Matteo Renzi, dunque, annuncia la sua ennesima querela a un giornale.
Stavolta tocca a La Stampa, “rea” di aver raccontato di un suo viaggio
in corso a Dubai. Il senatore è ovviamente libero di fare ciò che
ritiene più giusto. Tuttavia, ci teniamo a fare qualche precisazione.
Ieri mattina ho parlato personalmente al telefono con il leader di
Italia Viva, che mi ha preannunciato l’invio della querela da parte dei
suoi avvocati perché, a suo giudizio, avremmo scritto “tutte cazzate”.
Alla
mia richiesta di spiegare quali fossero, Renzi ha risposto che lo
avremmo appreso direttamente dal testo della querela. Ho a mia volta
replicato che, se lui non fosse stato effettivamente a Dubai, come noi
avevamo scritto, io gli avrei esternato personalmente e pubblicamente le
mie scuse. Ma è a questo punto che, con mia somma sorpresa, il senatore
ha risposto «io sono a Dubai».
Con ciò confermando esattamente quello che abbiamo scritto ieri, nell’articolo “incriminato”. Per me, per il collega Niccolò Carratelli e per il nostro giornale il caso è quindi già chiuso. A questo punto aspettiamo con grande curiosità la querela, per capire cosa mai avremmo fatto per meritarci questo “riconoscimento” da parte di un politico che i vignettisti ormai chiamano “Lo Renz d’Arabia”.
A ripensarci adesso, l’8 marzo dello scorso anno è stato
l’ultimo giorno di libertà totale, l’ultima boccata d’aria prima che
l’allora premier Giuseppe Conte annunciasse, livido e solenne, la
chiusura per Covid-19 dell’Italia intera. Ci scambiavamo mimose
insolentemente floride, ma la festa era già finita.
Bisogna
ripartire da lì per rinnovare gli auguri di una ricorrenza che sarebbe
meglio fosse inutile e invece non lo è, le settimane in cui l’avvocato
trentasettenne Zhang Zhan volava da Shanghai a Wuhan per capire e
raccontare sul suo blog gli ospedali, i crematori, la pandemia che la
Cina si ostinava a negare, definendola «polmonite misteriosa». Zhang
Zhan, una giovane normalissima donna. Né puttana né santa. Una che,
mentre altri citizen journalist come
lei sparivano dai radar, ripeteva il mantra irriducibile, «chi di noi in
questo Paese ha a cuore la verità deve dire che se ci crogioliamo nelle
nostre tristezze e non facciamo niente per cambiare la nostra realtà,
allora le nostre emozioni non valgono niente». A dicembre l’hanno
condannata a 4 anni di prigione per aver detto la verità: lei, in cella
ormai da mesi, ha ascoltato la sentenza farsa sulla sedia a rotelle,
smunta, esangue, lo sguardo vitreo. L’hanno udita mormorare che «la
libertà di parola del popolo non dovrebbe essere censurata», poi è stata
portata via, ammanettata eppure inafferrabile, come le giornaliste
bielorusse Katerina Bakhvalova e Daria Chultsova, accusate di fomentare
la rivolta contro Lukashenko, come l’attivista polacca Marta Lempart,
che rischia otto anni di carcere per essersi opposta alla crociata
anti-abortista del governo di Varsavia.
Il
senso del 2020 per l’8 marzo è un volto di donna su cui, come rughe
scavate dalla mascherina, sono scritte le infinite pene di questi mesi
di frontiera, dilatati, asfissianti, la globalizzazione del male. Ne
abbiamo scelte sei per dirle tutte, ogni donna una storia. C’è
Zhang Zhan, che porta sulle spalle il peso della peste contemporanea e
c’è Anita Iacovelli, 12 anni, la studentessa torinese che, con il sole e
con il gelo, ha trascorso la quarantena seduta al suo banco davanti
alla scuola media Italo Calvino per protestare contro la didattica a
distanza e convincere il governo a far tornare in classe migliaia di
ragazzi come lei. Anita, in guardia dal cliché che banalizza qualsiasi
Marianna, non vuole essere paragonata a Greta Thunberg. E non perché la
disapprovi. «Sono Anita e basta», ripete e guarda dritto con la
radicalità di una generazione post politica.
Con il dilagare della pandemia di COVID-19 il mondo intero ha dovuto affrontare un anno di sacrifici. Troppi hanno perso la vita, o i propri cari. Altri hanno dovuto lottare duramente per sopravvivere, a livello fisico, emotivo e finanziario. L’anno appena trascorso ha reso evidente che l’impatto sociale ed economico della pandemia sulla vita delle donne è particolarmente pesante. Un numero sproporzionato di donne lavora nei settori più colpiti dalla pandemia. Svolgono, con maggiori probabilità, attività informali non tutelate dai programmi di sostegno pubblico. Molte hanno dovuto prendersi cura da sole dei familiari più giovani e anziani, mentre cercavano di tenere testa agli impegni lavorativi.
È preoccupante che queste circostanze rischino di annullare i progressi conquistati a caro prezzo sul fronte della parità di genere. Non dobbiamo permettere che ciò accada.
Ma c’è anche speranza di cambiamento. Le crisi esistenziali sconvolgono il nostro modo di vivere quotidiano e ci spingono a rifondare alcuni dei nostri valori. La pandemia non ha soltanto alzato il velo sulle gravi carenze della nostra società, ci ha anche costretto ad agire in modo diverso. Ed è proprio qui che vedo la possibilità di un cambiamento per il meglio. Per questo oggi, Giornata internazionale della donna, invito tutti, donne e uomini, a rompere insieme gli schemi e abbracciarne di nuovi, più consoni alle necessità del presente. La famiglia, il lavoro e il nostro ruolo di guida sono compiti che richiedono molto impegno.
Il lavoro comincia in famiglia, cuore e centro della nostra vita durante il confinamento. La pandemia ha messo chiaramente in luce lo squilibrio fra uomini e donne in termini di lavoro non retribuito. Ma ci ha anche dimostrato che i nostri compagni possono farsene carico. In alcuni casi i padri, impegnati a lavorare da casa o costretti a un orario di lavoro ridotto, hanno preso in mano le redini della famiglia, mentre le madri svolgevano mansioni essenziali al di fuori delle mura domestiche.
Una simile rottura dei canoni, se durerà, potrà portare alle donne la libertà di realizzarsi altrove, sul lavoro o nella comunità. Una maggiore partecipazione delle donne al mondo del lavoro, con adeguati servizi per l’assistenza all’infanzia e un’organizzazione flessibile dell’orario di lavoro a favore di donne e uomini, permetterebbe di compiere un grande passo avanti nel colmare il divario retributivo di genere. Nell’UE le donne guadagnano in media all’ora il 14,1% in meno degli uomini. Se i compiti domestici sono ripartiti in modo più equo all’interno della famiglia, i figli crescono con un’idea dei ruoli più paritaria rispetto alle generazioni precedenti.
A questo si aggiungono gli impegni sul posto di lavoro. La pandemia ha posto in risalto il ruolo professionale imprescindibile che le donne svolgono nella società. Rappresentano i tre quarti dei circa 18 milioni di operatori sociosanitari nell’area dell’euro e contribuiscono in misura simile al mondo dell’istruzione. Entrambi i settori si sono rivelati indispensabili durante la pandemia. Ora che abbiamo visto qual è il vero valore di queste figure per la società, è importante che esso sia riconosciuto e retribuito adeguatamente.
Il vaccino AstraZeneca potrà essere somministrato anche alle persone con più di 65 anni, quindi a tutte le generazioni (sempre persone maggiorenni).
La prossima circolare
Lo
conferma il ministro della Salute, Roberto Speranza, dicendo che ci
sono «nuove evidenze scientifiche che dimostrano come questo vaccino
possa essere utilizzato su tutte le fasce generazionali». Il Consiglio Superiore di Sanità ha dato il via libera poche
ore fa e, nelle prossime ore, è attesa una specifica circolare del
Ministero della Salute. È una notizia che «ci aiuta» e ci permetterà di
«avere un pieno utilizzo» e di procedere «in maniera più spedita» anche
«per vaccinare le persone più fragili», ha detto il ministro Speranza a
Raitre. «A oggi abbiamo oltre 5 milioni di vaccinati, il prossimo trimestre sarà decisivo.
Durante il primo trimestre abbiamo pagato una limitazione delle
forniture. Dal 1 aprile ci aspettiamo arrivo di oltre 50 milioni di
dosi, e puntiamo a raggiungere almeno la metà della nostra popolazione»,
ha concluso.
Via libera da Oms
Inizialmente autorizzato in Italia solo per over 55, in via preferenziale, il vaccino di AstraZeneca via via ha «guadagnato» l’accesso alle altre categorie. Il primo via libera ufficiale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità è venuto a metà febbraio: lo ha raccomandato agli over 65 in un documento, che ha precisato che il vaccino può essere usato anche nei Paesi in cui sono presenti varianti del virus. Per il direttore delle emergenze dell’Oms, Mike Ryan, in questo momento è vitale utilizzare gli strumenti a disposizione per salvare vite: «La funzione primaria dei vaccini in questa fase è ridurre i ricoveri in ospedale e le vittime. E in questo senso stanno funzionando». Tutti i vaccini in uso in Europa e Usa, infatti, hanno mostrato sul campo una protezione contro ricoveri gravi e morte del cento per cento e AstraZeneca non fa eccezione. La sua limitazione era piuttosto dovuta alla scarsità dei dati a disposizione per le fasce di età più alte, piuttosto che ai risultati specifici.
Per piegare le varianti del
Covid-19, sempre più veloci e insidiose, un’altra stretta è
all’orizzonte. È la dolorosa presa d’atto del governo, che sull’onda
dell’allarme degli scienziati si prepara a una settimana di vertici e
decisioni. Di ufficiale non c’è ancora nulla, ma il dilemma di cui si
discute è l’opportunità di rafforzare ancora le misure di contenimento su scala nazionale, a pochi giorni dall’entrata in vigore (il 6 marzo) del nuovo Dpcm firmato da Mario Draghi. Tra Palazzo Chigi e il ministero della Salute la preoccupazione è sempre più alta per i 20.765 nuovi contagi, i 207 morti, il tasso di positività che sale al 7,6%
e le terapie intensive che si vanno riempiendo. Ma poiché i dati del
weekend presentano un calo fisiologico a causa del minor numero di
tamponi, il governo aspetta i numeri più aggiornati che arriveranno tra
domani e mercoledì.
Oggi il vertice sul nuovo Dpcm
Il presidente del Consiglio è determinato ad accelerare e ha convocato per oggi pomeriggio la cabina di regia politica. Draghi non ci sarà, toccherà ai ministri Speranza, Gelmini, Giorgetti, Patuanelli, Franceschini e Bonetti e al sottosegretario Garofoli fare il punto con gli esperti del Cts e con il commissario all’emergenza, Figliuolo. Obiettivo: procedere a un «attento monitoraggio della situazione» nazionale, per poi decidere se l’andamento della curva epidemiologica e l’accelerazione della campagna vaccinale, che Draghi ritiene «cruciale», richiedono o meno nuove misure di contenimento.
Per
il ministro della Salute bisognerebbe dare un altro (energico) giro di
chiave, per diminuire le relazioni tra le persone e consentire agli
ospedali di riprendere fiato. In tv da Lucia Annunziata Roberto Speranza ha condiviso la sua ansia con gli italiani: «Mi aspetto che l’impatto delle varianti possa far crescere ancora la curva». Venerdì, sulla base del monitoraggio, altre regioni potranno entrare in zona rossa e a quel punto gran parte dell’Italia sarà sottoposta a forti misure di contenimento. Eppure potrebbe non bastare, perché se si vuole far correre la campagna vaccinale bisogna tenere a freno i nuovi contagi.
Un po’ come fece quando usò la distinzione tra debito buono e debito
cattivo, il presidente del Consiglio Mario Draghi stavolta ha fatto
presente che c’è un’Europa buona e un’Europa cattiva. O meglio,
un’Europa che funziona e una che funziona male. Il che non significa
essere antieuropei, al contrario: ribadire ciò che non funziona in
Europa significa innanzitutto crederci. Non sorprende, infatti, che sia
proprio un antieuropeista vero come Boris Johnson a reagire per primo
alla presa di posizione ispirata da Draghi all’Unione europea per
bloccare l’esportazione di 250 mila dosi di vaccino verso l’Australia.
Per il premier britannico in questo modo si mette a repentaglio lo
sforzo globale contro il Covid e si interrompe quella catena di comune e
reciproco interesse nel contrasto alla pandemia che fa capo al
principio secondo cui “nessuno può sentirsi al sicuro finché tutti non
saranno al sicuro”.
La lezione di Draghi, tuttavia, aggiunge a
questo sacrosanto principio l’aspetto relativo agli interessi in gioco:
non si tratta di dire “vacciniamo prima i cittadini europei degli
australiani”, ma di ricordare che chi prende impegni con l’Unione
europea – in questo caso garantendo un quantitativo di vaccini che
invece poi non è stato consegnato – li deve assolvere. Le aziende
produttrici di vaccini, in questo caso, hanno la responsabilità di
tenere fede ai contratti stipulati, e l’Europa non può transigere su
questo rispetto, pena una caduta di credibilità sia di fronte ai propri
cittadini, sia in quanto istituzione sovranazionale. Perché inutile
farsi illusioni, il fatto che l’Unione europea sia un’entità politica
che raccoglie più nazioni – e che abbia spesso delle procedure
farraginose, anche a causa del concorrere di più voci al suo interno –
dà agio a una serie di disfunzioni. Una è quella “in entrata”, nel
momento in cui si tratta con soggetti terzi come le aziende produttrici
di vaccini: come Draghi ha fatto osservare a von der Leyen si sono
registrate debolezze, mancata chiarezza, assenza di polso in fase
contrattuale; l’altra è quella “in uscita”, quando i soggetti in
questione pensano che proprio a causa di un certo sfilacciamento interno
sia possibile non rispettare gli impegni, o rispettarli a metà, o fare
finta che tutto vada bene anche se non è così. Tanto si sa com’è
l’Europa.
Da qualche settimana Matteo Salvini mi fa
una simpatia cui non so resistere. Ha degli abboccamenti con le autorità
sanmarinesi per ricavarne dettagli sullo Sputnik e va all’ambasciata
indiana per accordi di fornitura più da diporto che prodromici (tra
l’altro ottima idea, poiché l’India è una democrazia di snodo
dell’Asia-Africa Growth Corridor, la risposta alla cinese Via della
Seta), e tuttavia di queste giocose iniziative se ne raccontano sparuti
dettagli e in pagine periferiche. Sarà che, mentre Salvini cerca il modo
di occupare le sue giornate, Mario Draghi blocca nei magazzini di
Anagni 250 mila dosi di Astrazeneca destinate all’Australia e impone
all’Europa un atto politico anziché burocratico, e cioè l’applicazione
di un regolamento sottoscritto a Bruxelles e da Bruxelles sempre
trascurato. L’Unione, infatti, si riserva di impedire l’esportazione del
vaccino a paesi non sommersi dall’emergenza pandemica (tale è
l’Australia) soprattutto se si è inadempienti coi paesi comunitari (tale
è Astrazeneca). E con un certo candore, erede diretto dell’imbelle
spirito di Monaco, dalle capitali si commenta stupiti la mossa di
Draghi: pensavamo che il regolamento bastasse come deterrente. Come no:
nel frattempo qui le fiale continuano a non arrivare nelle quantità
stabilite, mentre se ne spediscono ovunque, dalla Gran Bretagna agli
Stati Uniti, (dove, complimenti a loro, l’immunizzazione è a ottimo
punto), da Singapore alla Repubblica Dominicana, dall’Arabia Saudita a
Macao, dalla Nuova Zelanda a Hong Kong, per un totale di trenta
destinazioni.
L’intervento di Draghi è
stato chiamato protezionismo o sovranismo europeo, e lo si più chiamare
come si preferisce, quella che conta è l’essenza e l’ha colta stamattina
sulla Stampa quella principesca giornalista che è Francesca Sforza: è
stata una risoluta affermazione di identità. E non significa prima gli
europei, gli altri si arrangino, significa stabilire che l’Europa non è
uno svalvolato accrocco di paesi a cui la si può allegramente fare sotto
il naso, e per ottenere rispetto bisogna prima avere rispetto di sé.
Ecco quanto fin qui ci è mancato: il rispetto di noi stessi.
Per
tornare alla parte più provinciale dell’articolo, molti hanno intuito
nelle fregole di Salvini il tentativo di riproporre lo schema adottato
nel Conte I, quando il capo sovranista sovrapponeva le sue chiacchiere
(e il suo bullismo anti migranti) alle chiacchiere del premier. E in
effetti, chiacchiera contro chiacchiera, la chiacchiera di Salvini
sbaragliava il campo. Però c’è una differenza: Conte non c’è più, c’è
Draghi. E dunque ora è chiacchiera contro fatti, una partita molto
squilibrata, e mentre uno va a prendere il tè in ambasciata, l’altro
recupera 250 mila fiale e indica all’Europa la direzione giusta. Lo
sottolineo perché qualcuno, anche dentro il Partito democratico, dove
imperversa nebbia fitta, continua a vedere in Salvini l’azionista
vincente del governo Draghi, e a me pare proprio l’opposto. Potrà
gingillarsi finché gli pare con cuoricini a bacioni per l’allontanamento
di Domenico Arcuri, ma lo ha allontanato Draghi. Potrà gingillarsi con
l’avvio della produzione interna di vaccini, ma è una produzione interna
europea, e l’ha avviata Draghi. Potrà gingillarsi con l’impiego
dell’esercito nell’organizzazione della macchina vaccinale, ma l’ha
impiegato Draghi (e poi, cara sinistra, l’idea che i militari siano di
destra dovrebbe essersi indebolita dai tempi di Stalin o, se si vuole un
esempio più inutilmente consolatorio e romantico, dall’iconografia del
Che Guevara, e di Fidel Castro e dei barbudos in ingresso all’Avana).
Mai visto Salvini tanto stretto all’angolo.
Da
un anno all’altro. Da non credere: è bastato un toc toc dello Stato
italiano per far lievitare i redditi di oltre tre milioni e mezzo di
famiglie italiane.
Fino
al 2014 l’80 per cento di quelle che presentavano il modello Isee
aggiungevano di essere a terra. Ma così giù da non avere nemmeno un euro
nel salvadanaio. Zero su tutta la linea. Poi, nel 2015 Roma ha fatto
sapere che avrebbe cominciato a controllare, superando finalmente
l’incredibile e fino ad allora insuperabile barriera della privacy. È
bastata quella semplice dichiarazione, non dei redditi ma d’intenti, per
far passare di colpo il 74 per cento dei nuclei in una fascia più alta.
Vicino alla quota di 20mila euro.
Francesco Vecchi racconta
questo scandalo con empatia e un filo di sacrosanta indignazione nel suo
ultimo libro: Gli scrocconi, appena uscito da Piemme (pagine 144, euro
17,59).
Vecchi è, con Federica Panicucci, il conduttore della
striscia quotidiana Mattino 5 e nel suo studio si affollano storie e
paradossi che documentano quel che nessuno, o quasi, ha il coraggio di
dire in modo esplicito: gli italiani sono più ricchi, o se volete meno
poveri, di quello che tutti pensano.
Certo, la politica un giorno
sì e l’altro pure scaglia anatemi di cartapesta contro le legioni dei
furbetti e furbastri che popolano il nostro Paese, anche ai tempi non
semplici della pandemia. Ma è uno strepitare che non cambia nulla.
VENTITRE MILIONI DI NULLATENENTI
Quando si dice che il sistema fiscale, sempre sul punto di essere
riformato, strangola i lavoratori si dice ovviamente una verità, ma si
dimentica un pezzo della storia: i ventitre milioni di italiani che
sostengono di avere il portafoglio desolatamente vuoto o di disporre
solo degli evangelici spiccioli. «I 23 milioni di contribuenti che
dichiarano di guadagnare fino a 20mila euro – riassume Vecchi – versano
complessivamente allo Stato 18 miliardi: circa 780 euro a testa».
Possibile?
Più di un terzo degli abitanti della penisola sono nullatenenti o
quasi, conteggiando anche neonati, vegliardi e malati. Qualcosa non
torna, anzi stride.
«Per l’Agenzia delle Entrate – sospira
l’autore – trovare qualcuno che guadagni più di me è difficilissimo».
Addirittura? «Guardo dalle finestre di casa mia e ci sono 30 macchine
parcheggiate, 20 delle quali non me le posso permettere».
E allora?
CINQUE MILIONI DI CONTRIBUENTI SPREMUTI
Accendiamo
i riflettori su quei 5 milioni di contribuenti che galleggiano sopra
quota 35mila: «Un esclusivissimo circolo dei nababbi», lo battezza nel
sarcasmo il giornalista. Sono in cima alle statistiche, ma nella realtà
sono scavalcati da una folla sconosciuta che si siede ristoranti più
gettonati, va in vacanza negli hotel di lusso, guida le auto più potenti
e via elencando gli altri parametri con cui afferrare il tenore di
vita.
DICHIARAZIONI DA FAME
I più
«fortunati» sono i ristoratori che arrivano a 18.400 euro l’anno. A
scendere, nei gironi della miseria pre Covid, ecco i baristi, bloccati a
17.400 euro l’anno e i parrucchieri che portano a casa 1.091 euro al
mese. Sul versante dei titolari di negozi di abbigliamento siamo
all’indigenza pura: 617 euro al mese. Di nuovo, si resta sconcertati.
E l’elenco dei misteri italiani non finisce certo qui.
UN PENSIONATO SU DUE ASSISTITO DALLO STATO
Scrive
Vecchi: «Lo Stato… paga sull’unghia senza dire nulla le pensioni a 8
milioni di italiani che all’improvviso dichiarano di non aver mai
lavorato (o di aver lavorato molto poco) nel corso della loro vita. Che
sia veritiero oppure no, il dato resta questo: un pensionato su due è
assistito dallo Stato».
La narrazione, ancora una volta, pare
troppo ingombrante: va bene essere pessimisti, ma le cifre raccontano
un’Italia disastrata che non esiste.
Roma- Verso un ulteriore giro di vite per ridurre i contagi Covid? “Grande preoccupazione” per l’evoluzione della pandemia, che richiede l'”innalzamento delle misure su tutto il territorio nazionale” e la “riduzione delle interazioni fisiche e della mobilità”: è quanto ha messo a verbale il Comitato tecnico scientifico nella riunione di ieri al termine della quale – sottolineano fonti del Cts – “non è stato suggerito al governo alcun lockdown“.
Ma si chiede una linea ben precisa: “Alla luce dell’aumento sostenuto
della circolazione di alcune varianti virali a maggiore trasmissibilità
– si legge – si ribadisce di mantenere la drastica riduzione delle interazioni fisiche tra le persone e della mobilità. Analogamente a quanto avviene in altri paesi Europei, anche a causa delle varianti virali che potrebbero potenzialmente ridurre l’efficacia di alcuni vaccini,
si rende necessario un rafforzamento/innalzamento delle misure su tutto
il territorio nazionale al fine di ottenere rapidamente una
mitigazione/contenimento del fenomeno epidemico, indipendentemente dai valori di incidenza“.
Nel corso della riunione gli esperti hanno anche auspicato una
“tempestiva conclusione” della revisione dei parametri del monitoraggio,
in modo da rendere “più rapida l’azione di contenimento/mitigazione” da
attuare sia a livello nazionale che locale. Nel Dpcm entrato in vigore
oggi, spiegano ancora gli esperti, è stato inoltre previsto che le
scuole di ogni ordine e grado devono passare in didattica a distanza
nelle zone dove l’incidenza supera i 250 casi ogni 100mila abitanti.
Questa stessa soglia il Cts l’aveva proposta lo scorso 8 gennaio per far
scattare in automatico la zona rossa, ma era stata bocciata dai
presidenti di Regione e poi accantonata dal governo che non l’aveva
inserita nel Dpcm del 14 gennaio. Ora invece è stata recepita, ma solo
per quanto riguarda le scuole e si è lasciato ai governatori la
responsabilità di intervenire ulteriormente. Gli esperti hanno però
ribadito al governo che alla limitazione dell’attività scolastica faccia seguito anche una limitazione degli altri servizi, compresa la chiusura dei centri commerciali.
D’altronde, i dati aggiornati del monitoraggio settimanale ieri
parlavano chiaro: la situazione epidemiologica segna un peggioramento,
l’indice Rt
è in salita e si fissa a 1.06. E si tratta di dati in ‘ritardo’ di 15
giorni. Forse troppo vecchi, secondo gli esperti che fanno appello
appunto a una revisione del sistema.
Un giorno Palmiro Togliatti chiese a un compagno
dirigente del partito: “Quanto ha fatto ieri la Juve?”. L’interlocutore
non seppe rispondere. Togliatti lo gelò: “Tu pretendi di fare la
rivoluzione senza sapere i risultati della Juve?”. Questo piccolo
aneddoto spiega l’attuale travaglio del Pd forse più di tante analisi
apparse in questi giorni. Togliatti fu il capo, anzi il Capo, del
Partito Comunista Italiano: che dell’attuale Pd – e quindi di quello che
è nato dalla varie trasformazioni: Pci, Pds, Ds – è “La Ditta”, per
usare la definizione di Pier Luigi Bersani.
E forse non fu quel Migliore narrato dalla propaganda: ma Togliatti
sapeva che la sua Ditta aveva dei dipendenti che coincidevano con i
clienti. E cioè gli operai. Gli Agnelli, che erano
allora – e di gran lunga – i più grossi industriali italiani, e quindi
la quintessenza del “Padrone”, sapevano bene quanto era importante il
calcio per il popolo: al punto che negli anni Settanta imbottirono la
loro Juventus di calciatori meridionali per rendere orgogliosi i propri
operai emigrati a Torino dal Sud.
Dopo Togliatti ci fu Berlinguer, e la Ditta di
quello continuava a vivere: della classe operaia. Quell’Italia è però
sparita da un pezzo, forse già da quando Giorgio Bocca venne a Carpi per
fare un reportage sulla “via emiliana al comunismo” e uno dei suoi
intervistati gli spiegò: “La novità è che qui i capitalisti siamo noi
comunisti”.
Il Pci-Pds-Ds-Pd viene da una lunga storia di difesa degli
“sfruttati”, come si diceva una volta: ma la storia cambia. Perfino la
Juventus è un’altra cosa. E gli sfruttati oggi sono altri, che più
facilmente votano Lega. Finita l’epopea delle masse operaie, al Pd sono
rimaste battaglie civili – e borghesi – già fatte e già vinte, da un
pezzo, dai radicali; e un elettorato di intellettuali e classe media.
Resta anche, in posti dove si è governato a lungo, una tradizione di
buona amministrazione, certo. Ma la crisi c’è, e non dipende da
Zingaretti, dipende dal fatto che la Ditta non sa più quale sia la
propria ragione sociale.