Archive for Marzo 13th, 2021

Coronavirus in Italia, il bollettino di oggi 13 marzo: 26.062 nuovi casi e 317 morti

sabato, Marzo 13th, 2021

di Chiara Severgnini

Coronavirus in Italia, il bollettino di oggi 13 marzo: 26.062 nuovi casi e 317 morti

Sono 26.062* i nuovi casi di coronavirus in Italia (ieri sono stati +26.824, qui il bollettino). Sale così ad almeno 3.201.838 il numero di persone che hanno contratto il virus Sars-CoV-2 (compresi guariti e morti) dall’inizio dell’epidemia. I decessi odierni sono 317 morti (ieri sono stati +380), per un totale di xx vittime da febbraio 2020. Mentre le persone guarite o dimesse sono 2.579.896: 14.970 complessivamente quelle uscite oggi dall’incubo Covid (ieri +14.443). E gli attuali positivi — i soggetti che hanno il virus — risultano essere in tutto 520.061 (+ 10.744 rispetto a ieri).

*La Regione Abruzzo comunica che dai dati già comunicati è stato eliminato 1 caso in quanto non caso di Covid-19. La Regione Emilia Romagna comunica che dai dati già comunicati sono stati eliminati 26 casi, positivi a test antigenico ma non confermati da tampone molecolare. La Provincia Autonoma di Bolzano comunica che dai dati già comunicati sono stati eliminati 4 casi, positivi a test antigenico ma non confermati da tampone molecolare.

I tamponi

I tamponi totali (molecolari e antigenici) sono stati 372.944, 3.308 in più di ieri quando erano stati 369.636. Il tasso di positività è pari al 6,9%: ieri era 7,2%.Qui la mappa del contagio in Italia.

Le vittime

Le vittime: sono 317 contro le 380 di ieri.

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Smart working, come farlo nel modo giusto? Domande e risposte di lavoratori e manager

sabato, Marzo 13th, 2021

MILANO – Lo smart working diventa standard nella Pubblica amministrazione e per gli osservatori unanimi resterà ben presente anche dopo la pandemia. Molti si stanno attrezzando, qualcuno ancora naviga a vista. In attesa di una sua sistemazione definitiva, il lavoro “agile” apre a molti interrogativi, che sono poi problemi assai concreti di organizzazione della vita e del lavoro che molti hanno sperimentato in alcuni mesi. Sia come dipendenti/lavoratori, che come datori.

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Ecco alcune delle domande e risposte più frequenti che Variazioni, consulente tecnico del Ministero per le pari opportunità per l’adozione dello smart working, ha raccolto durante la sua esperienza sul campo nelle aziende e a contatto con i lavoratori.

Le domande dei lavoratori

Secondo quale criterio dovrei scegliere se lavorare a casa o in ufficio?

In smart working si può scegliere di lavorare dove si vuole, in base all’attività da svolgere. Nessun limite se lavori in autonomia e non stai facendo un’attività che richiede il coinvolgimento di altri colleghi. Scegliere anche in base alle caratteristiche dello spazio di lavoro: se è necessaria maggiore concentrazione o silenzio recarsi in un luogo isolato, una saletta dell’ufficio o una stanza o studio nella propria abitazione. Se l’attività richiede socialità si può scegliere di lavorare in ufficio o in luoghi che lasciano spazio a stimoli esterni e creatività. In ogni caso è importante definire le proprie esigenze anche in relazione al proprio ruolo, autonomia lavorativa e sempre in accordo con il proprio responsabile.

Anche quando l’attività richiede collaborazione è sempre l’obiettivo da raggiungere che determina la scelta del luogo: le attività che richiedono collaborazione possono essere svolte sia in smart working, sia in sede. Bisogna chiedersi quale obiettivo si vuole raggiungere con quel determinato meeting, quale importanza e priorità avrebbe vedersi fisicamente. Una riunione di brainstorming, una ricorrenza importante necessaria per prendere delle decisioni cruciali e fare il punto sul lavoro svolto, e in generale tutte quelle attività condivise che richiedono tempo e hanno spesso dinamiche informali potrebbero essere più produttive in presenza, in un luogo stimolante, comodo e confortevole. Diversamente una riunione operativa con scopo informativo potrebbe essere velocemente risolta in videochiamata.

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Coronavirus, morto Raoul Casadei il re del liscio: la musica piange

sabato, Marzo 13th, 2021

di Emilio Marrese

BOLOGNA. Raoul Casadeinon ce l’ha fatta. Un’altra vittima illustre del coronavirus. La star del liscio si è spenta stamattina all’ospedale Bufalini di Cesena (lo stesso dove da giovedì è ricoverato Gianni Morandi, ma per una grave ustione).

Casadei aveva 83 anni e si era contagiato insieme a vari parenti, che si trovano in quarantena fiduciaria a Villamarina di Cesenatico nella tenuta di famiglia. Dopo il ricovero del 2 marzo scorso le sue condizioni erano andate aggravandosi progessivamente.

Casadei: “Mi manca l’Italia che sapeva sognare, ora troppa volgarità”

Il cordoglio dell’Italia

“Gli artisti come Raoul non moriranno mai rimarrà sempre vivo nella sua musica e nelle sue canzoni che viaggiano nell’aria e continuano a esistere”. Lo ha detto Mirko Casadei, il figlio di Raoul che dal padre ha ereditato la guida dell’orchestra, in un messaggio vocale inviato al Tgr Rai dell’Emilia-Romagna. “Oggi – ha detto – è un giorno triste per la Romagna, per tutta Italia, per la musica popolare”.

“Mi stringo al dolore della famiglia Casadei in questo triste giorno in cui la musica italiana perde uno straordinario interprete e un autore che ha saputo coniugare tradizione e innovazione in un percorso di grande qualità artistica. Giustamente definito ‘il re del liscio’, Casadei è stato un musicista amato in tutto il mondo che con energia e passione ha fatto ballare intere generazioni portando la tradizione popolare nelle piazze e tra la gente. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo e l’entusiasmo suo e della sua famiglia mi hanno fatto amare ancora di più la sua musica e la romagna”.
Così il ministro della cultura, Dario Franceschini.

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Il lungo declino dei partiti (e il futuro incerto del Pd)

sabato, Marzo 13th, 2021

di Ernesto Galli della Loggia

Le dimissioni del segretario Nicola Zingaretti sono la conferma dello stato critico in cui versa il Partito democratico, al quale l’ultimo colpo è stato inferto da Mario Draghi. Il suo governo, infatti, per il semplice fatto di esserci, non per altro, è valso a mettere definitivamente fuori gioco la forma partito tradizionale di cui il Pd era rimasto fino ad oggi l’ultimo rappresentante nella sua qualità di unico erede a tutti gli effetti della Prima Repubblica.

Dal 1945 al 1994 quella forma partito — con le sue assemblee di sezione, le sue federazioni provinciali e regionali, il suo comitato centrale, segreteria e direzione — costituì un modello organizzativo fatto più o meno proprio da tutte le formazioni politiche. Anche perché esso ricalcava lo schema degli organi di governo e delle relative assemblee elettive che la democrazia italiana si era data con la Costituzione. Un medesimo partito obbediente al centro dal più piccolo comune della penisola al Paese nel suo insieme.

È accaduto però che a un certo punto, sotto l’urto imprevedibile delle cose — nello scompiglio ideale e pratico prodottosi con le inchieste di Mani Pulite e nella inquietante sorpresa per la comparsa in quella circostanza di un attore del tutto inedito come la Lega — è accaduto, dicevo, che il sistema dei partiti della Prima Repubblica nel tentativo di trovare il modo di salvarsi in realtà abbia finito per suicidarsi. In prima fila — mosso dalla falsa sicurezza che in quel modo avrebbe potuto sopravvivere al crollo — il Partito ex comunista nelle sue varie successive ibridazioni e denominazioni.

Il suicidio avvenne in due tappe, grazie a due decisioni convergenti. La prima fu il nuovo sistema di elezione diretta dei sindaci con il potere attribuito loro di scegliersi una giunta di propria fiducia (1993); la seconda l’elezione egualmente a suffragio diretto dei presidenti della giunta regionale (1999) — quest’ultimo provvedimento enormemente rafforzato nella sua portata dal successivo nuovo Titolo V della Costituzione (2001) con il relativo, inconsulto allargamento dei poteri delle Regioni. Cioè del potere dei presidenti delle loro giunte, gratificati all’istante e per sempre del titolo abusivo di «governatori» che nessuno sarebbe più riuscito a togliergli.

Da quel momento i vecchi partiti cominciarono a non esistere, a non poter esistere più, essendo erosa una condizione fondamentale della loro esistenza, vale a dire il loro carattere nazionale e per così dire ideologico-impersonale. Da allora in poi riuscirono a mantenersi in campo e a resistere solo i partiti personali. Quelli con un uomo o una donna soli al comando e basta — senza sezioni, senza troppi congressi e al limite senza neppure più gli iscritti sostituiti dagli elettori — i partiti che infatti cominciarono subito a proliferare sulla scia della Lega di Bossi seguita a ruota da Forza Italia.

Grazie poi ai poteri conferitigli dalle due novità istituzionali di cui sopra i «governatori» delle Regioni e in misura minore anche i sindaci diventarono i decisori assoluti delle politiche in loco, e specialmente i «governatori» diventarono anche i padroni delle ingenti e crescenti risorse collegate ai nuovi compiti attribuiti alle Regioni. Questo fatto ne fece rapidamente i veri padroni del partito nei rispettivi territori. Sempre più anche la formazione delle liste elettorali locali, la scelta dei candidati al Parlamento, dipese dalla loro volontà o come minimo dal loro beneplacito. Da tempo in Puglia, in Emilia o in Campania, quello che pensa il Nazareno conta assai meno di quello che vogliono Emiliano, Bonaccini o De Luca. Nelle periferie italiane, insomma, così come è venuto progressivamente meno il potere dello Stato centrale e del governo allo stesso modo è venuto progressivamente meno anche il potere dell’apparato centrale dei partiti d’un tempo. E dunque del Pd, il loro unico sopravvissuto.

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Cluster ombra e finti positivi: quanto incidono gli errori sulle chiusure?

sabato, Marzo 13th, 2021

Giuseppe De LorenzoAndrea Indini

Un’intera famiglia bloccata in casa. Il tampone molecolare di uno dei tre figli, il più grande, è risultato positivo al Covid-19. Tutti in quarantena, dunque. Sanno già cosa significa perché due di loro, il padre e il secondogenito, ci sono già passati da quell’inferno: contagiati entrambi lo scorso autunno, durante la seconda ondata di epidemia.

Eppure, a questo giro, qualcosa non torna. E così qualche ora dopo l’esito, essendo l’infetto ancora completamente asintomatico, decidono di ripetere il tampone. Il risultato, questa volta, è di segno opposto: negativo. Cosa succede se è il tampone a sbagliare? Se il positivo è, in realtà, un falso positivo e quindi negativo? Cosa succede se la percentuale di questi errori non sono casi isolati ma finiscono per incidere percentualmente sul bollettino quotidiano e quindi sulle scelte del Comitato tecnico scientifico e del governo?

Il cluster fantasma

Il caso emblematico di questo problema è il focolaio fantasma scoppiato a inizio mese al Teatro alla Scala di Milano. Iniziato tutto il 21 febbraio. Una ballerina sta male: i sintomi sono quelli del Covid e un test molecolare lo conferma. Tre giorni dopo tutti i ballerini vengono controllati ma l’esito è negativo. Il 26 un nuovo giro di screening fa emergere un secondo caso e i vertici decidono di sospendere le attività del corpo di ballo. Salta così la registrazione dello spettacolo Omaggio a Nureyev che avrebbe dovuto essere trasmesso in streaming la domenica successiva. In realtà, la ballerina risultata positiva si negativizza nel giro di breve e così la preccupazione rientra. Per poco, però. Perché la settimana successiva sono punto e a capo e i numeri sono quelli di un maxi focolaio. Solo nel corpo di ballo i positivi sono, infatti, trentaquattro.

Tra quelli che finiscono in quarantena c’è chi non nasconde la propria incredulità per l’esito. “Non ce n’è uno che sta male – ci dice – è possibile che siano tutti asintomatici”. E poi il dubbio: “Come è possibile che, con tutti i controlli a cui ci sottopongono e con le regole ferree che seguiamo, sia esploso un cluster del genere da un giorno con l’altro?”. Le domande rimbalzano nella testa dei ballerini costretti a stare a casa in quarantena. Anche all’ospedale Sacco, che sta seguendo il caso, vogliono vederci chiaro e così predispongono un altro test molecolare per tutti quanti. E questo ribalta l’esito: sui 45 artisti, che erano risultati positivi, ben 44 sono negativi. Niente maxi cluster.

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Covid Italia, cosa ci attende? Dai filtri dell’aria alla vitamina D, le 5 misure che mancano

sabato, Marzo 13th, 2021

Luca Ricolfi

Scenario A. Arrivano i vaccini promessi. Il generale Figliuolo fa miracoli, e riesce a far vaccinare il 70% della popolazione entro l’estate. Pochi si spaventano per i casi di reazione avversa, come quelli di questi giorni con AstraZeneca. Le aziende farmaceutiche cominciano a produrre vaccini anche per gli under 16, il che permette di portare la percentuale di vaccinati intorno all’80%. 

Non emergono, né in Italia né altrove, varianti più trasmissibili o letali di quelle attualmente in circolazione. Gli studiosi scoprono che i vaccinati non trasmettono il virus, o lo fanno in misura molto ridotta. L’arrivo della bella stagione abbatte drasticamente la circolazione del virus, nonostante cospicui flussi turistici in entrata e in uscita. 

A settembre, dopo un’estate abbastanza tranquilla, tutte le attività ripartono, e il numero di nuovi casi resta molto basso. I pochi focolai che si ripresentano vengono facilmente spenti con il tracciamento e, nei casi più ostici, con pochi, brevi, circoscritti lockdown. Il Papa in persona propone che Mario Draghi sia proclamato santo, ancor prima della sua trionfale elezione alla presidenza della Repubblica.

Se questo, che tutti sogniamo, fosse lo scenario che effettivamente ci attende, la politica sanitaria in atto sarebbe abbastanza razionale, ancorché leggermente cinica. 

Il rifiuto della linea Ricciardi (lockdown breve e durissimo subito) avrebbe un costo di parecchie migliaia di morti, ma almeno si tratterebbe dell’ultimo tributo al virus. Detto in altre parole: andremmo avanti ancora 3-4 mesi con centinaia di morti al giorno, ma poi l’epidemia si spegnerebbe.

E noi incasseremmo il vantaggio di non spendere altri miliardi di euro per controllare l’epidemia con le solite cose che invano si sono chieste al governo Conte, e altrettanto invano una sparuta minoranza sta continuando a chiedere al governo Draghi.

Ma è verosimile lo scenario A? Prima di provare a rispondere a questa domanda vediamo lo scenario opposto.

Lo scenario catastrofico

Scenario B. Le dosi acquisite entro l’estate non sono sufficienti ad attuare il piano vaccinale. Continuano a non essere disponibili vaccini per gli under 16. I (rari) casi di reazioni avverse fanno crescere la quota di popolazione che rifiuta i vaccini. Gli studiosi scoprono che con alcuni (se non tutti) i vaccini utilizzati i soggetti vaccinati continuano a trasmettere il virus. La scelta di vaccinare senza aver prima ridotto la circolazione del virus favorisce la formazione di varianti ancora più trasmissibili. L’individuazione delle nuove varianti è sempre tardiva, perché nel frattempo non si è rafforzata a sufficienza la capacità di sequenziamento. 

L’estate, grazie alla vita all’aperto, conduce sì a un rallentamento dell’epidemia, ma non a una drastica riduzione del numero di nuovi casi, perché i flussi turistici favoriscono la circolazione del virus e l’introduzione di nuove varianti. A settembre quasi tutte le attività riprendono e, dopo poche settimane, ci si accorge dell’arrivo della quarta ondata (la terza, anche se non tutti se ne sono accorti, è quella in corso). A quel punto al governo Draghi vengono rivolti gli stessi (sacrosanti) rimproveri a suo tempo rivolti al governo Conte: non aver rafforzato il trasporto pubblico locale, non aver messo in sicurezza le scuole, non aver varato un protocollo ufficiale di cure domestiche, non aver potenziato il tracciamento, non aver controllato adeguatamente le frontiere, eccetera.

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Vaccino, è allarme per i richiami nel Lazio. «Scorte quasi esaurite»

sabato, Marzo 13th, 2021

di Camilla Mozzetti

È ormai questione di giorni: il Lazio non rischia solo un ritardo sui richiami delle seconde dosi, è a un passo dal blocco totale con le vaccinazioni di AstraZeneca. Il balletto delle consegne a intermittenza è iniziato ormai da settimane e per settimane nella Regione sono arrivati meno vaccini di quelli attesi e previsti sulla carta. Ma ora con le inoculazioni contro il Covid-19, che viaggiano al ritmo delle 20 mila al giorno – e non più 7 mila – con un calendario di prenotazioni che arriva ad aprile, anche una dose in meno fa la differenza. 
L’assessore alla Sanità Alessio D’Amato non gira intorno al problema e non usa mezzi termini: «Abbiamo scorte per una settimana». E poi? Oltre ai richiami che rischiano di saltare, dietro l’angolo c’è il blocco totale almeno per quanto riguarda la somministrazione di AstraZeneca.

Vaccini Lazio, è allarme scorte. D’Amato: «Abbiamo dosi per una settimana»

LO STOP
L’azienda, che con il suo antidoto copre ad oggi la metà dei punti vaccinali della Regione, torna a deludere gli accordi: «La consegna del 15 marzo – spiega l’assessore alla Sanità D’Amato – rischia di saltare completamente, delle 60 mila dosi attese viaggiamo ad oggi intorno alle 10 mila e questo non può bastare». Il motivo della disdetta? Non pervenuto, ma l’assessore ha già esposto il problema al commissario straordinario per l’emergenza Francesco Paolo Figliuolo chiedendo aiuto. «Si è aperto un proficuo dialogo e sono fiducioso – prosegue D’Amato – siamo disposti a tutto, anche a farci anticipare le dosi, pronti poi a restituirle perché nel Lazio abbiamo costruito e avviato una macchina che, in assenza di regolarità, si ferma».

L’effetto sarebbe drammatico considerate le prenotazioni già raccolte «che arrivano ad aprile inoltrato. Siamo in grande sofferenza e lo saremo di più tra il 17 e il 18 marzo – conclude l’assessore – abbiamo meno di una settimana di autonomia, ci servono quasi 50 mila dosi di AstraZeneca per non inficiare il sistema sia dei richiami che delle nuove somministrazioni». Per oggi la Regione conta di ricevere risposte dal governo mentre su Pfizer e Moderna la situazione resta stazionaria: le consegne non sono molte ma almeno certe. Dalla prima casa farmaceutica sono attese più di 65 mila dosi, dalla Moderna 31 mila entro la prossima settimana e qualcosa in più per la successiva consegna alla fine di marzo. 

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Letta tenga duro. Ancora due anni di governo forte

sabato, Marzo 13th, 2021

di BRUNO VESPA

Alla vigilia del mese più duro dal maggio dello scorso anno, Mario Draghi nel centro vaccinale di Fiumicino ha voluto dare un segnale simbolico del suo ruolo. E come Mattarella seduto allo Spallanzani in attesa della vaccinazione ha fatto capire che la ‘livella’ è arrivata sul colle del Quirinale, Draghi si è seduto accanto a uomini e donne della Croce Rossa (e non tra Speranza e Zingaretti, come da protocollo) con la divisa ideale da comandante in capo di questa battaglia, speriamo ultima e decisiva. Il primo ministro ha dato due segnali precisi: presto si arriverà a mezzo milione di vaccinati al giorno e chiederà al Parlamento un nuovo scostamento di bilancio. Mezzo milione al giorno fa 15 milioni al mese.

Contando i sei milioni di vaccini già fatti, avere di qui a fine aprile 25 milioni di vaccinati e 40 milioni a maggio tra prima e seconda dose sarebbe un risultato straordinario. Chiedendo magari, per salvare la decenza, che magistrati, avvocati e professori a contratto da poche lezioni a distanza (spero vivamente che i giornalisti non osino proporsi) diano per favore la precedenza ai milioni di ottantenni ancora in attesa. Mentre alla vigilia della stagione estiva sarebbe utile vaccinare il personale turistico per arginare una concorrenza micidiale. (E dopo che ieri sera Biden ha proibito le esportazioni di vaccini gridando alla Trump “Prima gli americani”, guai se una fiala prodotta in Europa uscisse dall’Europa).

Un nuovo scostamento di bilancio (cioè nuovo debito) è doloroso, ma indispensabile. Il mese più duro e le chiusure di Pasqua saranno un colpo tremendo per categorie già in ginocchio. Sarà difficile dire all’impresa scesa dai 220 mila euro di fatturato nel 2019 ai 120mila del 2020 che i 100 milioni in meno saranno compensati con 5.000 euro, come si è ipotizzato finora.

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Vaccini Covid: effetti collaterali ed efficacia. Cosa sappiamo tra benefici e rischi

sabato, Marzo 13th, 2021

di GIOVANNI PANETTIERE

Roma, 13 marzo 2021 – Sono tre i vaccini ora a disposizione per la lotta al Covid: Pfizer-BioNTech, Moderna e AstraZeneca. Ecco quelli più efficaci. Dal mal di testa alla stanchezza fino alla febbre, tutti i possibili effetti collaterali. 

L’efficacia dei vaccini è uguale?

In Italia sono tre i vaccini impiegati nel prevenire la malattia da Covid-19: Pfizer-BioNTech, Moderna e AstraZeneca. A breve arriveranno anche le prime dosi del siero prodotto dalla Johnson & Johnson che è stato approvato ieri dall’Agenzia italiana del farmaco. Tutte le profilassi attualmente disponibili sono affidabili, anche se le percentuali di efficacia variano a seconda del farmaco, specie in relazione all’età dei vaccinati. In generale si stima che Pfizer-BioNTech abbia un’efficacia maggiore rispetto a Moderna (95% contro 94,1%) e AstraZeneca (82% dopo la pubblicazione sulla rivista scientifica Lancet di un ultimo studio, più incoraggiante dei precedenti). Passando alla disamina per età, Moderna è particolarmente indicato per i cittadini fra i 55 e i 64 anni (copertura stimata al 95,6%), mentre Pfizer-BioNTech si fermerebbe al 93,7%, con AstraZeneca che, invece, si manterrebbe attorno all’80%. Con riferimento agli over 65, Pfizer garantisce una protezione del 92,9%, Moderna (82,4%) e AstraZeneca scenderebbe poco sotto l’80%. È bene sempre puntualizzare che i vaccini non prevengono l’infezione, ma la malattia generata dal nuovo Coronavirus.

“Vaccino Astrazeneca sicuro, fidatevi. Lotto ritirato per cautela”

Si possono verificare reazioni gravi?

Quando si legge nei report ufficiali sui vaccini di reazioni avverse gravi, la premessa è d’obbligo. Lo spiega Paolo Bonanni, docente di Igiene generale e applicata all’Università di Firenze. “Ci si riferisce a qualsiasi evento, occorso dopo l’iniezione, che abbia comportato un decesso, un ricovero ospedaliero o comunque abbia seriamente compromesso le attività quotidiane – precisa il professore –. Conta il dato temporale, può trattarsi di una cefalea importante, di un ictus, ma anche di un incidente avvenuto una volta usciti dall’ambulatorio”. Come dire, non significa di per sé che ci sia un nesso di causalità tra il vaccino e la reazione grave, “questo va dimostrato caso per caso”. Con riferimento alle sperimentazioni Moderna, Pfizer e AstraZeneca, chiosa Bonanni, “gli eventi avversi sono stati in egual misura sia per chi ha ricevuto il farmaco placebo, sia per chi ha avuto vaccino”.

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L’intesa con Guerini e Marcucci, ex renziani nella cabina di regia

sabato, Marzo 13th, 2021

Carlo Bertini

«Enrico,la prima cosa è caratterizzare l’azione del Pd, assumendo come nostra l’agenda Draghi». È la telefonata più delicata per Enrico Letta quella con Lorenzo Guerini, che guida la corrente Base Riformista. L’ex premier si premura di chiamare, per la seconda volta in 24 ore e prima di scendere in campo, il ministro della Difesa. Che era vicesegretario di Matteo Renzi nel 2014 quando Letta fu sfiduciato dalla Direzione dem. Più che i personalismi però poté la politica, e quindi grazie alla comune matrice di ex Dc, di cattolici democratici, il dialogo tra Enrico Letta e quelli che militavano con il suo rivale fiorentino comincia bene. Almeno formalmente. Con Guerini, che nel pomeriggio proporrà ai parlamentari della corrente di schierarsi con Letta segretario, il chiarimento è immediato: intanto sull’agenda Draghi da cavalcare, perché «Europa, atlantismo, crescita, riforme, lavoro, equità, sono parole del Pd». Poi c’è il tema alleanze, che andrebbe declinato come uno strumento e non come un fine. Tradotto, il Pd deve avere l’ambizione di guidarla l’alleanza e non di farla guidare da altri. E non a caso la nota ufficiale della corrente ricorda quando Letta a febbraio disse «prima viene una riflessione approfondita sulle proprie idee e sugli obiettivi, poi le alleanze scaturiscono naturalmente». Insomma, Base riformista ritiene che dopo quanto successo negli ultimi due anni un congresso delle idee (non le primarie) andrebbe celebrato, come richiesto anche da Orlando, Cuperlo, Bettini, Delrio. «Sta a Letta decidere come farlo», dice Guerini in assemblea. «Ascolteremo cosa dirà e che lavoro si intende fare con i circoli».

E se per una questione di opportunità la minoranza non chiede la vicesegreteria, né pone il tema della gestione collegiale, è lo stesso Letta a fornire le prime garanzie. Lo fa con Andrea Marcucci, altro snodo delicato, perché il capogruppo al Senato ha un ruolo centrale ed ebbe a polemizzare con Letta ai tempi della Margherita toscana: ma stavolta tifa per il neo segretario. «Con Letta siamo più credibili, c’è un cambio di passo e viene meno lo schiacciamento a sinistra del partito. Ora bisogna dare una dimostrazione di unità», dice Marcucci, collegato su Zoom insieme a Guerini, Lotti e gli altri ex renziani. In privato, Letta gli chiede di esprimere il suo punto di vista sulle dimissioni di Zingaretti; gli annuncia che vuole costituire una segretaria unitaria e integrarsi di più con i gruppi parlamentari. Tocco di diplomazia completato dal riconoscimento a Marcucci di aver «salvato» il gruppo del Senato restando nel Pd, altrimenti sarebbe stato svuotato da Renzi con Iv. Formalmente Letta si mostra molto collaborativo, per nulla animato da spirito di recriminazione o vendetta. E nelle impressioni di chi lo ascolta, forte della circostanza di parlare la stessa lingua che si usa a palazzo Chigi poiché, con Draghi, l’ambito culturale è assai affine.

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