Archive for Settembre, 2020

Un cambio di passo sui fondi europei

domenica, Settembre 6th, 2020

di Federico Fubini

Sergio Mattarella ha mandato ieri al Forum Ambrosetti di Cernobbio un messaggio carico di significato. «La crisi obbliga a fare un ricorso massiccio al debito e non dobbiamo compromettere con scelte errate il futuro delle nuove generazioni», ha detto il presidente della Repubblica. Esse «guarderanno come sono state amministrate le risorse. In caso di inattività o scarsa azione, si chiederanno perché generazioni che hanno avuto condizioni così propizie non siano riuscite a realizzare infrastrutture essenziali e riforme strutturali, necessarie all’efficienza del sistema sociale ed economico, accrescendo solo la massa del debito». Non si poteva essere più chiari. È appena il caso di ricordare che l’Italia nei prossimi anni ha l’opportunità di spendere oltre 300 miliardi di euro messi a disposizione dalla Ue. Oltre duecento arriveranno dal Recovery Fund, 28 dal fondo Sure per il sostegno ai lavoratori, 36 per la spesa sanitaria dal Meccanismo europeo di stabilità (se li vogliamo) e poi ci saranno i fondi europei tradizionali, sui quali dal 2021 l’Italia riceverà più di quanto sia chiamata a contribuire. Questo è anche un risultato del governo e della sua ritrovata credibilità in Europa: sarebbe stato impossibile se il Paese fosse stato retto dalla coalizione euroscettica al potere fino a 13 mesi fa. Un terzo dei fondi saranno trasferimenti di bilancio, il resto prestiti a condizioni di favore e il totale vale il 20% del Prodotto interno lordo del 2020. Per dare un’idea, il Piano Marshall fra il 1948 e 1952 valse nel complesso l’11,5% del Pil italiano dell’epoca e cambiò il Paese.

In realtà Barry Eichengreen e Brad DeLong dell’Università della California a Berkeley hanno dimostrato che ciò che davvero trasformò l’Italia e il resto d’Europa, settant’anni fa, non fu la pura e semplice forza di fuoco finanziaria. Furono le condizioni che gli americani posero agli aiuti: i Paesi potevano beneficiarne solo se abbandonavano i modelli corporativi a economia mista degli anni 30, per trasformarsi in sistemi di mercato. Il Piano Marshall fu una svolta per l’Italia perché la spinse a modernizzare (almeno in parte) le sue istituzioni economiche.

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Rete unica, il rischio di un cantiere infinito. Tim non vuole Mediaset

domenica, Settembre 6th, 2020

Il benvenuto si misura dalle parole e dall’entusiasmo con cui si accoglie l’interesse di chi aspira a essere della partita. E quella delle rete unica, chiamata a portare Internet super veloce nelle case degli italiani, è potenzialmente una partita aperta. Perché il pallino è nelle mani di Tim e dello Stato, attraverso la Cassa depositi e prestiti, ma i firmatari dell’accordo che ha sbloccato la partita sono pronti ad accogliere tutti gli interessati. Quasi tutti. Nel passaggio dall’invito all’accettazione degli interessati spunta già il primo cortocircuito. Mediaset si fa avanti, ma Tim è fredda. Ecco le parole e il non entusiasmo di Luigi Gubitosi dal Forum Ambrosetti di Cernobbio: “Mentre mi è evidente l’interesse di un operatore di tlc a partecipare, non mi è evidente quello di un fruitore di contenuti come può essere Mediaset”. 

L’intesa tra la Cassa e Tim ha appena cinque giorni di vita, ma deve scontare già gli appetiti di chi si vuole sedere al tavolo di una partita che si è fatta ancora più grande. E questo perché nel frattempo è arrivata la sentenza della Corte di giustizia europea che ha bollato come illegittimi i paletti fissati dalla legge Gasparri sugli incroci delle partecipazioni delle società. Ha detto la Corte che i francesi di Vivendi possono andare oltre il 10% dentro Mediaset anche se hanno in mano il 23,9% di un’altra società che – e qui la partita si complica – è Tim. L’effetto nuovo e dirompente della pronuncia è la rottura dei recinti che hanno diviso i media dalle tlc. Si gioca tutti nello stesso campo. E in un campo più largo: le tv insieme agli operatori di tlc e ai cosiddetti over the top, i giganti che hanno il nome di Facebook, Amazon e Netflix.

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A Cernobbio con la sacca vuota

domenica, Settembre 6th, 2020

Il tentativo di scaldare la platea di Cernobbio Giuseppe Conte lo fa a metà intervento. Nel salone di Villa d’Este che ospita il Forum Ambrosetti fino a quel momento va in scena la narrazione del Governo che ha saputo tenere in piedi il Paese resistendo a una crisi storica. I presenti accompagnano con sparuti applausi di rispetto, senza entusiasmo. E Conte dice: “Questa estate abbiamo lavorato”. L’attenzione si fa massima, anche perché non sono mancati gli imprenditori che hanno messo in dubbio l’operosità e la concretezza del Governo nelle ultime settimane. I venticinque minuti che seguono rivelano la precarietà del tentativo. Sul tavolo del Governo c’è una sacca ancora vuota. A partire dai 209 miliardi del Recovery Fund. Conte non dà mezzo dettaglio sui progetti, né una data o un’agenda di lavoro. Non sarà “un contenitore da riempire”, assicura, la sfida è “vincere i nodi strutturali”, anche perché “nessuno sa quando usciremo dal quadro economico negativo”. 

Dopo un agosto passato in silenzio, il premier prova a mettere in fila una doppia uscita pubblica. Ma se poche ore prima, alla festa del Fatto quotidiano, aveva lanciato messaggi politici molto concreti – schierandosi per il Sì al referendum, criticando la fallita alleanza fra M5S-Pd alle Regionali, slegando però il Governo dall’esito del voto amministrativo, ma soprattutto blindando la sua permanenza a palazzo Chigi anche dallo spettro di Mario Draghi – sulle rive del lago di Como il tentativo di rassicurare sull’idea di rilancio del Paese non trova lo stesso smalto. Nel salone ci sono imprenditori, rappresentanti della finanza, economisti. Gente abituata a masticare il linguaggio della concretezza e non quello delle suggestioni e delle promesse infinite. Bisogna dare risposte, quantomeno l’idea di una strategia a medio-lungo termine, insomma un segnale che il Paese, dopo il rimbalzino fisiologico post lockdown, possa instradarsi verso un recupero strutturale.

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L’economia circolare europea vale oltre 300 miliardi, manca però ancora un disegno omogeneo

domenica, Settembre 6th, 2020

MILANO – Bene l’accento che l’Unione europea sta ponendo sui temi della sostenibilità e il piano d’azione per l’Economia circolare. Il settore ha un grandissimo impatto sulle economie del Vecchio continente, che però ancora si muovono in ordine sparso su questo fronte.

Pochi numeri indicano quanto pesi la circolarità dal punto di vista economico. L’Economia Circolare è correlata a 300-380 miliardi di euro di Prodotto Interno Lordo in Europa (dato 2018, ultimo disponibile), a 27-29 miliardi di euro in Italia, a 10-12 miliardi di euro in Romania e 33-35 miliardi di euro in Spagna. Allo stesso tempo, l’Economia Circolare è legata a circa 200.000 posti di lavoro in Italia, 20.000 in Romania, 350.000 in Spagna e fino a 2,5 milioni in Europa sempre nel 2018. L’effetto sugli investimenti è quantificato in 8-9 miliardi di euro in Italia, 1-2 miliardi di euro in Romania, 9-11 miliardi di euro in Spagna e un impatto complessivo di 90-110 miliardi di euro nell’Unione Europea nel 2018. Significativi benefici sono stimati anche sulla produttività del lavoro: circa 560-590 euro per addetto all’anno in Italia, 1.210-1.270 euro per addetto in Romania (il Paese che presenta l’impatto maggiore), 640-670 euro per addetto in Spagna e 570-940 euro per addetto complessivamente a livello europeo.

A indagare il valore economico di questo comparto è lo studio “Circular Europe. Come gestire con successo la transizione da un mondo lineare a uno circolare”, realizzato da Fondazione Enel e The European House – Ambrosetti in collaborazione con Enel e Enel X e presentato al Forum di The European House – Ambrosetti, in una conferenza stampa cui hanno preso parte Valerio De Molli, Managing Partner & CEO di The European House – Ambrosetti, Francesco Starace, CEO e General Manager di Enel e Francesco Venturini, CEO di Enel X.

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Resta l’obbligo di tamponi e mascherine, il testo del nuovo Dpcm

domenica, Settembre 6th, 2020

Confermato l’obbligo di mascherina al chiuso e all’aperto se non può essere garantita la distanza di un metro tra le persone. Come pure l’obbligo di sottoporsi a tampone per chi torna dai 16 Paesi “a rischio”. Mentre la capienza per i mezzi pubblici (dopo il lungo braccio di ferro con le Regioni anche in vista della riapertura delle scuole) è stata portata all’80 per cento. Sono i principali contenuti del nuovo Dpcm che proroga i divieti fissati il 10 agosto scorso. Il decreto entra in vigore da lunedì 7 settembre.

Il decreto del presidente del Consiglio per limitare i contagi non prevede invece nessun allentamento per il pubblico degli eventi sportivi. “Nello stadio l’assembramento è inevitabile: l’apertura la trovo inopportuna”, ha detto proprio Conte respingendo le richieste avanzate dai club. “Possiamo affrontare con fiducia l’autunno – ha aggiunto però il premier – Non saremo più nelle condizioni di disporre un lockdown generalizzato, se le cose andranno male potremo intervenire con misure molto circorscitte sul piano territoriale”.

Anche quanto alle mascherine le regole non cambiano: è obbligatorio indossarle (esclusi i bambini sotto i 6 anni e i disabili) nei luoghi chiusi aperti al pubblico, mezzi inclusi, e comunque quando non si può garantire il distanziamento. Confermate le nuove regole sui mezzi pubblici, la cui capienza limite è fissata all’80 per cento dei posti (anche per chi viaggia in piedi) mentre gli scuolabus potranno viaggiare pieni purché i ragazzi non restino a bordo più di un quarto d’ora.

Confermato anche l’obbligo (fissato dal ministro Speranza il 12 agosto scorso) di sottoporsi a tampone per chi nei 14 giorni precedenti è stato in Croazia, Grecia, Spagna e Malta: si può entrare in Italia solo con un test negativo che abbia meno di 72 ore.

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La complice omertà sulla cocaina

domenica, Settembre 6th, 2020

di MICHELE BRAMBILLA

Sul Corriere della Sera di ieri Beppe Severgnini, prendendo spunto dai festini di Bologna con minorenne, ha finalmente alzato il velo sulla più colossale ipocrisia nazionale, anzi sulla più colossale censura: quella che impone di non denunciare il pericolo del consumo di cocaina. Si dice infatti che è un male lo spaccio; ma sul consumo scatta una complice omertà. L’articolo di Severgnini è un fatto importantissimo perché segna una svolta. Finora i grandi media avevano sempre glissato. Pochissime le eccezioni, fra cui la coraggiosa Maria Latella, la quale da anni grida che la droga fa male. Tutta la droga.

Scrive Severgnini: “Quando una ragazza di diciassette anni dice: ‘Mi hanno offerto agli altri, ero troppo fatta per dire no’, dovremmo farci una domanda. Perché accettiamo che la cocaina sia diventata protagonista della vita nazionale?”. E ancora: “Leggete con attenzione i resoconti in cronaca – i pestaggi, le risse, le aggressioni, perfino gli omicidi – e scoprirete che la cocaina c’entra quasi sempre”. E poi: “Chiedete alla polizia o ai carabinieri cosa c’è dietro molti incidenti stradali”. Verità ovvie, evidenti. Ma taciute, appunto, da un media system attentissimo al rispetto dell’ambiente, alle diete, alla prevenzione delle malattie. Il colesterolo e la glicemia sono veleni, ma della droga non si parla. I fumatori sono considerati assassini, dei cacciatori non parliamo neppure: ma chi consuma droga, beh, che c’è di male, sono problemi suoi. E invece no.

“Il consumo di cocaina non è soltanto affare loro, come sostiene qualcuno; è anche affare nostro”, scrive Severgnini, che propone di “rendere pubblica l’identità del consumatore abituale”, perché uno avrà pur diritto, santo Dio, di sapere se il proprio medico, il proprio sindaco o l’autista dello scuolabus del proprio figlio è uno che si fa di coca.

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Stress, isolamento, meno efficienza. Ecco il lato oscuro dello smart working

domenica, Settembre 6th, 2020

di CLAUDIA MARIN

Non è tutto smart il “lavoro agile di massa” di questi mesi. A dispetto della mistica talvolta eccessiva che ha esaltato questa formula come la salvezza dell’economia e dello stipendio, proprio le esperienze di questa stagione mettono in evidenza anche quello che è stato definito “il lato oscuro dello smart working”. Un lato fatto di isolamento, stress, prigionia domestica, connessione continua o raddoppio dell’impegno (principalmente per le donne), ma anche di drastico crollo della produttività degli stessi lavoratori, come nel pubblico impiego, con la perdita verticale di efficienza nei servizi pubblici.

I numeri e le ragioni dell’impennata del fenomeno sono noti. L’emergenza Coronavirus ha imposto un’accelerazione senza precedenti. E così, in pochissime settimane, ci siamo trovati a essere un popolo di smart workers: dati Istat alla mano, con milioni di addetti in cassa integrazione, si è passati dall’1,2 per cento all’8,8 in pieno lockdown per stabilizzarsi al 5,3 nella fase 2 e 3, ma con punte dell’80 per cento nel pubblico impiego. Insomma, 4-5 milioni di persone, che per la Fondazione Studi dei consulenti del lavoro, potrebbero arrivare a 8 milioni.

La grande sperimentazione di massa della formula, però, ha fatto emergere i limiti e le controindicazioni connesse a un passaggio travolgente avvenuto largamente senza cambi di organizzazione produttiva e di mentalità, senza tecnologie adeguate, digitalizzazione diffusa e precauzioni opportune. Tanto che, non a caso, se vi sono giganti che confermano oggi strutturalmente e per tutti la tendenza, come la Banca Schroders, altri stanno tornando indietro, almeno in parte.

Covid, lavoratori fragili. “L’età non basta per esserlo”

Se guardiamo agli effetti “negativi” a livello individuale, un sondaggio di LinkedIn ha rivelato che una quota del 46 per cento degli italiani in smart working nel settore privato ha dichiarato di sentirsi più ansiosa e stressata per il proprio lavoro rispetto a prima, manifestando disagio, fatica, stati di agitazione, insonnia, attacchi di panico. E non mancano esperti di medicina del lavoro che parlano di vera e propria sindrome da burnout da smart working.

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Cacciari e il Covid: ora torniamo a vivere. “La paura uccide, chi fugge è un disertore”

domenica, Settembre 6th, 2020

di RAFFAELE MARMO

“Il termine paura deriva da ’phobos’ e da qui le fobie. Ma ha la stessa radice di ’feugo’, che vuol dire fuggire. Ma se la paura ci fa fuggire, è un disastro, una pre-morte”. Massimo Cacciari, da filosofo di rango, la prende da lontano, ma arriva molto diretto e molto vicino a noi. “Bisogna tornare a lavoro, bisogna tornare a scuola e nelle università. Ogni assenza, per il terrore del virus, sarebbe una diserzione intollerabile. Non possiamo permetterci un altro lockdown. Sarebbe una catasfrofe”.

Professore, gli italiani hanno avuto e tornano ad avere paura del Coronavirus: siamo al 90 per cento per Ilvo Diamanti.

“La paura è qualcosa di ragionevole, perché siamo in presenza di un’epidemia che non è passata e per la quale non abbiamo strumenti efficaci per combatterla. Ma la paura non può e non deve trasformarsi in fuga. Dobbiamo capire che, superata una fase di estrema emergenza che poteva anche consigliare il chiudersi in casa, questa non può essere una situazione che si ripete perché altrimenti non si trasforma neanche in fuga ma in morte. In auto-sepoltura”.

Dunque, nessuna paura e nessun alibi per non tornare a scuola o in ufficio.

“Con una paura che non è fuga, ma attenzione, precauzione, intelligenza. Consapevolezza dei propri limiti. Ma bisogna tornare a scuola perché non si fa scuola a distanza, perché la scuola è comunicazione, è comunità. In tutti i settori privati si è tornati a lavorare: e quelli che lo hanno fatto non sono suicidi, come non sono assassini i datori di lavoro. Non è possibile, per esempio, che a Milano su 30mila dipendenti del comune ve ne siano solo tremila in ufficio. Questo significa non fare gli atti e chi paga per questo sono sempre i cittadini più deboli economicamente e culturalmente”.

Ma non è che noi italiani abbiamo, più di altri, paura della morte anche per ragioni che affondano nel nostro retroterra storico-culturale?

“Può darsi che questo aspetto abbia un ruolo. Popoli europei con un’etica protestante hanno una cultura più dura del lavoro inteso come missione che va affrontato anche correndo rischi e pericoli. Noi, se possiamo, tendiamo a evitarci missione e pericoli. Anche l’etica della morte è differente. Noi ci affidiamo di più alla grazia del Signore. Però queste differenze tendono anche a scomparire e rimangono le grandi differenze tra sistemi politici e sistemi di servizi pubblici”.

Si riferisce a come la politica ha gestito l’emergenza e a come affronta l’autunno?

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Vaccino coronavirus, Speranza: «All’inizio avremo poche dosi. Le prime a medici e anziani»

domenica, Settembre 6th, 2020

di Monica Guerzoni

Ministro Roberto Speranza, il Covid ha rialzato la testa. Quanto è preoccupato?
«Non ho mai abbassato la guardia e sono preoccupato anche ora. L’autunno non sarà facile e ritengo vada gestito con la massima cautela. Eppure sono ottimista, vedo la luce in fondo al tunnel. Nel giro di alcuni mesi avremo risultati incoraggianti sia per le cure che per i vaccini. Ora dobbiamo resistere».

Resistere, fino a quando?
«Fino al vaccino dobbiamo tenere altissimo il livello di attenzione, anche se il quadro italiano è diverso per fortuna rispetto ad altri Paesi europei».

Si rischia un nuovo lockdown?
«No. Non è nostra intenzione fermare di nuovo il Paese. Abbiamo investito molte risorse e rafforzato il Servizio sanitario nazionale. Non chiudiamo, anzi riapriamo le scuole».

Quanti alunni e docenti positivi avete stimato? Conte ha detto che 50 mila non sarebbero tanti.
«Non ci sono stime, ma sarebbe sconsiderato immaginare che in Italia non ci saranno casi positivi. Il mio auspicio è che siano il numero più basso possibile, molto dipenderà dalla capacità di rispettare le tre regole fondamentali: mascherine, distanziamento e lavaggio delle mani».

Rinviare l’apertura nazionale è ancora una possibilità?
«No, ci sono le condizioni per riaprire in sicurezza tutte le scuole a settembre. Le linee guida approvate all’unanimità con Regioni, Province e Comuni ci dicono cosa fare in presenza di positivi o focolai. Il Paese deve fare ancora passi avanti e riaprire la scuola è la cosa più importante».

Se fallite può cadere il governo?
«Basta con la campagna elettorale sulla scuola. La riapertura è una grande sfida di tutta la comunità nazionale».

È un appello all’opposizione? A Salvini?
«No, è un messaggio al Paese. Dobbiamo recuperare quello slancio nazionale che ci ha consentito di superare i mesi più difficili. In primavera il Paese si è stretto a coorte, come dice il nostro Inno. Siamo riusciti a piegare la curva dei contagi perché c’è stata una sintonia profonda tra le misure del governo e il sentire comune delle persone. Il 14 settembre è una data troppo importante. Vi prego, immaginare due settimane di campagna elettorale sulla scuola è pura follia. Questa sfida si vince con un patto che coinvolga tutto il Paese, nessuno escluso».

Che effetto le fa la piazza negazionista di Roma?
«Mi fa venire i brividi. Con oltre 35 mila morti quelle immagini sono inaccettabili».

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L’ultimo delirio di un quaquaraquà

sabato, Settembre 5th, 2020

Alessandro Sallusti

«Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà», fa dire Leonardo Sciascia al protagonista del suo romanzo Il giorno della civetta.

Io non ho tanta pratica del mondo, ma nel mio piccolo penso che Carlo De Benedetti, volendo usare quelle categorie, non appartenga alla prima e neppure alla seconda. Infatti non dico gli uomini, ma neppure i mezzi uomini dicono a un rivale in grave difficoltà di salute: «Mi spiace, ma è un imbroglione», come ieri Carlo De Benedetti ha detto su Silvio Berlusconi ricoverato al San Raffaele di Milano per complicazioni da coronavirus. È una espressione da ominicchi, da pigliainculo e da quaquaraquà, categorie che l’ex editore della Repubblica riassume, sia pure con un certo stile vivendo nei dorati salotti svizzeri.

Se Berlusconi è «un imbroglione» vorrei sapere come De Benedetti definirebbe un imprenditore (lui stesso) arrestato dopo avere ammesso di avere pagato, da presidente della Olivetti, dieci miliardi di tangenti, un imprenditore (sempre lui stesso) coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano oltre che in inchieste per insider trading e in una lunga serie di fallimenti, risanati sempre con denaro altrui.

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