di Venanzio Postiglione
Il
fascismo, la Rai, le nomine. Le nomine, la Rai, il fascismo. Cambiando
l’ordine degli addendi, la somma non cambia: una frase che fa sorridere
di nostalgia, perché ha il sapore delle scuole elementari. Con quei
numeri che giravano sulla lavagna e il risultato che era lo stesso. È
una foto dell’Italia, didascalia «maggio 2023». L’Emilia-Romagna va
sott’acqua, case evacuate, treni fermi, famiglie sui tetti: ma se il marziano di Ennio Flaiano atterrasse di nuovo a Roma, troverebbe i temi di sempre. Il solito campo di gioco.
È la liturgia del conflitto prevedibile.
Il simbolo che vale più dei contenuti. L’esame di anti-fascismo, perché
c’è ogni volta una parola che manca (e un po’ è vero), ma chissà quando
arriverà l’esame di futuro. Lo spoils system all’italiana, inventato
dalla sinistra e realizzato adesso dalla destra: qui e subito, come non
ci fosse un domani. L’occupazione della Rai, che è nata nella notte dei tempi, ha accecato tutti e non serve neppure al consenso:
nessuno ha visto arrivare Bossi, il Cavaliere, i Cinquestelle. Siamo a
un passo da un’altra rivoluzione storica dopo Internet, cioè
l’intelligenza artificiale, il mondo vive da anni sugli smartphone, ma
qui litighiamo sui tg regionali, prenditi Aosta e lasciami Campobasso.
Il voto nelle città di domenica e lunedì (due giorni, contro l’astensionismo, che infatti aumenta) non ha intaccato
gli equilibri. Otto mesi dopo, la luna di miele con Giorgia Meloni e il
governo è ancora in corso, più i centri sono grandi e più il Pd resiste
(vedi Brescia), i Cinquestelle recuperano a livello nazionale e quasi
si estinguono a livello locale. Il centrodestra è avanti, ma ci sarà il ballottaggio e la partita resta aperta:
il sistema elettorale per i sindaci garantisce l’alternanza e la
governabilità da 30 anni esatti. L’ipotesi di cambiarlo, diciamolo,
attiene più al circo equestre che alle scienze politiche.
Neanche il secondo turno delle città sarà un terremoto. Le elezioni europee sono lontane, quelle politiche appaiono lontanissime.
Il tempo delle bandiere è finito: la destra è al potere, è già al
potere, la sua nuova identità si costruirà con il governo reale, i
fatti, le scelte, i provvedimenti, non con la continua affermazione di
sé. O addirittura con il senso di rivalsa. E anche la cosiddetta
egemonia culturale si modella, se si è capaci, con le idee e lo slancio,
non con le poltrone. Vale lo stesso per la sinistra. La polemica colpo
su colpo, la retorica del «no sempre», l’occupazione degli incarichi
sbagliata solo se la fanno gli altri, il richiamo continuo agli anni
Venti del Novecento quando siamo negli anni Venti del Duemila, ecco,
tutto questo dà l’idea di posizioni pregiudiziali. Giuste o sbagliate
che siano. La condanna per un leader è la stessa dai tempi dell’antica Atene: le persone sanno cosa dirà prima che parli.
Al punto che i sofisti, per rompere l’incantesimo, si divertivano con i
discorsi contrapposti, sostenendo una tesi e poi quella contraria.
Il passaggio dai simboli ai contenuti è il punto chiave.
Francesco Verderami, ieri, l’ha scritto chiaro e dritto: «Davanti a una
confusa gestione del Paese il governo potrebbe essere punito dagli
elettori, sarebbero loro a rappresentare l’alternativa». E la storia
recente è anche esplicita. La
definizione fulminante inventata da Pindaro per gli uomini, «creature di
un sol giorno», sembra il titolo di molte carriere politiche di casa
nostra. Piantare bandierine o governare bene? Nel romanzo epico
«Il Signore degli Anelli», amato e citato dalla premier, Frodo trova
sempre la strada giusta e, soprattutto, resiste ogni volta al richiamo
della forza oscura e illimitata. Perché è esattamente un’allegoria del
potere. Per centinaia e centinaia di pagine: eroico il protagonista e
forse anche il lettore.