di Carlo Verdelli
Forse abbiamo un problema più
urgente del Recovery Fund, dell’esito del referendum o di chi vincerà
alle prossime Regionali. Persino più urgente dell’onda rimontante dei
contagiati dal Coronavirus. Il problema è
la rabbia, che sta sradicando le protezioni sociali che la contenevano e
dilaga senza freni, senza limiti. Il problema è che cosa stiamo
diventando come Paese, rassegnati al peggio.
Il problema, per esempio, è Willy Monteiro Duarte, straziato di botte e lasciato lì a rantolare, rannicchiato come un feto, in una piazza di Colleferro, che è intorno a Roma ma potrebbe essere ovunque. Willy pestato a sangue e a morte da tre o quattro balordi tatuati, appena più adulti di lui, scesi da un suv nero per sistemare a modo loro un inizio di rissa. Lui che prova a rialzarsi da terra dopo ogni scarica di colpi, facendosi forza sulle braccia, fino alla botta letale. Aveva cercato di smorzare gli animi appena si erano accesi, in soccorso di un amico finito sotto il tiro dei nuovi selvaggi. Dai, smettetela, andiamo via. «Non dimenticherò mai il rumore del suo corpo che cadeva», dirà un testimone. Sono le tre di notte, finirà di spegnersi alle cinque, squassato da una furia senza causa, senza senso. La fine tragica di un sabato italiano, ma di un’Italia brutta e cattiva che non vogliamo riconoscere, più indifferenti che allarmati.
Il funerale di Willy, oggi, è il funerale di una nazione che
non sa più educare né proteggere i propri figli, dove accelerano, come
ha scritto su questo giornale Walter Veltroni, i rischi di scollamento. Ed è l’odio per l’odio, epidemia sottovalutata,
a fare da solvente a quella colla sociale che ha fatto di noi una
democrazia rispettabile e rispettata. L’odio per chi è diverso, per chi
viene da fuori, per chi è grasso, per chi è debole, per le donne, per
chi ha un handicap, per chi prova ad opporsi alla legge del più forte,
che non rientra, non ancora almeno, tra le leggi che come nazione ci
siamo dati.