Scoppia la polemica in sala stampa. Dopo la chiusura di Sanremo, Ultimo si è presentato in conferenza stampa. Quando ha fatto i complimenti al vincitore Mahmood,
chiamandolo “ragazzo”, si è beccato i rimbrotti dei giornalisti e ha
tuonato: “Voi giornalisti avete questa settimana per sentirvi
importanti. E rompete il ca**o”. E ha aggiunto: “Io non ho mai avuto la
pretesa di venire qui e vincere, a differenza di quello che avete detto
voi: tirandomela. Io mi sono grattato, ma non è servita a niente. La mia
vittoria e quella di tanti altri artisti è sicuramente dopo il
festival. La mia vittoria sono i live, la gente che mi vuole, che si
riconosce in quello che scrivo. C’avete sempre qualcosa da dire, ma non
provo rancore”.
Grazie
presidente Mattarella. Da queste pagine nei giorni scorsi avevamo
auspicato un suo intervento che ribadisse l’inviolabilità della Giornata
del Ricordo, minacciata dall’indifferenza di molte istituzioni, dal
disinteresse di una parte della cultura e dai tentativi di riproporre
tesi negazioniste o riduzioniste.
Non ci illudiamo di averla influenzata, ma le siamo grati per la sensibilità con cui è intervenuto sull’argomento. Le sue parole pronunciate ieri, con 24 d’ore d’anticipo sul Giorno del Ricordo, sono esemplari perché chiariscono dei punti che qualcuno vuole nuovamente rendere controversi o discutibili con l’obiettivo di mettere in dubbio non solo la verità storica delle Foibe, ma anche la tragedia dell’esodo di istriani e dalmati. Lei l’ha impedito e l’ha fatto con fermezza e sostanza. Parlando di «grande tragedia italiana» ricorda a tutti che i morti delle foibe e i 300mila italiani costretti a fuggire dalle proprie case in Istria e Dalmazia non erano rappresentanti di un gruppo o di una fazione politica, ma dei connazionali colpevoli soltanto di esser nati italiani e di volerlo restare. Descrivendo il loro passaggio «dall’oppressione nazista a quella comunista» sottolinea come tra i due «grandi totalitarismi del Novecento» non vi sia differenza.
Test abruzzese per il governo, per la
maggioranza gialloverde e per il centrodestra «classico», unica vera
alternativa al tandem Lega-Cinquestelle.
È il giorno del voto in Abruzzo dove sono chiamati alle
urne 1.211.204 elettori. Il sistema elettorale è di tipo proporzionale,
con soglia di sbarramento del 4% per liste che corrono da sole e del 2%
per quelle inserite all’interno di una coalizione. Non c’è ballottaggio,
pertanto sarà eletto presidente il candidato che al termine dello
spoglio avrà ottenuto un voto in più degli altri.
È il primo dei sei appuntamenti elettorali del 2019 per il rinnovo dei consigli regionali. Un voto che a poco più di tre mesi dalle Europee inizierà a fornire segnali importanti sugli equilibri elettorali e politici della legislatura. La fotografia che maggiormente ha segnato questa campagna elettorale è stata quella dei tre leader di centrodestra – Salvini, Berlusconi e Meloni – riuniti, per la prima volta dal marzo del 2018.
“Quello che il Ministro – rappresentante del sistema scolastico nella
sua interezza geografica – non può assolutamente fare è delegittimare
il personale “del Sud”, utilizzando espressioni divisive che lasciano
intendere che “nel Sud” non ci si impegna adeguatamente”. Lo sottolinea
l’Associazione Nazionale Presidi commentando le parole del ministro
Bussetti sulla scuola nel Sud, chiamata a impegnarsi per “colmare il
divario col Nord”. “Che sia necessario impegnarsi in qualsiasi lavoro –
ed in particolare in quello pubblico, pagato da tutti gli Italiani – noi
dell’ANP lo abbiamo sempre creduto fermamente – commentano i presidi –
Così come crediamo, da persone di scuola, che il lavoro scolastico
rivesta una importanza tutta particolare in quanto forgia il futuro
della Nazione. Se il Ministro dell’istruzione ritiene che, nel settore
di cui egli è responsabile, qualcuno non si impegni a sufficienza,
dispone di tutti gli strumenti per intervenire”.
VIDEO – Scuola, Bussetti ai professori del Sud: “Vi dovete impegnare, lavorare e fare più sacrifici”
“Di
Maio incontra chi protesta in Francia, ma non chi protesta in Italia.
Non ne capisco il senso e l’utilità, soprattutto guardando i rapporti
commerciali e imprenditoriali tra Roma e Parigi…”. Nella zona palco di
una piazza San Giovanni piena fino all’inverosimile, Maurizio Landini
ci parla delle tensioni tra Italia e Francia stringendo tra le mani la
bandiera europea che l’Associazione ‘Europanow!’ gli ha appena regalato.
Passa da Parigi il senso del messaggio che il neoeletto segretario
della Cgil vuole inviare al governo in questa giornata di protesta
unitaria insieme a Cisl e Uil a Roma: “Se Conte guarda questa piazza e
se ha capito, allora deve aprire le trattative con noi. Se incontrano
chi protesta fuori Italia, allora incontrino anche noi: non abbiamo
gilet gialli, ma una piattaforma articolata”.
E’ la prima
manifestazione unitaria per Landini, fino a pochi anni fa vivace capo
della Fiom, l’ala più ‘radical’ della Cgil, ultra-critica con la legge
Fornero di Monti e il jobs act di Renzi. Ora Landini guida il più grande
tra i sindacati confederali che, tutti e tre insieme, avevano
programmato questa giornata di protesta già a settembre e oggi si
ritrovano in piazza proprio al termine di una settimana di dati negativi
per l’economica italiana, tecnicamente in recessione. “L’unico dato che
schizza in alto è lo spread”, sottolinea Annamaria Furlan della Cisl
dal palco a fine manifestazione.
PESCARA – Non è soltanto una sfida locale, come da giorni non si stancano di ripetere i due leader gialloverdi, preoccupati per le nuove fibrillazioni che le regionali d’Abruzzo rischiano di innescare all’interno di una maggioranza già attraversata da mille tensioni. Perché se è vero che la platea è piuttosto ridotta, all’incirca un milione e duecentomila le persone chiamate oggi alle urne dalle 7 alle 23 – lo spoglio inizierà subito dopo, risultati in diretta su Repubblica.it – si tratta pur sempre del primo test elettorale dacché il governo Conte si è insediato.
Utile pertanto a verificare – da qui a due settimane, quando la stessa partita si giocherà in Sardegna – quanto ormai certificato da tutti i sondaggi a livello nazionale: ovvero il primato della Lega anche al Centro-Sud, saldamente in testa rispetto a un M5S in crisi di consenso; la reale consistenza del “vecchio” centrodestra unito; le chance di ripresa di un centrosinistra che in entrambe le regioni si propone in forma allargata, col Pd a fare da perno di un’alleanza civica e sociale.
Bruciano i cassonetti non lontano dal centro. Si
sgretolano le vetrate. Nel sabato dello shopping, quando la movida sta
per iniziare, quando le famiglie stanno ancora passeggiando davanti alle
vetrine, esplode la follia di chi, vestito di nero, con i caschi e le
maschere sul viso, vuol vendicarsi di un «sopruso» che sopruso non è. La
Polizia ha chiuso L’Asilo, storica casa del mondo anarchico torinese.
Lo ha fatto dopo 25 anni. E dopo che la Digos ha arrestato sei persone
sospettate di 23 attentati commessi in giro per l’Italia. Buste
esplosive, essenzialmente. E la base dove tutto veniva organizzato era
proprio l’Asilo di via Alessandria: due piani, un vecchio edificio di
una certa bellezza. È per questo che è nata la vendetta. Il sabato di
delirio in centro.
Erano partiti in poco più di mille: destinazione non ufficiale era andare a riprendersi l’Asilo. I duri e puri dell’anarchia indigena e gli amici arrivati da fuori. Dal Veneto, da Milano e da altre zone. E poi la terra di mezzo di gente solidale, ma non anarchica. Solidali per lo sgombero, come i pochi del centro sociale più politico del nord Italia, Askatasuna. È finita come raccontano le immagini di questa giornata. Strade bloccate, ovunque cassonetti in fiamme. E il fiume Dora che fa da spartiacque: sui ponti non si passa perché dall’altra parte sarebbe fin troppo facile arrivare attraverso mille strade all’Asilo.
Nel dibattito sulle foibe gli storici vengono relegati
in secondo piano; è sempre stato così, a partire dalle polemiche che
accompagnarono l’approvazione della legge che istituiva il Giorno del
Ricordo, approvata il 16 marzo 2004. La proposta, presentata dall’on.
Roberto Menia, trovò un consenso quasi unanime. Ci si divise però sulla
data: il centrodestra aveva subito proposto il 10 febbraio; il
centrosinistra aveva replicato con il 20 marzo, giorno della partenza
dell’ultimo convoglio di profughi italiani da Pola. Fu il sen. Servello
(ex Msi) a illustrare le ragioni della scelta del centrodestra: il 10
febbraio era «il giorno del Trattato di Parigi che impose all’Italia la
mutilazione delle terre adriatiche». Il fatto che nessuna delle due date
fosse legata effettivamente alle foibe non sembrava degno di interesse.
Menia citava il numero dell’11 febbraio 1947 del giornale Il grido dell’Istria:
«Finis Histriae: 10 febbraio. L’Istria non è più Italia». Non le foibe
bisognava ricordare il 10 febbraio, ma l’«infame diktat di Parigi».
Non appena la Quarta armata jugoslava entrò in
Trieste, gli agenti della polizia politica di Tito si dettero da fare:
la loro prima preoccupazione fu di arrestare e eliminare i membri del
Comitato di Liberazione Nazionale, i leader italiani della Resistenza.
Sul confine orientale l’unico antifascismo doveva essere quello
dell’esercito vincitore, dei croati, degli sloveni e dei serbi.
L’equazione italiano-fascista era funzionale alla geopolitica, e
attecchì bene: la marea dei profughi giuliano-dalmati, che per anni si
riversarono al di qua del confine abbandonando terre e proprietà, venne
spesso accolta in modo oltraggioso dagli esponenti della nostra sinistra
(non a Torino, però, dove il sindaco comunista Celeste Negarville
organizzò accoglienza e aiuti). Alla Spezia, durante la campagna per le
elezioni politiche del ’48, un dirigente della Camera del Lavoro si
abbandonò durante un comizio a un gioco di parole piuttosto
agghiacciante: «In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i
banditi giuliani».
La tragedia delle foibe si ripeté due volte: i partigiani jugoslavi erano infatti dilagati in Venezia Giulia nel settembre del ’43 (con l’eccezione di Pola, Fiume, Trieste), per essere poi ricacciati dai tedeschi nell’ottobre nello stesso anno. Ma subito erano cominciate le esecuzioni sommarie (rese pubbliche dalla propaganda bellica della Rsi, e destinate a ripetersi in misura assai maggiore nel ’45) in base all’identificazione dei italiani come nemici, con le vittime annegate in mare o gettate nelle profonde cavità carsiche. E quella tragedia a lungo rimossa in un’Italia che non voleva ammettere né la sua sconfitta né le violenze commesse nei Balcani, ignorata a sinistra fino al 2002 quando un libro molto fortunato di Gianni Oliva affrontò il tabù, ancora divide, nonostante l’istituzione – anch’essa nata da una tormentatissima discussione – del «Giorno del Ricordo». Aveva appunto lo scopo di conciliare le memorie: in parte raggiunto, in parte no.
Non è finito l’attacco a Banca d’Italia, anzi. Se le indiscrezioni di venerdì raccontavano di un consiglio dei ministri agitato, teso, urlato, con i ministri grillini all’attacco del vicedirettore generale Luigi Federico Signorini, e in difesa il responsabile dell’Economia, Giovanni Tria, ben appoggiato dal sottosegretario Giancarlo Giorgetti, ecco, da ieri la novità è che a difendere i vertici della Banca d’Italia nel governo non c’è più nessuno. Battaglia impopolare, evidentemente, spendersi per l’autonomia della più importante tecnostruttura del Paese. Così come per la Consob.
Al solo nominarle, Bankitalia e Consob, alla maggioranza giallo-verde viene l’orticaria. E così è quasi una gara a demolire. Dice Matteo Salvini: «Non è più possibile che qualcuno sbaglia, non si sa mai chi è stato, e non paga nessuno. Noi rispettiamo chi fa il suo lavoro, ma ci sono stipendi da centinaia di migliaia di euro, e non riconfermare qualcuno del passato mi sembra il minimo nel rispetto di chi è stato fregato». Gli fa eco Luigi Di Maio: «Non vogliamo mettere le stesse persone negli stessi posti dopo quello che è stato fatto in passato».