, ad alto valore aggiunto, specie in settori tecnologicamente avanzati, verranno coperti. Sarebbe una beffa se non fosse così. Nei prossimi giorni, il ministro Raffaele Fitto, che ha la responsabilità dell’avanzamento del Pnrr, renderà nota la propria relazione sullo stato d’attuazione. Sarà interessante capire non tanto quanto si sarà speso, bensì quanto di quello che non si riesce a spendere dipenda dalla mancanza di profili professionali adeguati. In sostanza dalla qualità del capitale umano. Perché quest’ultimo è il vero obiettivo del Next Generation Eu, che non a caso si chiama così e riguarda le prossime generazioni. Non unicamente, come sembra, le infrastrutture, l’alta velocità, la rete digitale, le fonti rinnovabili. Non è solo un grande progetto di opere pubbliche per la transizione, ma anche e soprattutto un immenso investimento sul capitale umano. Rischia di fallire per le poche competenze attualmente a disposizione e rischia di diluirsi per non averne create abbastanza.

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L’egemonia culturale a destra è solo potere

sabato, Maggio 27th, 2023

Marco Follini

Caro direttore, l’egemonia culturale è quella tal cosa che la politica dovrebbe cercare prima del potere, o magari dopo il potere. Mai durante. Prima, è una preparazione. Dopo, può essere un rimpianto. Durante, è quasi sempre un equivoco e spesso diventa un abuso. Già, perché i tempi della politica e quelli della cultura non coincidono quasi mai. E quando si prova a farli coincidere si tratta quasi sempre di una forzatura. Si pretende che la lettura di qualche libro, la frequentazione di qualche teatro, l’accumulo di qualche conoscenza in più determinino un maggior diritto a guidare la carovana del potere. Ma più spesso avviene il contrario. E cioè avviene che chi si trova a guidare i ministeri abbia altro da fare, e semmai attinga a quelle conoscenze e frequentazioni che appartengono a prima. O magari si riservi di tornare sull’argomento quando avrà più tempo per farlo.

Non a caso nella Prima Repubblica questa egemonia fu appannaggio dell’opposizione. Come a voler compensare la sinistra del suo mancato approdo al governo quasi offrendole in cambio una sorta di maggioranza culturale, fatta di libri, film, quadri, cattedre e insegnamenti. Cosa della quale all’epoca si lamentavano un po’ tutti, coloro che ne beneficiavano e coloro che se ne sentivano vittime. Ma che tutto sommato concorreva, suo malgrado, a migliorare gli uni e agli altri.

Ora invece si pretende che il governo, la maggioranza, la nuova destra che si sta affermando traggano dai voti che hanno in più un diritto (e un dovere) supplementare a guidare le coscienze. Circostanza che per alcuni diventa banale occupazione dei posti ma per altri finisce per sublimarsi nel faticoso compito di illuminare le menti degli italiani. Così, una sicura furbizia e una pretesa virtù finiscono per darsi la mano ponendo all’ordine del giorno la questione di una nuova egemonia culturale.

Non si offenda nessuno: è la strada più sbagliata. Perché la cultura politica è l’apprendistato dei governi, non il loro effetto collaterale. E tanto più chi ha in mano le redini del paese, o almeno dei suoi centri politici, dovrebbe capire che alle sue fortune concorrono sempre in maggior misura coloro che pungolano a far meglio piuttosto che coloro che vorrebbero certificare che s’è fatto benissimo.

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Burocrazia ed efficienza, uno Stato poco frugale

sabato, Maggio 27th, 2023

di Sabino Cassese

Stanziare risorse per investimenti è facile, spenderle difficile, come dimostrato dal fatto che i progetti degli ultimi dodici anni sono stati realizzati solamente per un quinto. Non è un aumento del numero dei dipendenti pubblici l’obiettivo al quale puntare

Prima il Piano nazionale di ripresa e di resilienza, poi l’alluvione pongono il problema della capacità amministrativa dello Stato. Per il piano, occorre ora una revisione degli obiettivi, allo scopo di tener conto di quelli non attuati. L’alluvione richiede la realizzazione di canali di scolo, per far defluire le acque, e la costruzione di casse di espansione, opere ingenti per le quali sarà difficile provvedere in breve tempo.

Queste opere si scontrano con la storica incapacità dell’amministrazione. Abbiamo, infatti, sentito auspicare che gli aiuti agli alluvionati siano dati «senza burocrazia». Le risorse finanziarie ci sono, non c’è la capacità di realizzare le opere. Stanziare risorse per investimenti è facile, spenderle difficile, come dimostrato dal fatto che i progetti degli ultimi dodici anni sono stati realizzati solamente per un quinto. La Corte dei conti ha individuato le cause nei procedimenti lunghi e laboriosi e nella carenza di organismi tecnici, tanto più grave in un Paese nel quale vi sono cultura e scuole di ingegneria idraulica eccellenti. Si parla di ricorrere all’esercito, come per la pandemia.

Mentre ci si preoccupa, giustamente, della durata e della coesione dei governi, si dimentica che la velocità della macchina non dipende tanto dall’abilità del pilota, quanto dalla potenza del motore: è questo che determina l’andatura. E il motore dello Stato è la burocrazia.

Stupisce che, in questa situazione, il governo prima e ora la Camera dei deputati puntino, per «rafforzare la capacità amministrativa», su un decreto-legge (numero 44 del 2023) che è una vera e propria sagra di assunzioni di personale. Il testo — trenta articoli per quasi settanta pagine, accompagnato da una relazione tecnica di più di duecento pagine in qualche punto reticente e in qualche altro compiacente — è scritto con la tecnica del cuci-scuci e delle addizioni interstiziali, in modo da renderlo incomprensibile ai non addetti ai lavori, ed è destinato a raddoppiare di dimensioni nel corso dell’esame parlamentare per la conversione. Allo scopo dichiarato di aumentare la capacità amministrativa dello Stato, non fa altro che aprire le porte dei ministeri a nuovo personale. Le molte pagine del decreto-legge sono dedicate ad allargamenti di organici, incrementi di dotazioni, scorrimenti di graduatorie, riserve di posti, inquadramenti in ruolo, stabilizzazioni di personale, immissioni in ruolo, concorsi con posti riservati, assunzioni straordinarie. Tutto questo per i ministeri, mentre alle regioni e agli enti locali sono riservate solo poche briciole.

Così si realizza l’obiettivo del ministro della Pubblica amministrazione: soddisfatto di aver assunto 157 mila persone nel 2022, si propone di assumerne altre 170 mila quest’anno, oltre a stabilizzare i dipendenti assunti a tempo determinato con il piano di ripresa e di resilienza (così nell’intervista che ha dato il 24 maggio scorso a Repubblica) e a «sistemare» il personale previsto dal decreto-legge numero 44.

Questo decreto-legge è la prova del fatto che il governo ha chiuso gli occhi, senza vagliare le richieste che provenivano dall’interno dell’amministrazione, e non affronta le cause della inefficienza del settore pubblico. Il piano di ripresa prevede, entro il 2024, 200 semplificazioni. Il ministro della Pubblica amministrazione ne promette 600, ma dichiara di aver avviato il lavoro soltanto per 70 procedure. Come ha osservato Maurizio Ferrera il 21 maggio scorso su questo giornale, i processi di attuazione degli investimenti pubblici poggiano su un coacervo di regole che prevedono la partecipazione di una spropositata pluralità di attori e molti di questi chiudono il loro «passaggio a livello» e creano ingorghi per difendere anche i loro interessi.

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Lo Stato non alza le mani

venerdì, Maggio 26th, 2023

di Michele Serra

L’amaca di venerdì 26 maggio 2023

Su poliziotti e carabinieri la penso come Pasolini: sono figli del popolo e fanno un lavoro che molte persone più protette e privilegiate preferirebbero non fare. Proprio perché sono dalla loro parte mi preoccupa la cadenza quotidiana di video (gli ultimi due a Milano e Livorno) dai quali traspare, diciamo così, un’esuberanza repressiva che spaventa, anche perché è ai danni di persone che, nella scala sociale, non sono certo classificabili tra i più forti.

Pasolini descrisse il conflitto di piazza tra proletari (i poliziotti) e figli di papà (gli studenti). Qui invece le botte arrivano addosso a derelitti e gente comune. Non che picchiare un commendatore o una contessa sia meno grave; lo Stato dovrebbe avere con tutti la stessa severità, ma per tutti lo stesso rispetto. È solo per dire che l’uso strumentale del Pasolini “pro-poliziotti”, tanto caro alla destra, va storicizzato; e non è certo spendibile nel caso si vedano persone in divisa che menano e scalciano transessuali, o ambulanti, o gente della strada.

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La tattica elusiva di Elly Schlein

venerdì, Maggio 26th, 2023

di Stefano Folli

Da un paio di giorni alcuni commentatori tutt’altro che ostili al centrosinistra (in primo luogo Alessandro De Angelis su Huffington ma anche Mario Lavia su linkiesta) si interrogano stupiti circa l’assenza dalla scena di Elly Schlein.

In Italia sta accadendo quasi tutto quello che poteva accadere, ma la leader dell’opposizione sembra afona; o per meglio dire, pare scomparsa dall’epicentro dei problemi, salvo un intervento a Piazza Pulita.

Si tratti dell’alluvione in Emilia-Romagna con il caso Bonaccini – commissario sì o no – ovvero delle critiche europee all’Italia per un Pnrr in affanno, oppure ancora delle nomine alla Rai, il nuovo Pd – al di là di qualche giudizio spot – dimostra uno strano modo di concepire il suo ruolo di opposizione.

È mancata anche la capacità di inquadrare gli incidenti al Salone del Libro di Torino: bene aver speso qualche parola a favore del direttore Nicola Lagioia, molto meno bene avere giustificato l’intolleranza verso la ministra Roccella.

E non sono solo gli osservatori ad aver colto queste incongruenze. Anche all’interno del partito si avvertono perplessità varie e si diffondono interrogativi senza risposta. Ci si attendeva un passo diverso dopo le prime settimane di doveroso apprendistato.

È comprensibile che la leader non voglia farsi rappresentare da altri volti, a parte raramente la vice-presidente Chiara Gribaudo. Ed è altrettanto logico che i vecchi dirigenti del Pd, sconfessati ed emarginati, anche quelli che l’avevano appoggiata nella scalata, siano poco inclini a darsi da fare a sostegno della neo segretaria.

Ma forse c’è di più. La linea politica radicalizzata, quasi una variante dei Cinque Stelle, ha bisogno di essere sostenuta con idee, fantasia e un particolare dinamismo. Altrimenti, una volta esaurita la novità, si disperde in un manierismo fumoso, diventa una mera collezione di slogan per le tv e i giornali. Che a loro volta finiscono per stancarsi.

Finora Elly Schlein ha tenuto una posizione abbastanza netta, benché forse poco convinta, solo sull’Ucraina. E c’è da immaginare che su questo punto cruciale non sia mancato il consiglio del Quirinale. Per il resto non c’è granché, soprattutto a pochi giorni dal secondo turno delle amministrative.

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Il pericolo che la Cina si chiuda e non capisca l’Occidente

venerdì, Maggio 26th, 2023

di Federico Rampini

Perché Xi sembra incapace di interpretare i meccanismi delle nostre democrazie, al punto da ridurle a orrende caricature? L’Europa spera che le prove di disgelo funzionino, ma farà bene a prepararsi una polizza assicurativa

Sono in corso le prove di un disgelo tra America e Cina. L’Europa fa il tifo perché avvenga. Le delegazioni delle due superpotenze si sono incontrate per parlare di commercio, per la prima volta da quando l’incidente del pallone-spia aveva bloccato i contatti ad alto livello. Gli strateghi della politica estera di Washington e Pechino si sono parlati per otto ore a Vienna. Alcuni «falchi» della politica estera americana sono andati in pensione. Alla Casa Bianca c’è chi pensa che anche nella squadra di Xi Jinping stia prevalendo una corrente più morbida. Joe Biden capisce che una distensione con la Repubblica Popolare sarebbe un dono gradito agli europei, Germania e Francia in testa. Dopotutto, Bernard Arnault è diventato l’uomo più ricco del mondo perché le vendite di Lvmh sono esplose nella Cina post-Covid.

C’è il rischio che le speranze vadano deluse. I prudenti approcci tra americani e cinesi vanno confrontati con la spettacolare luna di miele fra Pechino e Mosca, con delegazioni ai massimi livelli che firmano accordi in ogni campo. Xi Jinping ha questa visione sull’Ucraina: può darsi che Putin abbia sbagliato tutto, può darsi che la Cina paghi dei prezzi per averlo appoggiato, però adesso Pechino deve impedire che la Russia venga sconfitta. Una disfatta militare di Putin renderebbe più credibile il dispositivo delle alleanze americane nel Pacifico, sarebbe un colpo alla Cina nella sua sfera geopolitica primordiale. Xi ha una teoria dell’accerchiamento che riecheggia quella di Putin: la «trappola ucraina» ordita dagli americani contro i russi sarebbe pronta a replicarsi in Asia contro i cinesi. L’idea di un Occidente dominato dall’America che trama per schiacciare la Repubblica Popolare è ormai dominante sui media del regime comunista. Noi occidentali, ancora intrisi di colonialismo e imperialismo, vorremmo ricacciare la Cina là dov’era a metà dell’Ottocento, quando ebbe inizio con le guerre dell’Oppio il suo «secolo delle umiliazioni». Se qualche lettore si sente un po’ stretto in questa descrizione della mentalità occidentale nel 2023, è in buona compagnia.

Noi dobbiamo superare una visione del mondo ancora troppo occidento-centrica, abbiamo lacune di conoscenza sulla Cina, e dobbiamo fare spazio alle sue aspirazioni legittime. Però è attuale una domanda inversa: quand’è che i dirigenti comunisti di Pechino hanno smesso di capirci? Perché Xi sembra incapace di interpretare i meccanismi delle nostre democrazie, al punto da ridurle a orrende caricature? La Cina di Deng Xiaoping uscì dal trentennio tragico del maoismo studiando con attenzione i modelli altrui: Giappone, America, Europa. Oggi Xi indottrina un miliardo e quattrocento milioni di persone perché abbiano un complesso di superiorità che è nemico della curiosità.

Il caso più recente è il pallone-spia. Come può Xi immaginare che Biden faccia ingoiare all’opinione pubblica il diritto di sorvolo dei cieli americani da parte dell’intelligence cinese? Idem per le bugie di Stato sul Covid e l’incapacità di Pechino di capirne l’impatto su di noi. L’elenco delle incomprensioni è ben più lungo e antico.

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Con il nuovo Patto rischiamo grosso

giovedì, Maggio 25th, 2023

Veronica De Romanis

Ieri la Commissione europea ha pubblicato le Raccomandazioni che ogni primavera rivolge ai 27 Stati membri dell’Unione. Nessuna sorpresa per quanto riguarda il nostro Paese: le indicazioni sono sempre le stesse oramai da molti anni. Nello specifico, l’Europa ci chiede di diminuire il debito, aumentare la produttività e rafforzare le politiche attive per il lavoro. La vera novità è il posizionamento rispetto agli altri partner, in particolare di quelli appartenenti all’area dell’euro. L’Italia è l’unica economia che presenta contemporaneamente squilibri macroeconomici eccessivi (insieme alla Grecia) e un debito pubblico non in linea con il Patto di Stabilità e Crescita (insieme alla Francia e alla Finlandia). Come è noto, il Patto con le sue regole che limitano le finanze pubbliche nazionali è sospeso fino a dicembre. Non vi è, quindi – almeno per ora – il rischio di incorrere in un’infrazione. Tuttavia, è necessario prepararsi per quando i vincoli sui conti pubblici nazionali torneranno in vigore a partire dal gennaio 2024.

La Commissione ha presentato una riforma, attualmente in discussione.

La riforma colloca sotto stretta osservazione solo alcuni Paesi, ossia quelli con alto debito e con squilibri macroeconomici eccessivi. L’Italia è la sola in questa situazione, lo si è detto. Ma non è finita qui. Secondo Bruxelles, il nostro debito è l’unico che costituisce un “sostanziale” rischio in termini di sostenibilità (“substantial fiscal sustainability challenge”). In base alla riforma della Commissione, per chi presenta questo grado di rischio e viola le nuove norme, la procedura per disavanzo eccessivo scatta in maniera automatica. Per gli altri, invece, si apre una trattativa in cui i governi possono far valere i “fattori rilevanti”, ossia quegli elementi che impattano sul debito e sul deficit. Tra questi ci sarebbe la Francia. In base alle Raccomandazioni di ieri, il debito francese presenta un rischio di sostenibilità fiscale, ma non “sostanziale” come nel caso italiano. Di conseguenza, non sarebbe sottoposto a una procedura automatica e avrebbe margini di flessibilità. L’Italia sarebbe messa sotto stretta sorveglianza non solo dal punto delle finanze pubbliche, ma anche da quello delle scelte di politica economica. Nel Patto riformato, Bruxelles chiede, infatti, che chi presenta squilibri macroeconomici eccessivi li corregga. Nello specifico, il governo di Roma dovrà includere nel piano da presentare in Europa che – non a caso – viene definito “piano fiscale/strutturale” non solo aggiustamenti fiscali (leggi tagli) ma anche riforme e investimenti. In questo modo, i vincoli del Patto di Stabilità vengono estesi anche alle politiche economiche.

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Le lezioni del voto in Grecia

mercoledì, Maggio 24th, 2023

di Paolo Mieli

Chi perde non può governare: sul ponte di comando si dovrebbe salire esclusivamente dopo aver conquistato la maggioranza nelle urne

La novità è che, dopo le elezioni di domenica scorsa in cui il centrodestra ha vinto con oltre il 40 per cento dei voti, tra la fine di giugno e gli inizi di luglio la Grecia tornerà alle urne. Si voterà, stavolta, con un sistema elettorale diverso che assegnerà al partito con più suffragi — presumibilmente Nea Demokratia di Kyriakos Mitsotakis — un consistente premio: fino a 50 seggi (su 300). Le sinistre contavano su risultati diversi: i sondaggi prevedevano per Syriza di Alexis Tsipras poco meno del 30 per cento, invece l’ex primo ministro ha ottenuto appena più del 20. I socialisti sono cresciuti giusto quel po’ che è servito a mandarli a dormire felici. Ma la sera stessa di domenica si è capito che con quei risultati era impossibile dar vita a maggioranze stabili. Così a decidere chi governerà la Grecia per i prossimi anni, non sarà il Parlamento, ma l’elettorato.

In un certo senso la Grecia affronta problemi simili a quelli di cui ci occupiamo da circa trent’anni qui in Italia. Presidenzialismo, semipresidenzialismo, sistema maggioritario, proporzionale puro o con correzioni le più svariate, si torna sempre lì: chi deve scegliere il governo, il Parlamento coadiuvato dal capo dello Stato o gli elettori? La sinistra — in Grecia, come in Italia — vuole che siano le Camere, eventualmente con una generica indicazione dell’elettorato. Così, del resto è scritto nella Costituzione. Pur se la Costituzione su alcuni punti specifici può essere cambiata e la stessa sinistra non si è tirata indietro quando ha ritenuto che fosse il caso di farlo.

La realtà è però che in Grecia come in Italia il centrosinistra non si fida della propria capacità di dar vita ad una coalizione che raccolga un voto in più di quelli che prendono gli avversari. Anzi, non sa neanche costruirla una coalizione. Il centrodestra così come è stato fondato nei primi anni Novanta da Silvio Berlusconi ha invece fiducia nelle proprie capacità. Ha dimostrato di essere capace di saperla edificare quella coalizione. Anche adesso che, scomparse le arti magiche del fondatore, sono entrati in campo i successori. La sinistra — a dire il vero — accettò il principio del maggioritario venticinque anni fa quando al timone c’era Romano Prodi (e con lui Arturo Parisi). Poi sfasciò tutto e nell’ultimo decennio ha contato solo sul gioco delle alleanze in Aula, quello per cui l’importante non è vincere le elezioni bensì trovare in Parlamento partiti o gruppi di transfughi disponibili a dar vita ad un governo. Li si trova sempre. Il punto adesso è: dopo qualche diniego che si addice a tempi in cui questo tipo di prospettiva non è neanche all’orizzonte, la sinistra immagina, in una fase successiva, di dedicarsi alla costruzione di nuove «unità nazionali»?

Sembra di no. Come fare allora a darci strumenti che consentano di resistere alla tentazione tornare allo scorso decennio? Probabilmente è di questo che si parla quando viene messo sul tavolo l’incartamento del presidenzialismo. Impone qualche riflessione un uomo saggio qual è l’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky, il quale ha dichiarato (a la Repubblica) che «il presidenzialismo fondato sulla spaccatura del corpo elettorale in due fronti avversi sembra fatto apposta per esaltare l’aspetto distruttivo».

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Perché rendere la gestazione per altri reato “universale”?

mercoledì, Maggio 24th, 2023

Vladimiro Zagrebelsky

Iniziano il corso parlamentare alcune proposte di legge che vogliono rendere “universale” il reato, già esistente, del ricorso alla surrogazione di maternità. Così viene chiamata nella legge n. 40 del 2004 una pratica altrimenti e più propriamente detta della gestazione per altri o, se se ne vuol sottolineare il profilo negativo, dell’utero in affitto. Essa prevede che una donna accetti di condurre una gravidanza e partorire un bambino non per sé, ma per un’altra donna o per una coppia etero o omosessuale, con l’impegno sottoscritto in un contratto di rinunciare poi al bambino che ne nascerà, in favore dei committenti. Tale pratica è vietata e sanzionata penalmente non solo in Italia, ma anche in altri Stati europei, per tanti versi simili all’Italia, come Austria, Germania, Francia, Spagna, Svizzera. In alcuni altri Stati è consentita solo se gratuita, in altri anche se retribuita.

Il reato esiste in Italia da anni e non risultano proposte di eliminarlo, rendendo lecito ciò che è vietato. È diffuso infatti il giudizio negativo. In diverse sentenze la Corte costituzionale – che pur in altra occasione aveva definito “incoercibile” la volontà di avere un figlio – l’ha stigmatizzata, dicendo che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, con una inaccettabile mercificazione del corpo della donna e con sfruttamento della vulnerabilità di donne in situazioni sociali o economiche disagiate. Anche il Parlamento europeo (Risoluzione del 17 dicembre 2015) l’ha condannata in quanto compromette la dignità della donna, il cui corpo e le cui funzioni riproduttive sono usati come merce. La discussione sulla introduzione del divieto penale di gestazione surrogata anche quando essa sia compiuta all’estero, in uno Stato che l’ammette, è diversa da quella sulla sua illiceità, che non è in discussione, nemmeno per introdurre differenziate valutazioni secondo la varietà dei casi. Che non sono solo quelli della coppia omosessuale maschile, ma anche, ad esempio, quelli in cui in una coppia eterosessuale la donna sia o sia divenuta impossibilitata a condurre una gravidanza, che invece, con i gameti della coppia, viene condotta da altra donna. Né si apre una discussione sul trattamento da riservare a ipotesi, rare ma esistenti, di gestazioni caratterizzate da intenti di pura solidarietà, non lesive della dignità della donna, né riducibili alla logica di uno scambio mercantile. La discussione, senza distinzioni, riguarda ora invece la estensione della punibilità a tutti i casi anche quando si siano svolti all’estero. Si tratta di penalmente sanzionare gli adulti, che hanno utilizzato la disponibilità di una donna a gestire per loro una gravidanza, aggirando il divieto in Italia con il praticare all’estero ciò che qui è vietato. Ma vi è collegata la questione centrale del trattamento da riservare al bambino che ne è nato: i bambini già nati all’estero prima della nuova legge e quelli che, qualunque sia la nuova punibilità, nasceranno ancora. Poiché a quei bambini non si può dire che non avrebbero dovuto nascere, né si può negare il diritto a vedersi riconosciuto e mantenuto uno stato di filiazione quanto più rispondente alle sue esigenze di vita e alla realtà di instauratisi rapporti di famiglia. Con conseguenze legali, come il diritto al cognome e alla cittadinanza. L’effetto della punibilità del fatto anche se commesso all’estero porta con sé l’impedimento di chiedere la trascrizione nei registri dello stato civile del certificato di nascita rilasciato all’estero (generalmente alla coppia omosessuale maschile). Si tratterebbe infatti di una autodenuncia per il reato previsto dalla legge italiana. Ed è proprio questo che si vuole ottenere.

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