Il cantiere pensioni tra governo e sindacati è riaperto da qualche settimana e al Ministero dell’Economia cresce la tentazione di sterilizzare Quota 100 fin dal 2021 con un intervento previdenziale ad ampio raggio da inserire nella manovra per il prossimo anno.
In campo innanzitutto l’ipotesi di sostituire il meccanismo di uscita anticipata con 62 anni di età e 38 di contributi trovando una soluzione anche più flessibile
ma meno onerosa per le casse pubbliche, basata su una penalizzazione
del 2-3% per ogni anno di anticipo rispetto all’età pensionabile di 67
anni.
Non è detto, però, che l’operazione caldeggiata dal ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, oltre che da una larga fetta del Pd e da tutta Italia Viva, riesca fin dal 2021. I grillini, il ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo, e i sindacati sono contrari e puntano a far scadere Quota 100 alla fine dell’anno prossimo (quando è indicata la scadenza naturale della sperimentazione).
Il responsabile del dicastero di Via XX Settembre può far valere i
numeri limitati di coloro che hanno utilizzato l’uscita anticipata
quest’anno e sta preparando un pacchetto di interventi in materia
previdenziale. Si tratta della proroga di Opzione donna
(per le lavoratrici con meno di 60 anni che accettino il calcolo
interamente contributivo della pensione), nonché di quella dell’Ape social (per chi con 63 anni si trovi in difficoltà o appartenga a categorie di lavoratori che svolgono attività gravose) e di Quota 41 per i precoci (coloro che hanno cominciato a lavorare prima dei 19 anni).
Poco dopo l’aggressione, Matteo Salvini
appare assolutamente tranquillo. I messaggi dei sostenitori pulsano sul
telefono ininterrottamente: «Episodio isolato», taglia corto lui. La
regola del basso profilo che si è imposto per le Regionali 2020 non
viene smentita neppure a Pontassieve. Gli sfugge soltanto un «certo, se
la camicia fosse stata strappata a Conte o a Zingaretti, sai che
coro…». Parla dei messaggi di solidarietà della politica che sono
arrivati ieri — in realtà, da tutti i partiti — dopo l’episodio. Ma,
appunto, il segretario leghista non ne vuole fare una questione
politica, non vuole sentirsi fare domande sulle campagne d’odio che
vengono da sinistra, da destra o dal centro: «Ma no, mi dicono che fosse
una persona con alcuni problemi, cosa bisogna dire? Mi pare che sia un
caso chiuso. Non uso questo gesto per fare campagna elettorale, non voglio affatto che sia legata a un’aggressione».
È vero però che le apparizioni pubbliche di Salvini, così immerso tra le persone e a stretto contatto con tanta gente, lo espongono a un rischio concreto, e in questo caso non si parla di Covid. Ma che il leader leghista cambi stile proprio sui suoi bagni di folla non è all’ordine del giorno: «No davvero. Io sono un sostenitore della democrazia, della libertà di pensiero e di parola per chiunque.
di Massimo Gaggi, Andrea Marinelli, Viviana Mazza, Marilisa Palumbo, Giuseppe Sarcina
Mancano sette settimane e
mezzo al 3 novembre: il giorno in cui l’America scoprirà se l’aspettano
altri quattro anni di Donald Trump o un cambio di stile e politica con
il democratico Joe Biden. Finora la campagna elettorale è stata dominata
da due questioni: la pandemia, che negli Stati Uniti ha mietuto oltre
190 mila vittime; e i disordini nelle città, cominciati a maggio con
l’uccisione di George Floyd e mai sopiti fino alle nuove esplosioni a
Portland e Kenosha. I manuali di comunicazione politica però ci
ricordano che sono pochi gli elettori che prestano attenzione alla
campagna presidenziale prima di settembre. Questi ultimi giorni sono fondamentali: tutto può ancora succedere.
Ci sono i dibattiti — tre tra i rivali per la presidenza, uno tra i
vice Mike Pence e Kamala Harris — e ci potrebbe essere la famosa
«October surprise», un evento che modifica il corso della gara. Che
succederebbe se la sorpresa fosse, come ha fatto capire in questi giorni
Trump, il vaccino? Il punto debole del presidente — la gestione della
crisi sanitaria — si trasformerebbe in un’arma spettacolare con la
promessa di porre fine all’epidemia?
Per attraversare questo rush finale abbiamo provato a fare un punto della sfida: sondaggi, slogan, volti, strategie.
Quale leader: che cosa dicono i sondaggi di Giuseppe Sarcina
Joe Biden affronta lo strappo finale della campagna elettorale ancora in testa a livello nazionale. Secondo la media realizzata dal sito RealClearPolitics all’inizio di settembre, il candidato democratico mantiene un vantaggio del 7,2%. È vero che anche nel 2016 Trump fu sconfitto da Hillary Clinton nel voto popolare, ma poi vinse grazie ai meccanismi del collegio elettorale. Tuttavia quattro anni fa lo scarto risultò pari al 2,1%. Ora la distanza è quasi quattro volte più ampia. Eppure nel campo democratico aumentano inquietudini e preoccupazioni. Trump non ha mai pensato di poter ottenere in assoluto più voti, fin dall’inizio ha impostato la sua campagna per bruciare il rivale nei tre Stati che nel 2016 gli consegnarono la Casa Bianca: Pennsylvania, Michigan e Wisconsin. E qui nelle ultime settimane la distanza si è ridotta a una media del 3%.
A maggio a Washington circolava una battuta: «Se i
democratici perdono anche stavolta dovrebbero chiudere il partito e
buttare via la chiave». Eravamo nel mezzo della pandemia, con il
presidente che sbeffeggiava l’uso della mascherina e spingeva per
riaprire l’economia. Il Paese sta pagando ora il conto: i contagiati
sono 6 milioni, con una spaventosa accelerazione dal 17 al 31 agosto: un
milione in più.
Ora Trump è riuscito a riaprire lo scontro: la base elettorale, minoritaria ma vincente nel 2016, appare di nuovo galvanizzata. I
democratici possono arginare questa controffensiva solo se riusciranno a
mobilitare tutti gli spezzoni sociali di riferimento: moderati,
indipendenti, liberal, radical, neo-socialisti.
Clan o coalizione? Due convention, due Americhe di Giuseppe Sarcina
Trump si arrocca nel suo clan famigliare e in una cerchia sempre più ristretta di fedelissimi. Biden, più per necessità che per scelta, schiera una coalizione larga, composita e con diverse contraddizioni non risolte e, probabilmente, non risolvibili. La stagione delle convention democratica e repubblicana è servita innanzitutto per definire la natura dei due schieramenti e quindi la prima distinzione netta tra le candidature. In via preliminare gli americani dovranno decidere se affidarsi a un leader forte, ma sempre più solo; o a un mediatore debole, ma più inclusivo.
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha telefonato alla senatrice a vita Liliana Segre per formulandole auguri affettuosi per il suo novantesimo compleanno. L’ha ringraziata, rende noto il Quirinale, per la sua alta e preziosa testimonianza contro l’odio e la violenza, in difesa dei diritti di tutti e nel rifiuto di ogni discriminazione
Liliana Segre, che oggi compie 90 anni, è sopravvissuta ad
Auschwitz e ha fatto della testimonianza degli orrori della Shoah e
della lotta contro ogni forma di odio una delle sue ragioni di vita.
Anche per questo Mattarella, l’ha nominata senatrice a vita nel 2018.
Nata a Milano nel 1930, subì le leggi razziali per le sue origini
ebraiche ancora bambina e venne espulsa da scuola. A 14 anni venne
deportata con il padre Alberto verso il campo di concentramento di
Auschwitz partendo da quel binario 21 della Stazione Centrale di Milano
dove ora sorge il Memoriale della Shoah.
La positività di Aurelio De Laurentiis al Covid-19ha scosso il gotha del calcio italiano. Ieri il numero uno azzurro si era infatti presentato all’assemblea di Lega senza sapere l’esito del tampone e ora c’è grande apprensione tra i presidenti e i massimi dirigenti dei club di Serie A. All’Hotel Hilton di Milano, del resto, in quella sala c’erano praticamente tutti: Agnelli per la Juve, Marotta e Antonello per l’Inter, Scaroni per il Milan, Lotito per la Lazio, Joe Barone per la Fiorentina, Cairo per il Torino, Ferrero e Preziosi per Samp e Genoa solo per citarne alcuni. Una cinquantina di persone venute più o meno in contatto col presidente del Napoli che ora dovranno sottoporsi ai controlli di rito e rimanere a distanza dalle rispettive squadre per evitare effetti catena nei contagi e nelle quarantene.
Ricostruendo quanto accaduto in assemblea, chi era presente ha parlato di un clima disteso e una situazione a norma con distanziamento tra le sedute. Le foto scattate prima della riunione mostrano molti dirigenti e presidenti entrare nella sala già con la mascherina, altri invece accedere a volto scoperto (tra cui De Laurentiis, Cairo, Preziosi e Fenucci). Il patron azzurro era seduto in prima fila e nel corso della riunione ci sono stati diversi momenti conviviali e contatti tra i presenti, compresi operatori e giornalisti. Come da protocollo, la conferenza del presidente Dal Pino si è svolta con i giusti distanziamenti. Terminata l’assemblea di Lega, fuori dall’Hilton però si sono creati degli assembramenti con alcuni presidenti, tra cui AdL, a stretto contatto senza mascherina con reporter e cameraman per le interviste. Una situazione che ora preoccupa non solo i vertici del calcio italiano venuti a contatto con De Laurentiis, ma anche diverse redazioni sportive presenti al vertice.
«Vi prego, basta, non respiro più». Sono le ultime parole di Willy mentre dei ragazzi poco più grandi di lui lo stavano pestando a morte. Perché era meno forte di loro, perché aveva un colore della pelle diverso dal loro. Sono le stesse parole, proprio le stesse, di George Floyd mentre un poliziotto gli teneva il collo sotto il suo ginocchio per un numero interminabile di minuti. Due episodi molto diversi tra loro, che sarebbe sbagliato accostare, ma uniti dalle stesse parole delle vittime. Non respiriamo più. Ci toglie il fiato un’onda di violenza e di odio che sembra impossibile da frenare. L’odio non è un virus. È una terribile malattia sociale. La storia ci ammonisce a capirne le ragioni, prima di essere travolti dallo tsunami. Nasce, in primo luogo, dalla diseguaglianza sociale, dalla insicurezza del futuro, dalla sensazione che la vita sia un rischio, persino una minaccia, e non una possibilità. L’odio sociale è figlio delle crisi economiche e porta a individuare nell’altro il pericolo per la propria serenità e stabilità. E «l’altro» è chi ti viene indicato come colui che ti sta sottraendo ricchezza, come un intruso che viene a mangiare nel tuo piatto. È il «nemico» del quale hanno bisogno le idee autoritarie che si fondano sulla negazione delle differenze.
Le parole sono importanti. Ed è importante selezionarle: scartarle non meno di sceglierle. Ci
sono parole che determinano comportamenti, che sdoganano e legittimano
veleni che la fatica, il sangue e il sacrificio del novecento avevano
riposto in un cassetto. Il loro riemergere toglie il respiro. Mi ha
colpito, tra i messaggi dei social citati da un bel servizio del tg di
Enrico Mentana, il tweet di un essere umano che, pubblicando il volto di una donna nera, la chiamava «scimpanzè». Mi ha fatto venire alla mente un’immagine della Difesa della razza,
il giornale che costruì le condizioni del consenso alle leggi razziali
del fascismo. È la fotografia di un vero gorilla, pubblicata nel
novembre del 1942, proprio mentre i nostri soldati, trattati come bestie
dal fascismo, morivano in Russia. La didascalia dell’immagine recita:
«No: le cure del parrucchiere lo lasceranno scimmione come prima. Così
un ebreo non potrà mai diventare ariano, malgrado tutti i virtuosismi
anagrafici». Gli ebrei furono demonizzati. Furono descritti come un
pericolo sociale, economico e un attentato alla purezza della cosiddetta
«razza ariana». Si cominciò con le parole dell’odio e si finì ad Auschwitz.
Ecco,
comunque vada, anche se il centrodestra dovesse vincere le Regionali 4 a
2, 5 a 1, 6 a 0, Caporetto o non Caporetto, il Governo andrà avanti.
Andrà avanti se vincono i No al referendum o se vincono i Sì e, se
dunque, il popolo vorrà un Parlamento più snello che sostituisca
l’attuale, ma potrà averlo solo tra tre anni. Andrà avanti a
prescindere, come ha spiegato Dario Franceschini in una monumentale intervista alla Stampa,
che neanche Bettino Craxi. Il quale avrà anche invitato la gente ad
andare al mare, ma poi prese atto che il paese non aveva fatto il bagno,
ma aveva mandato al diavolo chi si era arroccato nel Palazzo, e ne
trasse le conseguenze. Andrà avanti anche a costo di una lacerazione a
sinistra, già in atto, profonda e dolorosa.
Occhio
che questa, tecnicamente, si chiama “scissione”: politica,
sentimentale, tra sinistra e popolo, sinistra e un pezzo del suo popolo.
Leggetela bene l’intervista di Franceschini e leggete bene le parole di
Roberto Saviano, il suo “andate a cacare, voi e le vostre bugie” perché
il “Pd vota Sì solo per la sopravvivenza del Governo e il suo obiettivo
è esserci sempre, comunque e a ogni costo”.
Leggete
anche l’ultimo post delle Sardine, foto di Zingaretti e Di Maio che si
stringono la mano con la scritta “non ci fidmaio”, un autentico e
impietoso manifesto di sfiducia verso il partito e il gruppo dirigente
nel quale iniettarono sangue vivo nelle vene ai tempi delle elezioni in
Emilia Romagna. Oggetto della sfiducia un “partito che continua prendere
dei pali nei denti da parte di un leader populista”: “La riforma della
legge elettorale che Bonaccini dava per certa si è già arenata perché
Renzi non la vuole, i correttivi che Bersani dà per ovvi sono ancora
tutti da discutere, la grande stagione di riforme che Zingaretti vede
alle porte non la vede nessun altro, la revisione dei decreti sicurezza
che Delrio annunciava mesi fa è rimasta un miraggio, alle regionali
invece di fare fronte comune tocca sperare nelle sardine perché “siamo
disperati”, il Mes che ci servirebbe come il pane non lo possiamo usare e
Dulcis in fundo: se a inizio ottobre cadesse il Governo si andrebbe a
votare con i listini bloccati e le rinunce pilotate e allora sì che la
Kasta avrà vinto per davvero!”.
“Abbiamo
visto il fuoco diffondersi su Moria e infuriare tutta la notte.
L’intero campo è stato avvolto dalle fiamme, provocando una fuga di
massa delle persone senza direzione. Bambini spaventati e genitori sotto
shock”. Le parole di Marco Sandrone, capo progetti di Medici senza
frontiere, descrivono l’inferno di Lesbo. La scorsa notte è andato a
fuoco il più grande campo profughi d’Europa, oltre 12mila persone
ospitate su questa isola, frontiera naturale dell’immigrazione da
oriente verso l’Europa. Migliaia di persone sono in fuga, tra loro anche
oltre 30 positivi al covid. Ma nemmeno questa tragedia ispira
solidarietà e reale partecipazione negli Stati europei.
Nessun
aiuto, mentre la Grecia dichiara lo stato di emergenza. Tranne che dalla
Norvegia, disposta ad accogliere 50 profughi, a patto che – è la
condizione posta dal Governo di Oslo – rientrino nella quota dei tremila
che il paese scandinavo deve accettare per quest’anno. Il resto è un
balbettio di solidarietà oppure silenzio.
E ‘ UN tampone ‘express’, made in Italy, per rilevare la positività o meno al coronavirus Sars-CoV-2. Si esegue su un campione di saliva e dà il risultato in tre minuti.
Arriva da un azienda brianzola, la ‘Allum’ di Merate (Lecco), che annuncia oggi in una nota di aver “superato i test per l’approvazione da parte del ministero della Salute” e di essere pronta a partire con la produzione. Un ‘salto di settore’ per l’impresa, che realizza sistemi di illuminazione. Dalle lampade ai tamponi.
di IRMA D’ARIA Il test rapido è stato battezzato ‘daily tampon’ e fornisce il risultato come un test di gravidanza: positivo due strisce, negativo una. Si propone come un esame utile a gestire flussi di massa. La Allum di Merate spiega di poter produrre 20 milioni di tamponi, per la rilevazione del virus che provoca Covid-19. E’ uno strumento che può contribuire a “far ripartire settori fermi dal marzo scorso”, viene evidenziato nella nota diffusa dall’Associazione Api Lecco e Sondrio (Associazione piccole e medie industrie della provincia di Lecco e Sondrio), a cui l’azienda Allum è associata. “In Italia non esiste nessuna soluzione di questo tipo, la Allum è la prima a realizzarlo”, spiegano.
WASHINGTON – Il nuovo libro del giornalista del Watergate Bob Woodward contiene giudizi duri su Trump di molti ex dirigenti della sicurezza. L’ex capo del Pentagono James Mattis lo definisce “pericoloso” e “inadatto” ad essere il commander in chief. L’ex capo della National Intelligence Dan Coat invece, scrive Woodward, “continua a coltivare la segreta convinzione, benchè non supportata da prove di intelligence, che Putin abbia qualcosa su Trump. Come altro spiegare il comportamento del presidente? Coats non è in grado di vedere altre spiegazioni”.
Il libro mette in imbarazzo Donald Trump. ‘Rage’ (rabbia) racconta che il presidente ha confidato al leggendario giornalista, che sapeva settimane prima del primo decesso Usa per Covid 19 quanto il virus fosse pericoloso, trasmissibile per via aerea, altamente contagioso e “più fatale di una forte influenza”. Nelle anticipazioni del libro diffuse dalla Cnn ammette inoltre di aver “sempre voluto minimizzarlo per non creare panico”. Dichiarazioni che contrastano con i frequenti commenti del presidente.
“Questa è roba mortale”, ha detto Trump a Woodward il 7 febbraio scorso, nel corso di una serie di interviste con il giornalista. Trump ha rivelato di conoscere bene il livello di minaccia del virus prima di quanto precedentemente noto, aggiungendo che il coronavirus è stato forse cinque volte “più mortale” dell’influenza. Le ammissioni di Trump sono in netto contrasto con i suoi frequenti commenti pubblici all’epoca che insistevano sul fatto che il virus “sarebbe scomparso” e che “tutto andasse bene”. In ‘Rage’, Trump dice che il compito di un presidente è “mantenere il nostro Paese al sicuro”.