“Io ci sono con la forza e l’energia che conoscete, ci sono anche con le mie ferite. Ma ci sono perché ci siete voi”. Esplode la sala in un lungo applauso, sale sul palco il vicesegretario designato Maurizio Martina che non smette di ripetergli “bravo, bravo”: sorride e saluta Matteo Renzi, alla fine del suo discorso di un’ora, ufficialmente ricandidato alla guida del Partito democratico.
Lo fa dal Lingotto, luogo simbolo per i dem, perché da lì dieci anni fa Walter Veltroni si candidò primo segretario della neonata formazione: e viene spesso citata quell’occasione, ma per dire che “siamo il partito degli eredi, non dei reduci”. Un partito che non abbia “l’atteggiamento di chi sa solo fare polemica e distruggere l’avversario”, che sappia dare “un progetto politico per i prossimi dieci anni” unendolo alla “speranza” e non alla paura, perché “se la paura diventa il collante dell’altra parte dello schieramento noi siamo finiti”, è la “loro arma elettorale”. E sì, anche un partito più collegiale – riconosce una critica che gli è spesso stata fatta, di eccessivo accentramento – a partire dal ticket col ministro di “sinistra” Martina.
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