Archive for the ‘Editoriali – Opinioni’ Category

Ma la mia Riccione saprà rialzarsi in piedi

giovedì, Maggio 18th, 2023

LINUS

Una cosa come questa non era nemmeno pensabile. Frequento Riccione, ci vivo, ho casa e famiglia da più di trent’anni e ho visto nevicate, piccole e grandi tempeste e secolari pini marittimi sradicati dal vento, ma una cosa così chi se la poteva immaginare. È straripato e ha seminato distruzione un piccolo fiume del quale nemmeno i riccionesi quasi ricordavano l’esistenza. In questo momento penso alla Riccione degli amici e dei parenti e non alla cittadina che viviamo e vediamo in estate, penso agli amici, alle tante persone che conosco da anni e stanno magari soffrendo per un disastro impensabile. Siamo costantemente in contatto con i genitori di mia moglie, che per fortuna sono anziani ma battaglieri… abbiamo una rete di persone che ci stanno dando una mano ad aiutarli…

L’acqua adesso sembra finita, la tempesta è passata, il fiume si è ritirato e anche il mare dovrebbe essere tornato un po’ indietro… lo spero, perché quella della erosione della spiaggia era già da tempo un’emergenza e nelle immagini di ieri sembrava che il mare se la fosse portata via completamente…

Ma sono fiducioso, i romagnoli e gli emiliani sono gente molto concreta e reattiva e sapranno ripartire come e meglio di prima.

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L’effetto delle leader sulle Europee

mercoledì, Maggio 17th, 2023

Marcello Sorgi

All’indomani dei risultati del primo turno di amministrative che ha coinvolto un italiano su dieci (con una partecipazione, tuttavia, solo al 59 per cento), il tradizionale studio dei flussi elettorali dell’Istituto Cattaneo conferma che per la prima volta si sono registrati un «effetto Meloni» contrapposto a un «effetto Schlein». Più prevedibile il primo, dato il forte traino esercitato dal governo guidato dalla leader di Fratelli d’Italia e nato otto mesi fa. Atteso, ma non scontato il secondo, sebbene la nuova segretaria abbia riguadagnato solo una parte di ciò che il Pd aveva perso nei mesi seguiti alla sconfitta elettorale del 25 settembre 2022, quando il partito, dal 22 per cento registrato nei sondaggi fino all’agosto dello stesso anno, era arretrato al 19, e poi via via al 15-16 nei lunghi mesi che avevano preceduto le primarie. Schlein adesso oscilla tra il 20 e il 21, ha quindi ancora un punto da recuperare.

A Brescia, la vittoria-simbolo di questa tornata, la crescita è avvenuta grazie a elettori che dai Cinque Stelle si sono spostati verso il Pd. Lo stesso, ma in misura più contenuta, è accaduto ad Ancona, la città dove il centrodestra è uscito in vantaggio dal primo turno, ma il centrosinistra potrebbe recuperare grazie al possibile aiuto degli elettori del candidato battuto di Conte. A Pisa, città tradizionalmente di sinistra conquistata dal centrodestra nel 2018, se l’ «effetto Schlein» non c’è stato è perché gli elettori pentastellati e di Azione-Iv non si sono spostati: e sarebbe bastato, com’è accaduto altrove, che i sostenitori di Calenda e Renzi passassero con il centrodestra, per portarlo alla vittoria.

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I partiti al di là dei simboli

mercoledì, Maggio 17th, 2023

di Venanzio Postiglione

Il fascismo, la Rai, le nomine. Le nomine, la Rai, il fascismo. Cambiando l’ordine degli addendi, la somma non cambia: una frase che fa sorridere di nostalgia, perché ha il sapore delle scuole elementari. Con quei numeri che giravano sulla lavagna e il risultato che era lo stesso. È una foto dell’Italia, didascalia «maggio 2023». L’Emilia-Romagna va sott’acqua, case evacuate, treni fermi, famiglie sui tetti: ma se il marziano di Ennio Flaiano atterrasse di nuovo a Roma, troverebbe i temi di sempre. Il solito campo di gioco.

È la liturgia del conflitto prevedibile. Il simbolo che vale più dei contenuti. L’esame di anti-fascismo, perché c’è ogni volta una parola che manca (e un po’ è vero), ma chissà quando arriverà l’esame di futuro. Lo spoils system all’italiana, inventato dalla sinistra e realizzato adesso dalla destra: qui e subito, come non ci fosse un domani. L’occupazione della Rai, che è nata nella notte dei tempi, ha accecato tutti e non serve neppure al consenso: nessuno ha visto arrivare Bossi, il Cavaliere, i Cinquestelle. Siamo a un passo da un’altra rivoluzione storica dopo Internet, cioè l’intelligenza artificiale, il mondo vive da anni sugli smartphone, ma qui litighiamo sui tg regionali, prenditi Aosta e lasciami Campobasso.

Il voto nelle città di domenica e lunedì (due giorni, contro l’astensionismo, che infatti aumenta) non ha intaccato gli equilibri. Otto mesi dopo, la luna di miele con Giorgia Meloni e il governo è ancora in corso, più i centri sono grandi e più il Pd resiste (vedi Brescia), i Cinquestelle recuperano a livello nazionale e quasi si estinguono a livello locale. Il centrodestra è avanti, ma ci sarà il ballottaggio e la partita resta aperta: il sistema elettorale per i sindaci garantisce l’alternanza e la governabilità da 30 anni esatti. L’ipotesi di cambiarlo, diciamolo, attiene più al circo equestre che alle scienze politiche.

Neanche il secondo turno delle città sarà un terremoto. Le elezioni europee sono lontane, quelle politiche appaiono lontanissime. Il tempo delle bandiere è finito: la destra è al potere, è già al potere, la sua nuova identità si costruirà con il governo reale, i fatti, le scelte, i provvedimenti, non con la continua affermazione di sé. O addirittura con il senso di rivalsa. E anche la cosiddetta egemonia culturale si modella, se si è capaci, con le idee e lo slancio, non con le poltrone. Vale lo stesso per la sinistra. La polemica colpo su colpo, la retorica del «no sempre», l’occupazione degli incarichi sbagliata solo se la fanno gli altri, il richiamo continuo agli anni Venti del Novecento quando siamo negli anni Venti del Duemila, ecco, tutto questo dà l’idea di posizioni pregiudiziali. Giuste o sbagliate che siano. La condanna per un leader è la stessa dai tempi dell’antica Atene: le persone sanno cosa dirà prima che parli. Al punto che i sofisti, per rompere l’incantesimo, si divertivano con i discorsi contrapposti, sostenendo una tesi e poi quella contraria.

Il passaggio dai simboli ai contenuti è il punto chiave. Francesco Verderami, ieri, l’ha scritto chiaro e dritto: «Davanti a una confusa gestione del Paese il governo potrebbe essere punito dagli elettori, sarebbero loro a rappresentare l’alternativa». E la storia recente è anche esplicita. La definizione fulminante inventata da Pindaro per gli uomini, «creature di un sol giorno», sembra il titolo di molte carriere politiche di casa nostra. Piantare bandierine o governare bene? Nel romanzo epico «Il Signore degli Anelli», amato e citato dalla premier, Frodo trova sempre la strada giusta e, soprattutto, resiste ogni volta al richiamo della forza oscura e illimitata. Perché è esattamente un’allegoria del potere. Per centinaia e centinaia di pagine: eroico il protagonista e forse anche il lettore.

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Turchia, l’identità batte la ragione

martedì, Maggio 16th, 2023

Nathalie Tocci

Sulle elezioni in Turchia non aveva capito niente nessuno, sottoscritta inclusa. Non avevano capito niente gli europei che consideravano l’esito delle urne scontato, con una vittoria del presidente Recep Tayyıp Erdoğan alle presidenziali e del suo Partito di Giustizia e Sviluppo (Akp) alle legislative. La Turchia viene spesso assimilata a Erdoğan, il cui crescente autoritarismo è noto ben al di là dei confini della repubblica. Quindi se Erdoğan è un autocrate, o addirittura un dittatore come viene talvolta definito in Italia, allora la Turchia è un’autocrazia, se non una dittatura. Chi la pensava così sarà stato sorpreso nel vedere un’affluenza di quasi l’89% in un Paese che sfiora i 90 milioni di abitanti: sono numeri da far invidia nera alla nostra democrazia, stanca e disillusa, e che nella tornata delle amministrative che si è chiusa ieri ha visto andare alle urne meno di sei elettori su dieci. Saranno stati ammirati dalla mobilitazione degli osservatori ai seggi, per assicurare che il processo elettorale filasse liscio e senza brogli. Saranno stati stupiti dal risultato, con Erdoğan che si è arrestato al 49,5% ed il suo sfidante principale Kemal Kılıçdaroğlu al 44,8%, aprendo la via al ballottaggio – il primo da quando il Paese ha adottato un sistema presidenziale – il 28 maggio. Difficile immaginare un secondo turno nella Russia di Vladimir Putin, nell’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi oppure nella Cina di Xi Jingping… No, la Turchia non è una dittatura. Lo stato di diritto, i diritti delle minoranze, le libertà di stampa e di associazione, e la separazione dei poteri – pilastri fondanti di una democrazia liberale – sono gravemente erosi in Turchia. Nel centenario della repubblica fondata da Mustafa Kemal, detto Atatürk, insomma, la Turchia non può essere definita una liberaldemocrazia. Eppure, proprio alla luce dello svuotamento del sistema democratico, soprattutto nell’ultimo decennio, è incredibile che la società turca manifesti un dinamismo e una resilienza democratica come quelle viste l’altro giorno.

Ma non avevano capito nulla (ed eccomi inclusa nella categoria) coloro che pensavano (e speravano, ammetto) in un esito diverso. Avevo immaginato che si sarebbe andati al ballottaggio, ma credevo sarebbe accaduto con rapporti di forza invertiti tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu. Non è la prima volta che i sondaggi sottostimano la performance di Erdoğan, ma questa volta sembrava diverso. L’opposizione è, per la prima volta, unita, con una coalizione di sei partiti di centrosinistra, liberali e conservatori, con l’appoggio esterno del partito filo-curdo. La rabbia e la disillusione nei confronti di Erdoğan, inoltre, non sono mai state così alte, alla luce dell’inflazione divampante (oggi poco sotto il 50%), della stagnazione economica e del terremoto che ha ucciso 50 mila persone, molte delle quali sotto le macerie di palazzi malcostruiti durante l’era Erdoğan e soccorsi troppo tardi dalle autorità sotto il suo controllo. Insomma, molti pensavano che tutto questo avrebbe pesato di più, superando lo spazio mediatico monopolizzato da Erdoğan o le sue misure populiste, dall’Internet gratis agli studenti agli aumenti degli stipendi dei funzionari pubblici. Sicuramente in pochi immaginavano la popolarità delle forze nazionaliste, dal partito Mhp, coalizzato con l’Akp di Erdoğan, al terzo candidato alle presidenziali Sinan Oğan, che ha ottenuto oltre il 5% dei voti e che ora potrebbe porsi in vista del ballottaggio come ago della bilancia. Il che rappresenta soprattutto un rompicapo per Kılıçdaroğlu e l’opposizione, che dovranno assicurarsi gli elettori di Oğan senza, al tempo stesso, alienarsi le preferenze dei curdi. La Turchia è una società democratica ma anche terribilmente polarizzata, in cui le guerre culturali e identitarie pesano più della razionalità materiale.

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L’Europa, le regole fiscali e la sovranità nazionale

martedì, Maggio 16th, 2023

di Alberto Mingardi

Chi contesta le norme Ue spesso punta ad aumentare la spesa pubblica. Nonostante la Costituzione

Nella nostra Costituzione c’è l’articolo 81. Nella formulazione originaria, prevedeva che per ogni nuova spesa il legislatore indicasse chiaramente come l’avrebbe finanziata. Dopo la riforma del 2011, prescrive l’equilibrio di bilancio; non anno per anno, ma nel corso del ciclo economico: in sostanza mettere fieno in cascina nella fase espansiva per poter spendere in quella recessiva. Diciamo che non è il più fortunato degli articoli della Carta. Sostanzialmente è lettera morta. Però ne fa parte e se la nazione che siamo si definisce attraverso quel documento, il pareggio di bilancio fa parte delle regole che ci siamo dati.

Invece in queste settimane la discussione sulla revisione del patto di Stabilità è tutta un marcare il territorio. Tornano gli argomenti che nel 2018 avevano riempito la campagna elettorale più antieuropeista della storia. La moneta unica sarebbe una camicia di forza (se non proprio un complotto ordito da francesi e tedeschi ai nostri danni), le regole fiscali una minaccia per la sovranità nazionale.

Da allora il Covid 19 e la risposta congiunta data dai Paesi Ue hanno stemperato certi toni. Ma i trasferimenti, che poi sono diventati il Pnrr, rispondono alla logica di un momento eccezionale, quello della pandemia con tutte le sue conseguenze, e non possono diventare la normalità in una costruzione sovranazionale eterogenea come l’Ue e l’area euro. Se essa diventasse davvero una «unione di trasferimenti» (come l’Italia, dove ogni anno imposte pagate al Nord finanziano spesa nel Mezzogiorno), sarebbe destinata a deflagrare fra i conflitti: Nord e Sud, frugali e prodighi, litigherebbero ben di più di quanto non abbiano fatto finora.

Le regole fiscali sono inevitabili per la buona amministrazione del club europeo, perché la moneta unica ci obbliga a un minimo di disciplina condivisa. Si tratta di strumenti imperfetti: sono destinate a essere ancorate a numeri «stupidi» come diceva Romano Prodi, nel senso di arbitrari. Ma lo schema di cui si parla è più flessibile che in passato, soprattutto rispetto all’obiettivo di riduzione del debito, e prevede un target di spesa pubblica per i diversi Paesi. Un «numero» più facile da comunicare anche al grande pubblico e che definisce quanta parte dell’attività economica di un Paese è controllata e gestita dallo Stato.

In Italia le regole fiscali sono contestate da più parti perché minerebbero la sovranità nazionale. Ma non fa parte della sovranità nazionale l’articolo 81? E se i nostri governanti e parlamentari, nel corso degli anni, si sono dimostrati allegramente indifferenti rispetto al contenuto della Carta, è una minaccia che in qualche modo l’Europa ci aiuti a darvi attuazione? O forse la nazione, che non coincide col suo ceto politico, ha bisogno di un gatto che prenda i topi, indipendentemente dal passaporto?

Il sospetto è che dietro tante rivendicazioni della nostra sovranità nazionale stia solo una cosa: un pregiudizio favorevole alla spesa pubblica. Anche a prescindere da qualsiasi valutazione ponderata dei suoi effetti attesi.

A tutti piace annunciare, per esempio, un aumento dell’occupazione in ragione della maggiore spesa. Lo si fece per Quota 100. L’argomento, caro alla destra, era che mandando prima in pensione le persone si sarebbe fatto posto per nuovi lavoratori. A ogni nuovo pensionato, dovevano corrispondere tre ingressi nel mondo del lavoro. Peccato che se aumentano i pensionati attuali si fanno anche più gravosi — direttamente o indirettamente — i contributi, aumenta il costo del lavoro, diminuisce pertanto l’incentivo ad assumere.

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Aperture e ostilità: quei giochi europei sull’Italia

lunedì, Maggio 15th, 2023

di Maurizio Ferrera

Lo scorso ottobre l’arrivo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi fu visto come un piccolo terremoto in Europa. Gli elettori di uno dei Paesi fondatori della Ue avevano scelto un leader dichiaratamente sovranista. Una novità che rischiava di compromettere i delicati equilibri fra Paesi, gruppi politici e forse lo stesso processo di integrazione.

In realtà, a Bruxelles il cambio di governo a Roma ha generato per ora conseguenze limitate. Si sono tuttavia polarizzate le posizioni nei confronti dell’Italia all’interno della cosiddetta «sfera intermedia» della politica europea, quella in cui i leader dei vari Paesi si confrontano tra loro negli incontri bilaterali oppure si parlano a distanza attraverso i media. È all’interno di questa sfera che si forgiano le alleanze in vista delle decisioni Ue. Le dichiarazioni pubbliche servono inoltre a mandare messaggi ai propri elettori.

I primi leader a dare il benvenuto a Giorgia Meloni sono stati ovviamente Orbán e Morawiecki, i quali hanno subito rimarcato la comune visione sovranista dell’ Europa. Quando Meloni è andata in visita a Varsavia, il premier Morawiecki l’ha portata al «Tolkien café», aperto per celebrare un testo cult della destra europea, «Il Signore degli Anelli». Alla fine della chiacchierata, Georgia e Mateusz hanno dichiarato: «Insieme sconfiggeremo Mordor». Bruxelles e la burocrazia europea venivano paragonati al regno oscuro del tiranno Sauron.

I simboli di Tolkien fanno parte dell’immaginario sovranista, richiamarli è un modo per attirare l’attenzione degli elettori più giovani. Dietro alla simpatia polacca e ungherese per Meloni vi sono anche interessi molto concreti. Budapest e Varsavia sperano nell’appoggio di un grande Paese come l’Italia per costruire minoranze di blocco nel Consiglio su temi delicati come lo Stato di diritto o l’ambiente. La sorprendente crescita dei Democratici Svedesi, altro partito di destra radicale, potrebbe facilitare aggregazioni di questo tipo. Meloni ha tuttavia deluso finora tali aspettative.

I leader europeisti si rapportano con il governo italiano in modo speculare ai sovranisti. Da un lato, condannano pubblicamente la visione dell’Europa come insieme di patrie nazionali e l’ostilità contro i migranti da parte di Meloni. Dall’altro lato, non possono permettersi di tirare troppo la corda: anche per loro è importante che l’Italia resti allineata con la tradizionale agenda europeista.

Delegittimando Meloni, gli europeisti sperano di togliere spazio alla destra radicale interna come Vox in Spagna e Le Pen e Zemmour in Francia. Alcuni esponenti del governo spagnolo (ad esempio la influente ministra del Lavoro, che proviene da Podemos) si sono lasciati andare a dichiarazioni molto critiche. I più aggressivi sono stati i leader di governo francesi: la premier Borne pronunciò già in ottobre la frase infelice «vigileremo sul rispetto dei diritti», mentre il ministro Darmarin ha recentemente accusato Meloni di essere un’incapace sulla questione dei migranti, aprendo una crisi diplomatica non ancora completamente sanata.

Nelle conversazioni private e negli incontri bilaterali, il quadro cambia. Nella sua visita a Roma, Sánchez ha cercato di trovare un terreno comune sui dossier europei più importanti. E lo stesso Macron ha evitato che le tensioni fra Roma e Parigi degenerassero in un conflitto politico dannoso anche per la Francia.

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Riforma costituzionale, un confronto senza ipocrisie

domenica, Maggio 14th, 2023

di Angelo Panebianco

Riusciranno a sorprenderci o sarà un deprimente déjà vu? Come era prevedibile, il confronto sul tema della riforma costituzionale è partito con il piede sbagliato. Proponendo «soluzioni»(presidenzialismo, premierato, elezione diretta del premier, eccetera), senza spiegare — perché sarebbe politicamente troppo costoso, come vedremo — quale sia il problema che ci si propone di risolvere. Se si continua così, finirà con una divisione acuta fra quelli che raccontano all’opinione pubblica che il presidenzialismo sia sinonimo di decisionismo (e non lo è, anche se è dai tempi di Bettino Craxi che l’equivoco viene alimentato) e quelli che si travestiranno da partigiani, cantando Bella ciao, e marciando in difesa della «costituzione nata dalla resistenza». Nessuno ha la sfera di cristallo ma, a occhio e croce, le probabilità che per questa strada si possano fare serie riforme costituzionali sembrano più o meno le stesse che ha il ponte sullo stretto di Messina di essere prima o poi finito e inaugurato: vicine allo zero. Che le forze politiche usino il tema costituzionale per farsi propaganda, per blandire i vari settori di un’opinione pubblica al tempo stesso divisa e disorientata, non deve stupire né scandalizzare: è la democrazia, bellezza. Ma certo sarebbe un bel passo avanti se, anziché dalle formule, si partisse dalla identificazione del problema.

Servirebbe quanto meno a snidare i gruppi, le forze, che avrebbero più da perdere da una seria riforma costituzionale. Bisognerebbe uscire dalla genericità: dire che si tratta di mettere fine alla endemica instabilità dei governi (la grande piaga della Repubblica italiana fin dalla sua nascita) non è sufficiente. Occorre andare alla radice del problema. Solo in questo modo si possono individuare i rimedi più efficaci.

Per isolare il problema conviene partire da tre domande. La prima: come mai le uniche due rilevanti riforme costituzionali che la Repubblica abbia conosciuto, quella del titolo Quinto (sui rapporti fra centro e periferia) e la riduzione del numero dei parlamentari, non incontrarono forti resistenze? La risposta è che entrambe le riforme andavano nella direzione — che, per ragioni diverse, piaceva a tanti — dell’ulteriore indebolimento di un «centro politico» (governo e Parlamento), già di per sé tradizionalmente debole. La seconda domanda: perché quella tentata da Matteo Renzi e bocciata da un referendum popolare nel 2016 era una buona riforma? La risposta è che, anche se non prevedeva elezioni dirette del presidente o del premier, proponendo di superare sia il bicameralismo simmetrico (due camere con uguali poteri) sia il titolo Quinto, avrebbe rafforzato, indirettamente ma sicuramente, la forza del governo centrale. La terza domanda: perché quel progetto suscitò l’opposizione di un gran numero di gruppi fra loro eterogenei (qualcuno ricorderà, ad esempio, che Magistratura democratica prese pubblicamente posizione contro)? La risposta è che in Italia ci sono molti gruppi che temono un rafforzamento del governo perché ciò indebolirebbe i loro poteri di veto sulle politiche e sulle decisioni pubbliche.

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La battaglia per la libertà di chi muore anche per noi

domenica, Maggio 14th, 2023

MASSIMO GIANNINI

Un ramoscello d’ulivo scolpito è il vero simbolo che resta, alla fine del veloce sabato romano di Volodymyr Zelensky. È il regalo che Francesco fa al presidente ucraino, ed è il dono che solo un Papa argentino può consegnare a un mondo perso a giocare a dadi con l’Apocalisse. Se la pace ha davvero una chance, è in buona parte nelle mani del Vescovo di Roma. L’unico che non ha mai smesso di evocarla, mentre i cosiddetti “Grandi del Pianeta” parlavano d’altro, in questi quindici mesi d’inferno tra Bucha e Bakhmut. Forse l’unico che potrebbe essere ascoltato in Russia, perché capo di una “superpotenza post-occidentale”, palesemente poco affezionata all’Europa ma certamente dotata di visione strategica su tutti i dossier dei due emisferi, dall’Africa al Sud America. Ma anche l’unico che per ora Zelensky non può e non vuole ascoltare. Lo dice chiaro, dopo gli incontri al Quirinale, a Palazzo Chigi e in Vaticano: c’è solo una pace possibile, ed è quella che decideremo noi, vittime incolpevoli dell’aggressione russa.

Così quel ramoscello d’ulivo sembra già inaridito, perché per ora non c’è una terra in cui si possa piantare. Quella terra non è l’Ucraina, o almeno non lo è adesso, perché come annuncia il suo leader “noi prepareremo il nostro piano di pace”, ma intanto “combatteremo e fino a quando non saremo arrivati al confine con la Crimea”, e allora Putin capirà che per lui è finita, perché avrà perso il sostegno interno dei suoi apparati e della sua gente. La guerra continuerà “fino ad allora”, anche se nessuno può sapere quando arriverà questo “allora”. Nel frattempo, partirà l’annunciata controffensiva di Kiev, perché con il macellaio di Mosca non c’è trattativa possibile.

“Di che dobbiamo parlare, con uno che massacra i nostri figli?”, chiede il presidente ucraino, che invoca solo “una pace giusta”, la sua, e non si accontenta “dei territori”, ma chiede anche giustizia, cioè un tribunale internazionale che giudichi e condanni i crimini di Putin.

Suscita un’emozione forte, sentir parlare questo eroe per caso che nel giro di pochi anni, da attore comico televisivo, si è ritrovato a gestire il governo della sua nazione e poi a guidare il suo popolo in un conflitto contro un nemico immensamente più feroce e potente di lui. E fa effetto sentirgli dire “noi combattiamo per i valori che sono anche i vostri”, e sentirgli ripetere “siamo grati all’Italia perché, come voi, stiamo dalla parte giusta, quella della verità” e per questo “noi vogliamo entrare nella Nato e nell’Ue”. Ma la geopolitica purtroppo non si nutre di emozioni, per dirla con Lucio Caracciolo, ma obbliga a “entrare nelle scarpe di tutti i contendenti, anche di chi si avverte profondamente avverso, se davvero si intende cogliere i perché di una guerra”. Per questo, mentre Zelensky vola a Berlino seguendo le tappe del suo tour europeo, ci rendiamo conto di quanto lo scenario sia ancora fosco e tetro per chi invece spera in uno spiraglio di pace.

Il ramoscello d’ulivo che non trova terreno fertile lungo il corso del Dnepr, infatti, al momento non sembra trovarlo neanche Oltre Tevere. La mediazione papale ha azzardato i suoi primi passi, annunciata dallo stesso Bergoglio, convinto che parlare “con l’aggressore è necessario”, anche se a volte “il dialogo puzza”. Non sappiamo con esattezza cos’abbia risposto Zelensky al Santo Padre, né cosa si siano detti nel colloquio successivo con il segretario di Stato vaticano. Sappiamo però che il commander in chief ucraino ripete “non ci servono mediatori”, ma “piani d’azione” per una pace giusta. Può darsi che quei piani d’azione fossero scritti nella cartellina che monsignor Gallagher teneva sottobraccio, ma per ora non ne abbiamo contezza.

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Natura e tecnica: ostaggi al telefono con nessuno

sabato, Maggio 13th, 2023

di Ernesto Galli della Loggia

Anche se negli ultimi tempi le cose sono un po’ diverse (ma non poi così tanto), nei decenni che ci stanno alle spalle abbiamo assistito a mutamenti delle nostre società così continui e sostanziali, così benefici e duraturi — perlopiù frutto congiunto dell’affermazione della democrazia e delle conquiste tecnico-scientifiche — da lasciare nella mentalità di noi tutti un’impronta duratura e fortissima. Ne siamo usciti quelli che siamo oggi: degli invincibili progressisti. Progressisti per sempre.

Progressisti perché convinti, ad esempio, che la sola idea di opporsi al cambiamento, di voler conservare, siano idee sostanzialmente insensate (oltre che reazionarie, «di destra»). In particolare ci appare insensata l’idea che si possa rifiutare una qualunque cosa si presenti come il frutto del progresso tecno-scientifico: anche se oggi tale progresso sembra sul punto di prendere (o ha già preso) un orientamento significativamente diverso da quello precedente. Passando cioè da un progresso volto a rafforzare e ampliare le capacità umane (per dire: dalle capacità del sistema immunitario a quelle di calcolo) a un progresso in cui invece la tecno-scienza mira di fatto a sostituire tali capacità, a surrogarle (l’ingegneria genetica e l’intelligenza artificiale sono solo i due casi più clamorosi). Con il risultato, in prospettiva, di un vero e proprio superamento di quello che si potrebbe chiamare l’umano «naturale» a pro di un umano post-naturale, «artificiale».

Ma se le cose stanno così è evidente che anche il significato ideologico e quindi politico del concetto di conservare è destinato a mutare. In che senso secondo l’antico vocabolario può ancora considerarsi «conservatore» e «di destra», ad esempio, vietare ogni ricerca sulla clonazione umana o sulla sostituzione dell’utero con una macchina (due traguardi oggi tecnicamente non così lontani)? Non stiamo forse assistendo, insomma, all’inizio di un radicale mutamento di senso delle categorie che finora abbiamo forse troppo disinvoltamente adoperate nell’arena politica? In che senso avrebbe ancora a che fare con la «destra» tradizionalmente intesa un partito che ad esempio si proponesse di opporsi a quello che non saprei definire altrimenti che come uno «snaturamento della vita», della vita individuale come della vita sociale, promosso dal combinato disposto di progresso tecnico e interessi economici?

Faccio solo un esempio, all’apparenza di portata assai limitata ma che è indicativo di che cosa voglia dire il combinato suddetto nell’esistenza quotidiana di ciascuno di noi.

Per una fattura sbagliata, per protestare contro qualsiasi disservizio, per chiedere un’informazione, per un corriere che non ci ha trovato a casa, per prenotare ormai qualsiasi cosa, per parlare con qualsiasi ufficio, telefoniamo a un centralino. E qui comincia una vera odissea. Quello che ci risponde immediatamente è un disco. Il quale ci prospetta quattro o cinque opzioni da digitare, poi di seguito ancora una volta altre quattro o cinque, e magari la stessa cosa un’altra volta ancora. Se capiamo bene e siamo così bravi e pronti da scegliere sempre l’opzione giusta inizia regolarmente un’attesa snervante di tre, cinque, dieci minuti, un tempo potenzialmente illimitato durante il quale un disco ci ripete di continuo che «il primo operatore libero ecc. ecc…»; finché a un certo punto, novantanove volte su cento, con l’aria di farci un piacere saremo invitati «per non prolungare l’attesa…» ad andare sul sito «www.vattelapesca» e da lì proseguire il nostro viaggio verso il nulla.

Nel nostro quotidiano rapporto con il mondo è sempre più raro, insomma, che ci sia una voce umana che ci ascolti quando dobbiamo avanzare una protesta o una richiesta. Il progresso e insieme l’ovvio interesse economico di non ricorrere a degli operatori in carne ed ossa ci sottrae ogni possibile interlocutore reale. Al suo posto ci viene imposto di rivolgerci a una macchina, di parlare al suo silenzioso fruscio, di cancellare dalle parole che pronunciamo ogni tratto personale, emotivo, nostro: di «stare ai fatti!» e basta. Sapendo peraltro di non poterci attendere alcuna risposta, costretti ad affidare l’esito di quanto stiamo dicendo a una entità imperscrutabile che non possiamo sapere se, quando, e come, prenderà in esame quella che di fatto assomiglia più che altro a una disperata supplica.

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Le riforme tra paure e scetticismo

venerdì, Maggio 12th, 2023

di Aldo Cazzullo

Non dovremmo avere paura dell’elezione diretta del capo dello Stato. L’elezione diretta del premier invece non esiste in nessun Paese del mondo

Le riforme tra paure e scetticismo
Palazzo Chigi, sede della Presidenza del Consiglio (Ansa)

Quando Charles de Gaulle impose alla Francia la svolta presidenzialista, uscì un pamphlet che monopolizzò la discussione pubblica. Si intitolava «Le coup d’État permanent». L’autore considerava la riforma come un golpe ripetuto tutti i giorni, e giudicava i nuovi meccanismi costituzionali incompatibili con la democrazia. Il suo nome era François Mitterrand; e grazie a quella riforma e a quei meccanismi sarebbe stato presidente della Francia per quattordici anni.

E dopo di lui avrebbe governato per altri cinque anni un altro socialista, François Hollande. Che ha tenuto a battesimo come ministro dell’Economia l’attuale presidente, Emmanuel Macron. Basterebbe questo a ricordare che il presidenzialismo non è una «cosa di destra». Rappresenta un investimento sulla politica. Nel momento in cui la politica conta sempre meno, sovrastata dalla finanza internazionale, dai poteri globali, dai padroni della Rete, gli elettori fanno una scelta, con la possibilità di revocarla dopo cinque o anche solo quattro anni. I n America, a parte il Canada il cui capo di Stato è re Carlo, tutti i Paesi importanti sull’esempio degli Usa eleggono direttamente il loro presidente (nel dopoguerra, sette democratici da Truman a Biden e sette repubblicani da Eisenhower a Trump: anche il Nuovo Mondo invecchia). In Europa sono eletti dal popolo i capi di quasi tutti gli Stati che non hanno un re, dal Portogallo alla Polonia, dall’Irlanda all’Austria, dalla Slovenia alla Repubblica Ceca. A differenza che negli Usa, dove il presidente è il capo del governo, nei Paesi europei le due figure sono distinte; anche in Francia, che è lo Stato dove pure il presidente conta di più. Non è vero che un capo dello Stato eletto dal popolo debba per forza essere al vertice dell’esecutivo. Si può affidare ai cittadini la scelta di un presidente dotato di poteri di rappresentanza e di equilibrio, come in Italia. Non solo si può; lo si fa.

L’unica cosa che non esiste in nessun Paese del mondo è l’elezione diretta del premier. Ci hanno provato in Israele e hanno cambiato idea. Nel Regno Unito vince un partito, non un uomo; diventa premier il capo del partito che ha vinto; ma il premier può essere cambiato, in questa legislatura i conservatori ne hanno avuti tre. In Germania un gigante come Helmut Kohl divenne cancelliere non in seguito a un voto popolare ma in seguito a un voto parlamentare, per il cambio di alleanze dei liberali, che abbandonarono i socialdemocratici per unirsi a Cdu-Csu, insomma i democristiani.

Ovviamente noi italiani possiamo fare eccezione, e inventarci il premierato o il «sindaco d’Italia». Di sicuro non dovremmo avere paura dell’elezione diretta del capo dello Stato, senza per questo negare che i presidenti eletti per sette anni dal Parlamento abbiano lavorato bene, nel caso poi di Sergio Mattarella benissimo.

Diciamoci la verità: la discussione sulle riforme è segnata dallo scetticismo. Il retropensiero è che alla fine non se ne farà nulla. Troppa distanza tra destra e sinistra, interessi diversi anche all’interno delle coalizioni; e poi la mazzata finale del referendum confermativo, che ha già bruciato la riforma Berlusconi e quella Renzi.

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