Un
anno fa, pochi giorni dopo l’avvento del governo gialloverde, Claudio
Borghi, che insieme ad Armando Siri e ad Alberto Bagnai forma il club
degli economisti leghisti, si lasciava andare ad un ragionamento per
spiegare lo strano esecutivo che metteva insieme il diavolo e l’acqua
santa: «Certo, siamo diversissimi, ma tra l’avere contro i grillini, con
le loro manifestazioni di piazza e il loro giustizialismo, o Forza
Italia, che non ha l’attitudine all’opposizione, qualsiasi governo
sceglierebbe quest’ultima come avversario».
Dieci mesi dopo, all’apice dei consensi e nel ruolo di dominus
del gioco politico, Matteo Salvini si sta accorgendo a sue spese che
quelli che aveva scelto come partner di maggioranza gli si sono
rivoltati contro, con tutto l’armamentario di cui sono capaci, e quelli
che aveva rinnegato non possono aiutarlo più di tanto. Sono i limiti di
chi confonde la tattica con la strategia perché in politica, non va mai
dimenticato, non ci sono solo il pragmatismo o la propaganda, ma pure le
identità e le storie di ognuno. Questo significa che un 5stelle in
difficoltà, che perde nei sondaggi quasi la metà dei voti che aveva
conquistato alle politiche, per risorgere si affida al proprio Dna, cioè
al giustizialismo, ascoltando il richiamo di quei mondi, da Il Fatto a
una certa magistratura, da cui sono stati vezzeggiati e a cui si sono
abbeverati al grido di «onestà, onestà».
Un blitz di pochi minuti, a due passi da un
luogo simbolico come piazzale Loreto e alla vigilia del 25 Aprile. Un
gruppo di una settantina di neofascisti ha srotolato uno striscione
nella centralissima corso Buenos Aires all’ora di pranzo con su scritto
“Onore a Benito Mussolini”. Hanno cantato per pochi minuti slogan
fascisti, fatto saluti romani e poi se ne sono andati. Una chiara
provocazione il giorno prima del 25 Aprile. Gli autori del gesto
appartengono alle curve ultrà, visto che in fondo allo striscione c’è
anche la scritta ‘Irr’, che fa pensare agli ‘Irriducibili’: e stasera in
città la Lazio, che ha una tifoseria notoriamente di estrema destra
gemellata con l’Inter, gioca contro il Milan.
Milano, saluti romani e omaggio a Mussolini dagli ultrà laziali
Il presidente russo Vladimir Putin e il leader nordcoreano Kim Jong-un si sono stretti la mano all’inizio del loro incontro a Vladivostok, in Russia. Al centro dei colloqui la questione nucleare nordcoreana e i rapporti bilaterali .
Le immagini televisive mostrano l’arrivo di Kim in limousine e la stretta di mano tra il dittatore nordcoreano e un sorridente Putin. Il vertice si svolge all’università dell’Estremo oriente di Vladivostok, sull’isola Russky, per l’occasione decorata con tricolori russi e bandiere nordcoreane.
ROMA – Facebook accantona,
prudente, 3 miliardi di dollari. I soldi serviranno a fronteggiare la
possibile multa della Federal Trade Commission (Ftc). La Ftc sta
valutando se – nel caso Cambridge Analytica – la società di Mark
Zuckerberg abbia violato gli accordi del 2011 a garanzia della privacy
degli utenti. La Ftc – che non ha ancora emesso il suo verdetto –
sarebbe orientata a comminare una sanzione ancora più alta, pari a 5
miliardi di dollari.
La Ftc è un’agenzia governativa che ha un doppio compito. Vigila sul
rispetto della concorrenza e, nello stesso tempo, difende gli interessi
dei consumatori. Questa agenzia ha aperto un’inchiesta su Facebook a
marzo del 2018, quando è emerso che la società di marketing politico
Cambridge Analytica ha avuto accesso a 87 milioni di dati personali di
utenti senza il loro consenso.
«Entro la fine della giornata devo parlare con Armando Siri, appena torno dalla Cina dovremo parlarci. Da soli, io e lui». Quando tutto sarà finito, a prescindere dal finale che il destino sceglierà per questa latente crisi di governo, uno degli snodi cruciali di tutto il racconto sarà stato il momento in cui ieri Giuseppe Conte ha chiesto agli addetti di Palazzo Chigi di cercargli Siri. Come se per un istante tutti i convitati di pietra fossero spariti dalla circolazione, a cominciare da Luigi Di Maio e Matteo Salvini, nel contatto tra i due sono iniziate a cadere le prime carte in tavola.
A cominciare ovviamente dal presidente del Consiglio, a cui è toccata la prima mossa.
Svestiti per un attimo i panni dell’autoproclamatosi «avvocato degli
italiani», di fronte al sottosegretario alle Infrastrutture Conte si
prepara a indossare quelli del pubblico ministero. Con tanto di domande
già pronte, dall’interesse per l’eolico ai rapporti con Arata. Nella
clessidra ci sono granelli di sabbia per cinque giorni, visto che il
premier tornerà dalla Cina domenica sera; esauriti questi, se non
saranno emersi elementi nuovi in grado di «scagionare» Siri, si passerà a
quel faccia a faccia con un risultato che sembra scontato. Una moral suasion
volta a convincere il leghista a fare un passo indietro. Senza di
questa, si arriverà alla revoca della nomina a sottosegretario.
«Cambio di rotta»
Costituzione alla mano, Conte lo sa benissimo, il provvedimento deve portare la firma del capo dello Stato. Non è un caso se, sulla sua scrivania a Palazzo Chigi, si sia materializzato ieri un precedente del 2002, quando Carlo Azeglio Ciampi aveva firmato il «foglio di uscita» dal governo dell’allora sottosegretario ai Beni Culturali Vittorio Sgarbi, entrato in rotta di collisione con l’esecutivo guidato allora da Silvio Berlusconi. Siri o non Siri, crisi o non crisi, Conte ha già cambiato la propria parte in commedia. Da «arbitro» tra i gialli e i verdi, ormai, si muove come un leader del Movimento Cinque Stelle vero e proprio. Da giorni raccoglie le lamentele dei pentastellati di governo e Parlamento sul «cambio di rotta» della Lega. E invece che smussare gli angoli, sottoscrive e annuisce. «La Lega è tornata a fare la Lega Nord, che disprezza il Sud e considera Roma “ladrona”», gli ha detto un ministro. E ancora: «Non volevano affatto che si tenesse il Consiglio dei ministri in Calabria». Conte condivide, tutto. Dai gruppi parlamentari del Movimento Cinque Stelle gli hanno riferito i malumori di alcuni esponenti del Carroccio contrari alla sua idea di aumentare del 6% la spesa per il Sud. «Loro dicono neanche un euro in più? Finché sarò qua io, farò di tutto per ridurre lo squilibrio che danneggia il Mezzogiorno».
Ritorno all’avvocatura
A Palazzo Chigi dicono che la scelta dell’unico giro di valzer come premier, «quella era e quella rimane». Ma l’anti-Salvini del M5S del futuro — con Di Maio troppo coinvolto nella partita e Alessandro Di Battista ormai a bordo campo — rischia di diventare proprio lui, l’attuale premier. Lo confermano ai piani altissimi del Movimento. «Finita questa esperienza, lui vorrà tornare a fare l’avvocato e il professore. Ma noi potremmo avere ancora bisogno di lui». Poche parole, la spia di una storia che sta per cambiare. Forse presto, molto presto.
L’ultimo
strappo, quello sul 25 aprile, contro il quale sono in corso
svalutazioni, boicottaggi e diserzioni (per esempio quella di Salvini e
dei suoi ministri), cercherà di ricucirlo lui, oggi, a Vittorio Veneto.
Con un discorso in bilico tra un passato che non passa, perché si
insiste a guardarlo secondo logiche divisive, e un presente altrettanto
lacerante. Non lancerà anatemi, ma il suo «no a riscritture della
storia» pronunciato ieri, è la premessa per ricordare che in questa data
fondante della nostra democrazia tutto si tiene, Sergio Mattarella:
dalla Resistenza alla nascita della Repubblica alla Costituzione. Senza
che nessuno possa vantare egemonie politiche o contestarle. Così,
rinfrescherà la memoria a chi si ostina a dire che a impegnarsi nella
lotta di Liberazione furono solo i 500 mila partigiani («a prevalenza
rossi», si recrimina). Non fu così. Si trattò invece — e lo rimarcherà —
di un movimento allargato, nel quale furono coinvolti anche migliaia di
nostri militari (per esempio a Cefalonia, nell’Egeo, in Corsica, nei
Balcani) e i 600 mila deportati nei lager tedeschi (che avrebbero potuto
sottrarsi alla prigionia scegliendo Salò), e le popolazioni civili che
aiutarono i «ribelli» rischiando la vita e affiancandoli nelle
insurrezioni in varie città e, infine, moltissime donne. E proprio il
ruolo femminile il presidente ha voluto che fosse sottolineato a
Vittorio Veneto, dove la cerimonia sarà «in rosa».
C’era una volta il cuore rosso collocato nell’Italia di mezzo, come lo aveva definito il sociologo Francesco Ramella, un mondo immobile, collocato nel centro del Paese. Quel reticolo di cooperative, amministrazione, sindacato e partito che sembrava estraneo alle epoche, immune ai cambiamenti nazionali, neppure sfiorato dalla Prima Repubblica dominata dalla Dc e dalla Seconda del bipolarismo incerto e inquieto. Le uniche incognite, alle elezioni regionali o locali, riguardavano le percentuali di consenso del Pci e delle sigle post-comuniste, se prendevano qualche punto in più o in meno rispetto alle precedenti elezioni. Poi le cose si misero a correre, anche da quelle parti, più di dieci anni fa. Anche se le sconfitte elettorali sembravano solo episodi, accolti con indifferenza dai gruppi dirigenti locali e nazionali. Nel 2007 il centrodestra espugnò per la prima volta in Umbria la roccaforte di Todi, sembrò una bizzarria, oggi suona come un sinistro precedente perché nel 2017 la destra è tornata a vincere, dopo aver espugnato Perugia e prima di vincere anche a Terni, e la sindaca uscente di dodici anni fa era la allora quarantenne Catiuscia Marini, oggi costretta a dimettersi da presidente della Regione Umbria del Pd per uno scandalaccio di raccomandazioni sulla sanità pubblica. Arresti, intercettazioni. La candidata brava che non deve passare e quella segnalata che deve entrare. «La Cataldi ha fatto una bella prova, ma ce n’è un’altra che sta andando molto molto bene», si allarmano i responsabili della commissione d’esame, chiamati a eseguire l’ordine: mettetela dentro.
La notizia dei morti ammazzati in Sri Lanka è
risaputa: circa trecento vittime. Le televisioni l’ hanno lanciata e
rilanciata, ma con garbo. Come se fosse un fatto ordinario,
tipo tamponamento sulla Salerno-Reggio Calabria. Niente di eccezionale.
Pochi (o nessun giornalista) hanno detto fuori dai denti che gli assassini sono musulmani esaltati, kamikaze, terroristi spietati persino contro se stessi, visto che si annientano goduti allo scopo di sterminare cristiani e occidentali.
Il motivo che induce la mia categoria a essere prudente nell’accusare i maomettani di stragismo è drammaticamente semplice. Il pensiero unico progressista è che i figli di Allah spesso non sono figli di puttana,
bensì bravi ragazzi fedeli di una religione nobile che hanno varie
ragioni per odiare noi che non adoriamo il loro Dio. Siamo intimiditi
dagli islamici e li rispettiamo al punto di non imputare loro crimini orrendi.
E la sinistra in particolare, non più dotata di voti sufficienti per
governare, però ancora padrona di molte leve di potere, cerca di proteggere gli immigrati
dal Medioriente nella speranza di rabbonirli e farseli amici. Il fine è
evidente, traspare dalla maniera in cui gli ultrà rossi agiscono. Non
hanno neanche il coraggio di ammettere che il monopolio del terrorismo ce l’hanno i cannibali dell’islam.
Matteo Salvini è ministro dell’Interno “a sua insaputa”. L’affondo al
leader della Lega arriva da Beppe Grillo, garante del M5S, che in una
lettera al Fatto Quotidiano accusa il vicepremier di pensare solo ai migranti trascurando le mafie.
La lettera di Grillo analizza la foto che ritrae Salvini con un mitra in mano, pubblicata nel giorno di Pasqua da Luca Morisi.
“Salvini
con un mitra in mano è uno sviluppo di Salvini vestito da poliziotto o
altra forza armata. Nulla quindi di nuovo cuoce in pentola”, scrive
Grillo. “In particolare: se teniamo conto del fatto che la foto è
un’iniziativa del garzone mediatico, qualcosa resta da dire, e non di
scarso momento”.
Divisi
sul 25 aprile, distanti anche sul significato della festa più
simbolica. Non ci sarà l’immagine del Governo gialloverde compatto alle
celebrazioni per la Liberazione dall’occupazione del nazifascismo. I
gialloverdi litigano anche sul suo senso, con il Movimento 5 Stelle da
una parte che ha annunciato la partecipazione al corteo (degli Ebrei) e
il leader della Lega Matteo Salvini che sarà invece a Corleone perché
“la vera Liberazione è dalla mafia”. Divisioni politiche che si sommano a
quelle “storiche” tra l’Anpi e la Comunità ebraica di Roma, separate
come sempre in due manifestazioni concorrenti. A farne le spese è la
festa nazionale più importante per portata storica e simbolica della
Repubblica italiana.
Anche il 25 aprile diventa quindi un tema da
campagna elettorale nella competizione tutta interna al Governo tra M5S e
Carroccio. “Leggo che qualcuno oggi arriva persino a negare il 25
aprile, il giorno della Liberazione. Lo trovo grave. Non è alzando le
spalle e sbuffando che questo Paese cresce. Al contrario, cresciamo se
diamo forza a certi valori, alla nostra storia. Perchè col menefreghismo
non si va da nessuna parte”, scrive su facebook il vicepremier M5s e
ministro del Lavoro Luigi Di Maio. “E poi – prosegue – concedetemelo, è
curioso che coloro che oggi negano il 25 aprile siano gli stessi che
però hanno aderito al congresso di Verona, passeggiando mano per la mano
con gli antiabortisti”. “Per carità, ognuno la vede come vuole. Il
pensiero è libero. Ma io, sia chiaro, voglio anche un’Italia libera, di
guardare avanti innanzitutto. Il ripristino della leva obbligatoria, la
contestazione della 194, gli attacchi alle donne, il ritorno al Medioevo
non fanno parte dei valori del MoVimento 5 Stelle. Il 25 aprile è una
festa nazionale della Repubblica Italiana. Non è questione di destra o
di sinistra, come sento dire, ma di credere in questo Paese. Di credere
nell’Italia e di rispettarla. E chi come me ci crede, il 25 aprile lo
ricorda!” conclude Di Maio.