Giorgia Martone morta a 41 anni durante un’operazione: «Dopo pochi minuti lo shock sotto i ferri» shadow Un lutto terribile scuote il mondo della imprenditoria e della moda: Giorgia Martone, 41 anni, è morta l’altro ieri durante un’operazione che sarebbe dovuta durare solo un quarto d’ora all’Ospedale San Giuseppe di Milano. Figlia di Roberto, il fondatore del colosso Icr, Industrie Cosmetiche Riunite di Lodi, è improvvisamente deceduta dopo solo pochi minuti sotto i ferri: uno shock che succede rarissime volte e che invece ha colpito proprio la giovane esperta di fragranze. «Non riusciamo a crederci, è accaduto tutto improvvisamente, anche l’equipe medica è sgomenta», dice al Corriere la sorella Ambra, unitissima a Giorgia, tanto che gli amici le consideravano quasi gemelle. Creativa nell’azienda di famiglia Giorgia lavorava all’interno della storica azienda di famiglia, tra le più importanti d’Italia secondo l’ultima classifica di Forbes, e faceva la ricercatrice nel campo della profumeria. Il suo, rispetto a quello della sorella Ambra, con cui lavorava fianco a fianco, era un ruolo più di creatività e inventiva. Giorgia inoltre ricopriva il ruolo di consigliera d’amministrazione della Icr. Laureata alla Bocconi di Milano con specializzazione in Design & Fashion Management, subito dopo la laurea aveva deciso di intraprendere un’esperienza negli Stati Uniti con un apprendistato in «Materie Prime, Storia del profumo e fragranze» nella multinazionale Symrise e nel 2005 era tornata in Italia, a Lodi, per raggiungere il padre, Roberto.
Dunque, Roberto Fico, proprio come aveva chiesto ieri al Presidente della Repubblica Matteo Renzi, che infatti mostra di gradire la decisione di Sergio Mattarella:
«È una scelta saggia». Un altro giro di consultazioni è quello di cui
il leader di Italia viva ha bisogno per piazzare le sue pedine e fare le
sue mosse.
Il Conte ter è sempre all’orizzonte, però secondo l’ex premier c’è il tempo per trovare l’intesa su un altro nome o per porre delle condizioni stringenti al presidente del Consiglio dimissionario. La parola d’ordine è «discontinuità» perché, ripete Renzi, «io non ce l’ho con Conte anche se lui ha posto un veto su di me quando pensava di trovare un bel gruppo di responsabili».
Già, il problema del premier per il leader di Italia viva è un altro: il senatore di Scandicci è stufo di veder derubricato il braccio di ferro con l’inquilino di palazzo Chigi a un problema personale, a uno scontro tra caratteri: «Il governo — ripete ai suoi Renzi — è caduto sulla sua incapacità di fare le cose». È su questo che l’ex premier se ne è andato, «non perché a me sta antipatico Conte e io sto antipatico a lui».
Del resto non bisogna scordare che il leader di Italia viva nell’agosto del 2019, quando stava ancora nel Pd, ha lanciato l’attuale governo accettando di stare in maggioranza con i grillini con cui aveva litigato ferocemente fino al giorno prima. Perciò rifiuta la vulgata che lo vuole contro Conte per «un fatto personale». E infatti si tiene tutte le strade aperte come dimostrano le accomodanti dichiarazioni di ieri di Ettore Rosato: «Noi non abbiamo posto veti a Conte. Ci sono tutti i presupposti per fare un buon lavoro», spiega il vice presidente della Camera. Che poi plaude alla repentina inversione di marcia dei grillini che nel giro di meno di 48 ore sono passati da «giammai con Renzi» a «non ci sono veti nei confronti di Iv»: «Le parole dei 5 Stelle vanno in direzione delle richieste di Italia viva, c’è la volontà di costruire una maggioranza politica seria, Si può varare un programma di fine legislatura».
Partiamo da un punto fermo. Matteo Renzi farà il possibile perché
Giuseppe Conte non resti a Palazzo Chigi. Coperto dal ‘niente di
personale’, il senatore di Rignano cercherà d’irretire Conte in una
ragnatela sfinente di temi, problemi, richieste ai quali le risposte non
saranno mai giudicate soddisfacenti. Escludendo le elezioni anticipate,
che non gli convengono, Renzi ha la prima scelta in un governo diretto
da Franceschini, la seconda in un governo di unità nazionale (Cartabia,
per esempio), la terza in un nuovo governo Conte in cui Italia Viva
faccia un bottino da lanzichenecchi.
Ieri sera i giochi si sono tuttavia incartati. Mentre l’ala ufficiale
e “governativa” del M5s è uscita dal Quirinale con una vistosa apertura
a Renzi , Alessandro Di Battista un minuto dopo ha minacciato di
andarsene in caso di alleanza col senatore di Rignano, portandosi dietro
– dicono gli esperti – da cinque a otto senatori. Salvo poi smentire la
scissione e minacciare di fare il Cincinnato. Ma senza Renzi non è
possibile alcuna maggioranza politica e allora c’è il sospetto che Di
Battista punti alle elezioni. E soprattutto che punti alle elezioni
Giuseppe Conte, se la sua conferma fosse in pericolo. Accreditato di un
bacino personale di voti non inferiore al 10 per cento, potrebbe
imbarcare tanti grillini altrimenti senza speranza e senza futuro.
Dietro l’«esplorazione» affidata dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, al presidente della Camera, il grillino Roberto Fico, si indovina la sagoma della maggioranza uscente: incluse, forse, le silhouettes di Giuseppe Conte e di Matteo Renzi. È quello il recinto politico dal quale si cerca di ripartire, dopo due settimane e mezzo di crisi surreale. Per questo il compito è stato affidato a Fico e non alla presidente del Senato, Elisabetta Casellati, espressione dell’opposizione.
Il tentativo è di formare un governo politico, proiettato verso le elezioni per il Quirinale del prossimo anno e verso la fine della legislatura nel 2023. Va sottolineato: il tentativo. Ma se questo è il progetto, e riesce, bisognerà spiegare bene che cosa è successo. I protagonisti dovranno motivare lo strappo consumatosi il 13 gennaio scorso, in piena pandemia. E l’unico modo per giustificare la permanenza della stessa maggioranza a Palazzo Chigi sarà quello di cambiare molto, moltissimo nell’esecutivo: nella scelta dei ministri, nell’approccio alla crisi, nella gestione dei fondi europei. Ancora di più se alla fine dei colloqui di Fico dovesse emergere perfino l’eventualità di un incarico al premier uscente.
Lo pretende un’Italia che ha assistito sconcertata a una rissa avulsa dalla realtà drammatica in cui è immersa.
Da questo punto di vista, il modo in cui ieri sera Mattarella ha rimesso ordine su una scacchiera impazzita è suonato insieme severo e allarmato, al di là dei toni. Ha parlato dei contagi, dell’emergenza sanitaria, sociale ed economica. E l’impressione è che si sia trattato di un monito felpato quanto fermo a tornare alla realtà e alle vere priorità del Paese: una sorta di ultima chiamata ai partiti di governo perché arrivino a una soluzione politica.
Da lunedì, primo febbraio,
niente più zone rosse in Italia: solo 5 arancioni — Puglia, Sardegna,
Sicilia, Umbria e la Provincia Autonoma di Bolzano — e il resto gialle (qui la mappa).
Nella
giornata di venerdì c’è stata qualche confusione riguardo al giorno di
partenza delle nuove misure: inizialmente fonti del ministero sembravano
indicare la possibilità che si partisse con i nuovi colori già da
domenica. Il ministero ha però confermato che la partenza delle nuove misure avverrà da lunedì.
Da lunedì rientreranno anche (al 50% della presenza) oltre un milione e 200 mila studenti delle scuole superiori
nelle 8 regioni che ancora mancavano all’appello: Friuli-Venezia
Giulia, Calabria, Basilicata, Veneto, Sardegna, Campania, Puglia e
Sicilia. Attenzione, però: i tecnici della cabina di regia dell’Iss
avvertono che comunque «un nuovo rapido aumento del numero di casi nelle
prossime settimane è possibile, qualora non venissero mantenute
rigorosamente misure di mitigazione sia a livello nazionale che
regionale».
Qui tutto quello che si può fare in zona gialla; qui quello che si può fare in zona arancione.
Nello scontro tra ministero della Salute e Regioni, questa volta i governatori hanno segnato un punto. Passa la linea condivisa da Palazzo Chigi, che per tutto il giorno chiede di non prorogare oltre due settimane le ordinanze che assegnano le fasce di rischio più alte. Sembra un cavillo, in realtà l’interpretazione dell’ultimo Dpcm entrato in vigore il 16 gennaio tiene in fibrillazione la «cabina di regia» e il Comitato tecnico scientifico per un’intera giornata, già molto agitata dalla crisi di governo. L’ala rigorista del governo sperava che gli scienziati, sulla base dei dati, suggerissero di ritardare di una settimana l’allentamento delle misure.
Ma i presidenti delle regioni, che avevano il «fiato sul collo» dei
ristoratori e dei proprietari dei bar, hanno spinto per tornare al
giallo. «Non è un mercato — assicura il ministro degli Affari regionali,
Francesco Boccia — Dobbiamo procedere con la massima cautela,
perché si è dimostrato che nei momenti più drammatici dell’emergenza
Covid funzionano le zone rosse e arancioni, mentre quando scatta il
giallo l’indice Rt tende a non scendere più».
La svolta
Alla
fine la decisione che ha portato alle nuove ordinanze del ministro
Roberto Speranza ha un forte impatto sulla vita dei cittadini. Da lunedì in Lombardia, Lazio e in tutte le altre Regioni tornate in giallo bar e ristoranti possono riaprire fino alle 18 e torna possibile consumare all’interno e sedersi al tavolo in quattro persone (salvo conviventi). Nei giorni feriali si può andare nei musei ed
è possibile spostarsi liberamente all’interno della regione,
rispettando il coprifuoco dalle 22 alle 5. Una «svolta» per nulla
scontata fino a ieri pomeriggio, vista la diversità di vedute sul Dpcm
tra gli uffici legislativi di Palazzo Chigi e il ministero della Salute.
Le richieste
Lo scontro a distanza tra governo e regioni comincia giovedì, quando la maggior parte dei governatori comunicano a Roma un indice di contagio Rt sotto l’1. E sollecitano il passaggio al giallo, la fascia di rischio inferiore. Le ordinanze del ministro della Salute hanno una durata di 14 giorni. Nel provvedimento in vigore è previsto che per scendere di livello debba esserci «la permanenza per 14 giorni in
un livello di rischio o scenario inferiore a quello che ha determinato
le misure restrittive», quindi una settimana in più dell’ordinanza. Ma
«salvo che la Cabina di regia ritenga congruo un periodo inferiore». Ed è
proprio a questa eventualità che si sono appellate le Regioni. Lo scontro è andato avanti per ore, per due volte è stata rinviata la riunione del comitato tecnico scientifico. Ma alla fine è arrivata la resa.
Il caso Lombardia
Per il governatore Attilio Fontana il passaggio della Lombardia in fascia gialla è «un doveroso e giusto riconoscimento
ai tanti sacrifici che i cittadini hanno compiuto in questi mesi». La
paura di tornare in arancione ovviamente c’è e il presidente si
raccomanda: «Abbiamo lottato, è stata una settimana difficile… Voglio
invitare tutti a mantenere dei comportamenti rispettosi delle regole».
Dopo la bufera, le contestazioni, le accuse e il ricorso al Tar, resta
l’impressione che si sia voluto evitare un nuovo scontro con la
Lombardia. Ferita dal caso clamoroso della settimana rossa di troppo,
la regione era determinata a far valere le proprie ragioni sulla durata
delle restrizioni. Ma il ministro della Salute assicura che la
decisione è stata presa perché «i dati nazionali sono incoraggianti».
Il piano vaccino contro il Covid
rallenta, anzi è proprio da ritoccare. Tanto che anche il ministro per
gli affari regionali, Francesco Boccia ammette che «il piano va
adeguato» e oggi incontra le regioni per ricominciare a fare i conti.
Partendo
dall’unica cosa certa, dichiarata ieri dal commissario straordinario
Domenico Arcuri: «Mancano almeno 300 mila dosi che avremmo dovuto
ricevere e non abbiamo ricevuto. Purtroppo le aziende produttrici, per
ora, non rispettano né i patti, né i contratti». Dopo Pfizer e
AstraZeneca, infatti, anche Moderna tratta l’Italia come il fanalino di
coda e ha comunicato ieri che il prossimo carico del 9 febbraio conterrà
solo 132 mila dosi rispetto alle 166 mila previste. Un taglio del 20%.
E
allora quanti italiani si vaccineranno e quando? «Quando ci saranno i
vaccini» risponde Arcuri. «Sarebbe paradossalmente più facile dire che i
ritardi dipendono da noi come qualcuno per fare propaganda non perde
occasione di affermare- dice il commissario – La realtà dei fatti è
tristemente semplice: fino al 15 gennaio abbiamo somministrato 81 mila
vaccini al giorno, dal 16 al 25 gennaio solo 39 mila, meno della metà,
perché non abbiamo i vaccini che ci avevano assicurato e che le aziende
hanno ridotto unilateralmente senza avvisarci». Un forte rallentamento
che ci è costato il nostro primato europeo di efficienza vaccinale, ora
siamo dietro la Germania e la Turchia e si naviga nell’incertezza. Ma
accanto allo sdegno collettivo e alle azioni legali già avviate da
Arcuri contro Pfizer (l’Italia è stato il primo paese europeo a
muoversi) ora le dosi che arriveranno andranno gestite con la massima
cautela. Innanzitutto finire la prima fase del piano nazionale: mancano
all’appello 500 mila persone, tra ospedalieri e anziani nelle Rsa, tutti
in attesa della prima inoculazione. La seconda dose, invece, devono
farla circa un milione e 400mila cittadini. Ad ora 450mila sono
immunizzati. Il piano per questa platea dunque, prosegue con Pfizer che
assicura di consegnare con continuità le dosi settimanali previste. I
suoi ritardi, però, hanno già penalizzato gli ultraottantenni che, nella
previsione più ottimistica, cominceranno ad essere chiamati dai medici
di base solo a metà febbraio per essere invitati a presentarsi nei
centri vaccinali.
Da piazza Bellini (quartier generale dei
centri sociali napoletani) a riserva della Repubblica: la parabola del
presidente del Camera dei deputati Roberto Fico è il segno dei tempi.
Ma
anche la prova vivente che nella vita si può cambiare. Soprattutto se
il merito di una trasformazione tanto radicale, quanto rapida, come nel
caso di Fico, porta al Quirinale. Conduce al presidente della Repubblica
Sergio Mattarella. Il capo dello Stato ha trasformato in 33 mesi di
legislatura uno scalmanato parlamentare grillino in uno statista. L’ha
strappato alla deriva anti-sistema dei Cinque stelle. Oggi è annoverato
tra le riserve della Repubblica. Al punto che nelle ore concitate della
crisi di governo il presidente Mattarella affidi a Fico il mandato
esplorativo per ricostruire una maggioranza falcidiata dalla guerra
Conte-Renzi. Lui, Fico, che era stato eletto per distruggere tutto. Ora è
chiamato a ricostruire.
È la sua grande occasione. Un ruolo decisivo nella svolta istituzionale di Fico va attribuito non solo a Mattarella. Ma anche al suo custode, la donna ombra del numero uno di Montecitorio: Lucia Pagano, segretario generale della Camera dei Deputati e allieva di Ugo Zampetti, che poi da segretario generale della Presidenza della Repubblica è il ponte tra Quirinale e Montecitorio. Due figure centrali nel percorso di istituzionalizzazione di Fico. Due figure che hanno assicurato l’ombrello costante del Colle sulla terza carica dello Stato italiano. È il 24 marzo 2018 quando quel ragazzotto con barba incolta, jeans e zainetto che va in bus viene chiamato sullo scranno più alto della Camera. Il segreto dell’era Fico? Mollare subito Beppe Grillo. Affidarsi completamente ai consigli del presidente Mattarella. Così da guadagnarsi il rispetto di tutte le forze politiche. Una guida equilibrata, senza partigianeria. Senza colpi di testa. Al punto che nessun partito avanza mai richieste di dimissioni. Cosa che invece è accaduta per due illustri predecessori: Laura Boldrini e Gianfranco Fini. Che all’esordio sulla poltrona di presidente della Camera potevano esibire un pedigree istituzionale superiore al parlamentare napoletano. Il passato del presidente Fico fa rabbrividire.
E’ Roberto Fico l’esploratore che dovrà verificare se è possibile resuscitare la maggioranza rosso-gialla per il Conte-ter. Ad affidare al presidente della Camera l’incarico esplorativo è stato, al termine di tre giorni di consultazioni, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La strada per un ritorno di Giuseppe Conte a palazzo Chigi però è in salita. Subito dopo che il reggente dei 5Stelle, Vito Crimi, ha annunciato che cadeva il veto contro Matteo Renzi, il MoVimento è esploso. In più Matteo Salvini, sul Colle, non ha escluso il governo istituzionale di larghe intese. E se il desiderio di Renzi di liberarsi di Conte si sommerà alla ribellione interna ai 5Stelle guidata da Alessandro Di Battista, sarà questo l’epilogo più probabile. Il responso dovrà arrivare entro martedì, termine fissato dal capo dello Stato per l’esplorazione del presidente della Camera che dovrà essere svolta «all’interno dei gruppi parlamentari» di Pd, 5Stelle, LeU, Italia Viva, Maie-Centrodemocratico.
Fico perciò non sonderà il centrodestra. Mattarella è apparso davanti alle telecamere poco dopo le sette di sera, annunciando che dai colloqui svolti al Quirinale «è emersa la prospettiva di una maggioranza politica a partire dai gruppi che sostenevano il governo precedente. Questa disponibilità va peraltro doverosamente verificata nella sua concreta praticabilità». Il capo dello Stato, che è tornato a sollecitare «un rapido ed efficace utilizzo delle grandi risorse predisposte dall’Unione europea», ha ammonito: «Le tre emergenze, sanitaria, sociale, economica, richiedono immediati provvedimenti di governo. È doveroso quindi dar vita presto ad un governo con un adeguato sostegno parlamentare per non lasciare il nostro Paese esposto agli eventi in questo momento così decisivo per la sua sorte». Subito dopo Mattarella ha convocato Fico al Quirinale.
E il presidente della Camera, ricevuto l’incarico, ha messo a
verbale: «Questo è un momento molto delicato per il Paese, siamo
chiamati ad affrontarlo con la massima responsabilità per dare le
risposte urgenti che i cittadini attendono». L’esplorazione di Fico, che
partirà oggi pomeriggio, non sarà semplice. Perché è vero che, come
aveva chiesto il giorno prima Renzi, i 5Stelle hanno fatto cadere la
pregiudiziale contro Italia Viva compiendo un’inversione a “U” e
proponendo a Mattarella «un governo politico e un patto di legislatura»
assieme a Italia Viva. Unica soluzione, del resto, per tenere in piedi
la pista del governo politico e del Conte-ter. Ma è altrettanto vero che
si è immediatamente manifestata una potenziale scissione del MoVimento:
«Se andate avanti su questa linea, grazie e arrivederci», ha tuonato Di
Battista, subito spalleggiato da Barbara Lezzi e da altri grillini come
Nicola Morra. Quelli che da giorni vanno dicendo: «O Conte o elezioni».
Non sarà però questo, se l’avvocato non dovesse riuscire a tornare in
partita con l’esplorazione di Fico, l’epilogo più probabile della crisi
al buio.
Con l’approvazione ieri del vaccino di AstraZeneca da parte dell’Ema, l’agenzia europea dei medicinali, si allunga la lista dei prodotti farmaceutici anticovid con cui si spera di poter fermare l’avanzata del Sars Cov 2. Seppure utilizzino meccanismi diversi, tutti i vaccini che finora hanno superato l’esame dell’autorità europea hanno dimostrato non soltanto i requisiti di sicurezza necessari, ma anche la capacità di far attivare una risposta immunitaria abbastanza elevata.
L’ultimo
vaccino autorizzato, in ordine di tempo, quanto ad efficacia pare non
spicchi rispetto agli altri. Nel gruppo più significativo di volontari
che l’hanno ricevuto, ossia adulti tra i 18 e i 55 anni, l’efficacia si
aggira intorno al 62,1%. Resta da capire però quanto sia valido negli
over 70, visto che nella sperimentazione di fase 3 il numero degli
anziani ai quali è stato somministrato non era molto numeroso. Gli
studi, che sono stati condotti nel Regno Unito, Brasile e Sud Africa,
hanno coinvolto in tutto circa 24mila soggetti. Tuttavia, l’Agenzia ha
basato il suo calcolo dell’efficacia del vaccino sui risultati solo
dello studio condotto nel Regno Unito e in Brasile. A rallentare la
corsa al vaccino che fino a qualche mese sembrava precedere tutti gli
altri sono stati i risultati difformi sulla somministrazione delle dosi.
Per avere dati certi e solidi, visto che il vaccino
deve essere inoculato due volte e la seconda dose deve essere
somministrata tra le 4 e le 12 settimane dopo la prima, l’Ema ha
valutato i risultati solo delle persone che hanno ricevuto questo tipo
di somministrazione.
Si
colloca sicuramente tra i vaccini con maggior risposta immunitaria.
Dopo due settimane dalla seconda dose, secondo gli studi presentati
all’Ema, l’efficacia è pari al 94,5%. A renderlo ancora più pregevole è
il fatto che sono stati condotti studi anche sugli anziani e il vaccino
si è dimostrato in grado di stimolare il loro sistema immunitario.
Secondo l’Agenzia italiana del Farmaco, il vaccino Moderna è indicato a
partire dai 18 anni di età, anziché dai 16 anni. Le due somministrazioni
vanno fatte a distanza di 28 giorni. L’immunità si considera pienamente
acquisita a partire da 2 settimane dopo la seconda somministrazione,
anziché una.
Su valori molto alti di efficacia si attesta anche il primo vaccino
autorizzato e già somministrato a oltre un milione di italiani. Dopo 7
giorni dalla seconda dose, la capacità di stimolare la risposta
immunitaria è pari al 95%. Il dato è confermato anche dal ministero
della Salute israeliano: su un totale di 715.425 persone vaccinate, solo
lo 0,04%, hanno contratto il virus una settimana dopo aver ricevuto la
seconda dose. Pfizer ha fatto sapere che, per ottenere un’efficacia così
alta, sono necessarie due dosi e che «non ci sono dati per dimostrare
che la protezione dopo la prima dose sia mantenuta dopo 21 giorni».
L’Ema ha inoltre raccomandato di somministrare la seconda dose tre
settimane dopo la prima.
NOVAVAX
Gli
studi clinici lo collocano tra i vaccini più promettenti. Secondo la
società di biotecnologie che lo produce, l’efficacia si aggira intorno
all’89,3%. E sembra che il prodotto farmaceutico riesca a proteggere
anche dalla variante inglese, con una copertura pari all’89%.
L’efficacia scende invece al 49% con quella sudafricana. Ma si tratta di
un risultato parziale, e gli studi dovranno essere approfonditi. Le
persone coinvolte nello studio in Sudafrica, infatti, sono meno numerose
rispetto a quelle osservate per la variante inglese. I risultati di
Novavax, negli studi in fase 1, sembrano aver surclassato quelli degli
altri vaccini: stando ai dati resi noti dalla multinazionale, questo
vaccino ha prodotto una quantità di anticorpi neutralizzanti maggiore
rispetto a quelli che sono riusciti a stimolare i vaccini a mRna
messaggero di Pfizer e Moderna.
Una giornata d’ordinaria follia
nel Movimento. I Cinque Stelle si spaccano dopo le dichiarazioni della
loro delegazione al Colle e l’apertura a Italia viva: ora, si palesa di
nuovo lo spettro della scissione. Dopo pochi minuti dalle parole di Vito
Crimi sulle chat dei parlamentari si scatena «l’inferno». Nel mirino
finisce subito il reggente: «A nome di chi parla? Con quale ruolo? La
responsabilità politica è tutta sua». C’è chi tradisce amarezza: «Ci
rimaneva solo l’orgoglio, ora non abbiamo neanche più quello». Presto la
delusione si trasforma, monta il risentimento. C’è chi accusa Giuseppe
Conte, reo di «aver influenzato la linea comunicativa». Il premier
dimissionario che tutti pubblicamente continuano a invocare viene
dipinto come «il nostro Ponzio Pilato». Tra i rumors che circolano c’è
chi ipotizza anche che Conte voglia l’incarico per tornare poi subito al
voto. Fonti autorevoli Cinque Stelle, però, anche in merito
all’incarico di Roberto Fico, precisano che nessuno tradirà Conte.
«So mettermi da parte e vivere la mia vita»
A scatenare polemiche e veleni è l’intervento di Alessandro Di Battista. Come preannunciato anche dalle indiscrezioni dei giorni scorsi, l’ex deputato mantiene il suo veto su Matteo Renzi: «Prendo atto che oggi la linea è cambiata. Io non ho cambiato opinione. Tornare a sedersi con Renzi significa commettere un grande errore politico e direi storico. L’ho sempre pensato e lo penso anche adesso. Se il Movimento dovesse tornare alla linea precedente io ci sono. Altrimenti arrivederci e grazie». Parole che suonano come uno strappo, ma poi in un messaggio ai suoi fedelissimi (e rivelato dall’Adnkronos) Di Battista precisa: «Se non condivido una cosa io mi faccio da parte e mi vivo la mia vita, di certo non faccio scissioni o mi metto a creare correnti… non è da me».