Serve trasparenza, chiarezza ed efficacia. Governo prenda esempio da ciò che funziona in Europa “Mentre il governo francese continua a lavorare per garantire che il recovery plan produca effetti rapidi ed efficaci, in Italia è il caos”. Lo afferma Sandro Gozi, deputato europeo di Renew Europe, che aggiunge: “In Francia, ogni mese, il governo pubblica un “tableau de bord” con una panoramica dei progetti finanziati, gli obiettivi attesi e una mappa della Francia per aiutarci a situarli. Grazie a questo sistema semplice e leggibile, si può facilmente capire come, quando e dove vengono ridistribuite le risorse del Recovery: occupazione giovanile, transizione ecologica, competitività, aiuti ai commercianti, ecc. Giusto per dare un esempio, France Relance ha finanziato 141.145 progetti per migliorare l’isolamento termico delle case e 485.000 contratti di apprendistato che sono stati firmati dall’inizio del 2020″. “In Italia, invece, è una confusione totale. L’adozione della prima bozza del Recovery – continua Gozi – è senza dubbio una buona notizia, ma non basta adottarla. Bisogna che sia efficace. Non ci sono obiettivi chiari e le modalità di attuazione rimangono vaghe. Nonostante il governo abbia finalmente rivelato su quali pilastri si baserà il piano e quanti fondi verranno allocati per ogni pilastro, non abbiamo scadenze precise ed esempi concreti di quali progetti verranno finanziati. Dobbiamo ancora capire come la sua attuazione avrà un impatto positivo sulla crescita, l’occupazione e la transizione ecologica”.
Muoviamo una per volta le pedine sulla scacchiera.Conte deve trovare una quindicina di senatori per poter far passare nelle commissioni la linea del governo. Le commissioni
sono il motore dell’attività legislativa. Se un governo non ha una
maggioranza stabile non va da nessuna parte. Ammettiamo che li trovi.
Lasciamo da parte il Superiore Interesse del Paese. Uno che passa
dall’opposizione alla maggioranza vuole in cambio qualcosa di concreto: un posto di governo e/o soprattutto la garanzia della rielezione. Sono entrambi punti problematici. Con i seggi passati da 930 a 600, il Pd non potrà nemmeno confermare tutti i suoi, figuriamoci se può fare una massiccia campagna acquisti.
Il M5s sta messo molto peggio. Soltanto se Conte facesse un proprio partito accreditato dai sondaggi di almeno il 10-12 per cento potrebbe accogliere i transfughi
di oggi (lo farebbe massacrando il Pd, ma questo è un altro discorso).
Ma fino a quando il premier continua a smentire questa possibilità, la
pistola è scarica. Il secondo punto è trovare posti di governo. Italia Viva
ha lasciato due incarichi di ministro e uno di sottosegretario. Non
bastano. E allora? Spacchettare i ministeri per moltiplicarli? Ci serve
una legge perché col Conte bis siamo arrivati a 21 ministri e 44 tra
vice ministri e sottosegretari che è il numero massimo previsto dalla
legge. Per andare oltre occorrerebbe un decreto, assai impopolare in
questo momento.
C’è un altro problema. E’ possibile fare un rimpasto ampio senza passare per le dimissioni e un reincarico? Sembra di no. Mattarella
è muto, ma non cieco. Ci sono limiti invalicabili. Un nuovo governo
Conte consentirebbe di sostituire ministri inadeguati (ce ne sono) che
mai si dimetterebbero spontaneamente. (Nel 1990 Andreotti sostituì in un
nanosecondo i cinque ministri della sinistra Dc che si dimisero per
protesta contro la legge che assegnava tre reti a Berlusconi. Ma quelli,
appunto, si dimisero. Questi no).
Un nuovo governo darebbe all’esecutivo una maggiore compattezza politica e soprattutto una maggiore autorevolezza.
Le televisioni unificate governative ripetono che in Italia è stato vaccinato più d’un milione di persone, ma è falso.
Per
«vaccinare» occorrono sia la prima che la seconda dose del farmaco
della Pfizer la cui produzione è andata in crisi. I veri «vaccinati» con
due dosi sono meno di ventimila, come dire zero virgola.
Non solo
cala il numero di vaccini in arrivo ma crescono le mutazioni del virus:
dopo quella inglese arriva anche la francese, che lasciano temere
stragi non perché siano più mortali, ma più contagiose. E se cresce il
numero dei contagiati, essendo la percentuale di chi ci rimette la pelle
è una costante sul numero complessivo, ne consegue che se il governo
non fa qualcosa subito, darà presto troppo tardi.
L’altra cattiva
notizia è che non ci sarà alcuna immunità di gregge per ottenere la
quale occorrerebbe almeno il settanta per cento della popolazione
vaccinata. Come scongiurare un lockdown non meno letale dell’epidemia?
Il governo fa sapere che il commissario Arcuri minaccia azioni legali
contro la Pfizer. Tempo perso.
Il giudizio dei mercati e quello
dell’Europa: i timori del Quirinale si erano già in parte materializzati
con i malumori Ue sul Recovery italiano.
Ieri
la conferma che la nuova fase politica – al netto del teatrino –
potrebbe avere ripercussioni pesanti. Prima il ritorno dello spread poi
un avviso di Moody’s infine una seduta negativa per Piazza Affari, su
spunti tutti politici.
A dare il senso del clima, il report
dell’agenzia di rating nel quale si legge che «una maggioranza più
fragile intensifica le sfide post-pandemiche». Il Paese rischia di
essere meno attraente per gli investitori, a causa del contrasto tra i
numeri risicati al Senato e la mole di appuntamenti che il Paese deve
affrontare.
«Mentre le elezioni anticipate sono improbabili –
scrivono gli analisti Moody’s – questo governo indebolito deve far
fronte a imponenti sfide sia nel gestire l’attuale fase della pandemia
che nell’assicurare un utilizzo efficace e tempestivo dei finanziamenti
del Recovery Fund, che sono cruciali per migliorare il basso potenziale
di crescita dell’Italia».
Una sveglia per i tanti che in questi
giorni si sono concentrati sulle dinamiche interne della politica
domestica piuttosto che sui fondamentali.
Tra le righe, emerge una
certa preferenza dell’agenzia di Moody’s per il voto. Ma le elezioni
«non sono nell’interesse di nessun partner della coalizione, perché la
riforma costituzionale passata l’anno scorso ha ridotto il numero dei
seggi in Parlamento e le prossime elezioni comporteranno inevitabilmente
il fatto che qualcuno perderà il proprio posto». Il taglio dei
parlamentari, insomma, impedisce un chiarimento del quadro politico.
Incertezza anche per i sondaggi che danno i due schieramenti in
equilibrio. Poi ci sono i tempi strettissimi prima del semestre bianco.
Aveva dieci anni, tre profili Facebook e almeno due su TikTok. È morta strangolandosi in bagno con la cintura dell’accappatoio, voleva filmarsi nella spaventosa sfida Black out challenge. Gli investigatori stanno cercando di capire se sia stata la bambina a creare le identità virtuali o un adulto abbia provveduto per lei. Ma nel frattempo il Garante per la protezione dei dati personali «ha disposto nei confronti di TikTok il blocco immediato dell’uso dei dati degli utenti per i quali non sia stata accertata con sicurezza l’età anagrafica». Un provvedimento che lancia un segnale forte a tutti i social e crea un importante precedente: chi non si adegua, sarà sottoposto alla medesima disposizione.
TUTELA DEI MINORI L’authority
«ha deciso di intervenire in via d’urgenza a seguito della terribile
vicenda della bambina di dieci anni di Palermo», spiega in una nota. Ma
già lo scorso dicembre «il garante aveva contestato a TikTok una serie
di violazioni: scarsa attenzione alla tutela dei minori; facilità con la
quale è aggirabile il divieto, previsto dalla stessa piattaforma, di iscriversi per i minori sotto i 13 anni;
poca trasparenza e chiarezza nelle informazioni rese agli utenti; uso
di impostazioni predefinite non rispettose della privacy». In attesa di
ricevere il riscontro richiesto con l’atto di contestazione, l’autorità
ha deciso comunque di intervenire «al fine di assicurare immediata
tutela ai minori iscritti al social network presenti in Italia». Ha
quindi vietato a TikTok l’ulteriore trattamento dei dati degli utenti
«per i quali non vi sia assoluta certezza dell’età e, conseguentemente,
del rispetto delle disposizioni collegate al requisito anagrafico». Il
divieto «durerà per il momento fino al 15 febbraio, data entro la quale
il Garante si è riservato ulteriori valutazioni. Il provvedimento di
blocco verrà portato all’attenzione dell’Autorità irlandese, considerato
che recentemente TikTok ha comunicato di avere fissato il proprio
stabilimento principale in Irlanda». Il mondo dei social è avvisato.
Tutte le piattaforme principali, da Facebook a Instagram, da Twitter a
YouTube, fissano a tredici anni l’età minima per l’iscrizione, chi non
vigila incorrerà nell’azione del Garante che impone il blocco dell’utilizzo dei dati personali dell’utente
di cui non è in grado di dimostrare il requisito anagrafico. Un
intervento per effetto del quale il minore potrà essere semplice
fruitore della piattaforma ma non caricare contenuti, se tenta di farlo
viene estromesso dall’account.
Scompare il pulsante rosso dalla scrivania dello studio ovale del presidente degli Stati Uniti. Questa è la prima “rivoluzione” del neo capo di Stato Usa Joe Biden. Quel pulsante, però, non serviva per dare il via una minaccia internazionale con chissà quale attacco nucleare, ma era, semplicemente, il modo che aveva Donald Trump per farsi portare in ufficio una Coca-Cola light.
A
notare la differenza è stato il giornalista della Radio del Times, Tom
Newton Dunn, che ricorda di quando, insieme a Tim Shipman del Sunday
Times, intervistò Trump nel 2019.
“Siamo rimasti affascinati da
cil che ha fatto il bottoncino rosso. Alla fine Trump lo aveva premuto e
un maggiordomo aveva portato subito una Coca-cola light su un piatto
d’argento. Adesso non c’è più”, commenta Newton Dunn su Twitter.
Senatrice Teresa Bellanova, prima di tutto una domanda personale: sempre convinta di aver fatto bene a dimettersi? «Sì, sono a posto con la mia coscienza. Per mesi abbiamo posto questioni rilevanti ma senza risposte. Per me è stato oltremodo doloroso lasciare tanto lavoro a metà, ma non dimentico tutte le battaglie fatte: per gli invisibili, per il Fondo ristorazione, per le emergenze alimentari, per la decontribuzione, per mettere in sicurezza un settore straordinario che ha servito il Paese con responsabilità istituzionale. Continuerò ad occuparmi di materie che ritengo strategiche. Sono cresciuta con l’idea che la politica serva a qualcosa, non a qualcuno. Non eravamo al Governo per vivacchiare ma per affrontare i problemi, a viso aperto. Siamo stati gli unici a puntare il dito contro un immobilismo pericolosissimo. Per noi è molto chiaro: l’emergenza non può essere il salvacondotto per il Governo. Che invece ha solo un compito: affrontarla come si deve. Adesso sembra che tutti vogliano correre. Evidentemente questo gesto forte era necessario». Perché non avete colto l’offerta, sia pure in extremis, del premier di un tavolo programmatico evitando uno strappo difficile ora da ricucire? «Quei temi meritano risposte nel merito che non sono arrivate. Non dico la risposta, dico almeno la disponibilità concreta a discuterne. La lettera al Presidente Mattarella è stato solo l’ultimo atto». Il gruppo di centro su cui puntava Conte non sta decollando e in queste ore non c’è chi non parli di rischio elezioni. Una possibilità più concreta rispetto a sette giorni fa? «La minaccia di elezioni è un’arma spuntata e il richiamarle costantemente produce solo un ulteriore indebolimento della politica. Recovery Plan e vaccini sono determinanti per la ripartenza: non può essere una maggioranza numerica recuperata alla bell’e meglio o una politica impegnata nella campagna elettorale a determinare la qualità che serve all’azione di governo. E’ un bene che adesso tutti stiano apprezzando la centralità del Parlamento». In queste ultime ore sembra stia aumentando il pressing su Conte perché si dimetta e si arrivi a un Conte ter. Il suo pensiero? «Lo abbiamo già detto: il punto vero è il merito. I nomi sono importanti ma non determinanti. Non è il tempo di esasperanti personalizzazioni; più si personalizza, più si eludono le questioni concrete. Serve un programma di fine legislatura all’altezza non solo della contingenza della crisi ma capace di avviare a soluzione ritardi pluridecennali: più visione, più investimenti, più formazione, molta più alleanza con chi sul Paese continua a scommettere. Chi è su questa lunghezza d’onda può essere un buon alleato». Italia Viva sta provando a tornare in partita. Ma come la mettete con i veti detti e ripetuti su Renzi da parte non solo di Conte ma anche di Zingaretti e Di Maio? «La politica è fatta di scelte, non di veti. Li considero inaccettabili. Non abbiamo posto veti ma imposto temi. E’ sconcertante essere considerati scomodi per questo. Ai partiti di maggioranza dico: meno furbizia e meno asprezze. Sembro troppo ingenua o ottimista se mi auguro un soprassalto di onestà intellettuale?».
L’ipotesi inizia a filtrare poco prima
dell’ora di pranzo. Il messaggio in arrivo sull’asse Roma-Milano che
«piove» su pochi, riservati cellulari dei rappresentanti istituzionali
in città, mette in allerta: «Contrariamente alle previsioni e alle attese, col nuovo monitoraggio la Lombardia tornerà “arancione”».
I due palazzi nei quali il messaggio
determina un’attivazione immediata sono in corso Monforte e in Foro
Bonaparte. Perché Milano ha un «piano ripartenza» già definito da prima
di Natale, ma che era rimasto congelato dai continui stop ang go determinati dalla scala dei colori del decreto anti-Covid e dal percorso giudiziario amministrativo davanti al Tar. La sequenza di «capriole»:
le scuole superiori riaprono il 7 gennaio; poi vengono rimandate
all’11; dopo, un’ordinanza regionale le chiude fino al 24; l’ordinanza
viene «cassata» dal Tar e si ipotizza un’apertura il 18; il passaggio
della Lombardia in «rosso» fa slittare infine tutto all’1 febbraio. In
questa sequenza di rovesciamenti, la «retrocessione» della Lombardia in
«arancione» di ieri spazza tutte le carte dal tavolo e chiude (per il
momento) la partita. La didattica in presenza per gli studenti superiori
riparte il 25 gennaio.
Nel pomeriggio il prefetto, Renato Saccone, detta la linea: «Si riparte lunedì. Non si può concedere altro tempo». Il risultato è che scatta una corsa contro il tempo.
Perché il sistema scuola/trasporti fondato su scaglionamento degli
orari e potenziamento dei mezzi, già pronto, ma che prima di Natale
aveva una decina di giorni per la messa in atto, a questo punto dovrà
partire in 48 ore. In Foro Buonaparte ingegneri e direttori operazioni
Atm si attivano per stringere i tempi il più possibile. Ci sono turni da
riorganizzare. Contratti con i privati tenuti in stand-by da far partire.
Il piano straordinario di potenziamento dei trasporti
prevede: 1.200 corse aggiuntive su tutta la rete, tra cui le oltre 800
dedicate agli studenti e 60 bus navetta per 32 istituti più frequentati;
incremento nell’uso dei bus turistici su ulteriori 5 linee (in aggiunta
alle 8 linee già partite) in affidamento a operatori privati (una
scelta che permette di «liberare» mezzi Atm per potenziare 18 linee
urbane e suburbane «a elevata frequentazione»). In più, servizio
riprogrammato su alcune «linee di forza», con 180 corse al giorno in
più, e 8 treni aggiuntivi in metrò nelle ore di punta.
Da Atm ieri sera filtrava la fiducia di riuscire a mettere in strada praticamente tutti i mezzi aggiuntivi,
pur con un preavviso così stretto. Il tema però è più ampio. Visto che
il decreto impone una capacità dimezzata su tutti i mezzi pubblici, la
rete del trasporto «reggerà» soltanto se il resto del sistema riuscirà
ad adeguarsi. Tradotto: se le scuole riusciranno a scaglionare gli
ingressi per diluire gli spostamenti nelle ore di punta, tra le 7.30 e
le 9.30. Altrimenti, saranno possibili blocchi dei tornelli del metrò,
«salti» delle fermate, attese prolungate.
Sarà la norma, bisogna abituarsi. La legge elettorale in vigore è formalmente mista (proporzionale
più una residua quota maggioritaria) ma i comportamenti politici, in
questa legislatura, sono stati identici a quelli che si hanno in tempi
di proporzionale pura. Come si è visto in questi anni i governi si
formano e si disfano in Parlamento e i partiti possono designare come
primo ministro chiunque vogliano, anche chi non disponga di una
precedente legittimazione elettorale.
Si va da un governo all’altro, dal Conte 1 (5 Stelle e Lega) al Conte 2 (5 Stelle e Pd), senza passaggi elettorali e quando, come è appena accaduto, un partito di governo se ne va aprendo una falla nella maggioranza, il primo ministro va a caccia di transfughi che possano tappare il buco. Il probabile imminente varo di una legge elettorale compiutamente proporzionale (auspicato da Conte) non sarà quindi uno strappo molto forte. Le coalizioni di centrosinistra e di centrodestra rimarranno in vigore a livello locale e regionale (dove vige il principio maggioritario). La novità sarà che quelle coalizioni non esisteranno più neanche formalmente a livello nazionale.
A dirlo oggi si rischia di passare per nostalgici di una stagione ormai conclusa ma ci sono
due ottime ragioni per preferire i sistemi maggioritari a quelli
proporzionali. La prima è che, in regime di maggioritario, la guida del
governo spetta a chi ha ricevuto un mandato popolare: Silvio Berlusconi e
Romano Prodi, nella breve stagione maggioritaria, si alternarono al
governo del Paese in funzione dei voti presi dalle coalizioni da essi
guidate. Il vincitore aveva la forza di chi ha ricevuto una investitura
elettorale. Niente di strano. È ciò che accade normalmente in democrazie
così diverse (una parlamentare, una semi-presidenziale, una
presidenziale) come la britannica, la francese, la statunitense. State
certi che da noi ciò non accadrà mai più.
Ma c’è anche una seconda ragione per apprezzare i sistemi maggioritari. Confrontiamo
una democrazia ove il principio maggioritario si sia consolidato (in
Italia non avvenne, la stagione maggioritaria fu troppo breve) con una
democrazia ove sia in vigore la proporzionale e che, per giunta — è la
situazione italiana di oggi — sia priva di partiti solidi, strutturati,
con un forte insediamento su gran parte del territorio nazionale. Da un
caso all’altro varierà drammaticamente il rapporto fra i «beni privati»
che il governo distribuisce e i «beni pubblici» che esso produce. I beni
privati sono benefici ad hoc
distribuiti a singole persone o a gruppi di persone. Sono il frutto di
politiche assistenziali o clientelari o una loro combinazione. Invece i
«beni pubblici» sono benefici che ricadono sulla collettività nel suo
insieme: misure per la crescita economica, investimenti in
infrastrutture o nell’istruzione, riforme volte a dare più efficienza
all’amministrazione, al sistema giudiziario, eccetera.
Checché ne pensino coloro che amano discettare di mondi mai esistiti, anche il miglior
governo concepibile distribuirà, per lo meno, una quota minima di beni
privati. Il punto è un altro: il governo che stiamo osservando si
impegna anche nella produzione di beni pubblici (beni per la
collettività) oppure la distribuzione di beni privati è la sua attività
prevalente?
I sistemi maggioritari quando sono consolidati favoriscono, per lo meno, un certo equilibrio: i
governi distribuiranno una quota di beni privati ma senza rinunciare a
generare beni pubblici. Una prova indiretta è data dal fatto che in
tempi normali (senza pandemie o guerre) questi governi gestiscono le
finanze pubbliche con più rigore di quanto non facciano i governi
espressi da sistemi proporzionali.
Perché ciò accade? Perché laddove sono in vigore sistemi maggioritari di solito è più lunga
la permanenza in carica del capo del governo e dei suoi ministri. I
titolari dei ministeri si aspettano di restare tali, salvo incidenti di
percorso, per diversi anni. Hanno il tempo per produrre beni pubblici,
ossia per migliorare il loro settore di competenza. Sanno che, alla fine
del mandato, saranno giudicati anche per questo. Inoltre, i
parlamentari di maggioranza sono sottomessi al governo dal cui successo
dipendono le loro chance di rielezione.
Dall’indice di contagio, fino al numero di nuovi casi e alle chiamate ai servizi d’emergenza, sono vari i segnali positivi che portano la Lombardia in zona arancione, al di là delle polemiche tra governo e Regione. Ma ci sono anche spie da tenere d’occhio, che spingono alla cautela.
Partiamo dall’indice di contagio Rt. Nell’ultimo monitoraggio della cabina di regia dell’Istituto superiore di sanità si calcola che sia a 0,82, tra i più bassi in Italia e al di sotto della soglia critica di 1. Segno che le misure di contenimento stanno facendo effetto. Il dato, come per le altre Regioni, è riferito al 6 gennaio 2021, quindi a due settimane fa ed è calcolato sui casi sintomatici. Ma il Pirellone tiene sotto controllo anche altri fattori. Tra questi ci sono le chiamate ai numeri d’emergenza, in particolare quelle per problemi respiratori e infettivi. Dopo il picco di novembre 2020 e una piccola risalita nei primissimi giorni di gennaio, ora sono di nuovo in discesa. I pronto soccorso in questo momento non sono sotto stress, come raccontato nei giorni scorsi da diversi medici. In calo anche il numero di positivi registrati quotidianamente, ma bisogna sempre tenere conto che questo dato è influenzato dalla quantità di tamponi fatti.
La situazione però non è omogenea in tutto il territorio.
Se si osserva l’incremento settimanale dei contagi e il numero di casi
ogni 100 mila abitanti, emergono grandi differenze tra le province. Bergamo, duramente colpita nella prima fase dell’epidemia, ora vive una situazione meno grave. Facendo leva su questi numeri, il sindaco Giorgio Gori nei giorni scorsi aveva chiesto una deroga alla zona rossa. Destano invece più preoccupazione Varese e Mantova.
Quest’ultima provincia in particolare richiederebbe limitazioni più
stringenti per arginare la diffusione del virus. Tornando agli ospedali,
due indicatori calano in modo meno deciso o non calano affatto: i
pazienti ricoverati nei reparti a media intensità di cura e quelli in terapia intensiva.
Nei grafici la prima curva è leggermente risalita negli ultimi giorni,
la seconda scende lentamente. Le strutture sanitarie quindi devono
ancora fare i conti con la gestione giornaliera dell’epidemia, oltre a
occuparsi delle altre patologie e in caso di una rapida crescita dei
contagi sarebbero già parzialmente impegnate.