Nuovo
Da 1,5 milioni nel
1990 ai 146 mila di oggi, quello dei cristiani in Iraq non è un
genocidio fisico, ma culturale e di identità delle stesse radici
dell’Occidente. Possiamo non occuparcene? Le prime conclusioni
dell’inchiesta in Iraq con i frati di Assisi finanziata da Huffpost
ERBIL, Kurdistan, Iraq. La cerimonia è piena di canti e incensi, ma
senza pompa – banchi pieni, fedeli assorti. Nella Chiesa di San Giuseppe
a Erbil l’attesa dell’evento più importante della vita cristiana, la
resurrezione di Gesù, è scandita dal suono sconosciuto dell’Aramaico. La
lingua di Gesù è qui ancora in uso nelle cerimonie della Chiesa Caldea,
e non somiglia a nessuna delle lingue del mondo attuale, non ha echi se
non quelli suoi propri.
La prima volta che ho sentito una messa
in Aramaico era in un’altra festa, un’altra attesa. Era il Natale del
1990 a Baghdad, sotto assedio da parte delle forze della Coalizione
occidentale, dopo che il 2 agosto Saddam Hussein aveva invaso il vicino
Kuwait in una mossa di annessione. E l’attesa per la nascita del Bambino
si confondeva con l’attesa delle bombe. Tre settimane dopo quel Natale,
il 17 gennaio – 18 ore e 38 minuti dopo la scadenza dell’ultimatum
dell’Onu, alle 02:38 del mattino ora di Baghdad- le bombe sarebbero
arrivate. Puntuali.