Archive for Aprile 10th, 2021

Aspettando Nicola

sabato, Aprile 10th, 2021

Secondo l’ultimo sondaggio Ipsos, appena arrivato al Nazareno, l’unico nome in grado di vincere su Roma per il Pd è quello di Nicola Zingaretti. Perché ha la certezza di andare al ballottaggio, e perché poi al ballottaggio non registrerebbe l’ostilità degli elettori che al primo turno votano la Raggi. E perché, sarebbe in grado anche di riaprire la discussione con Calenda, anche se il leader di Azione ha detto che andrà avanti. Prima ancora degli orientamenti, proprio l’averlo sondato rivela un’intenzione.

Insomma, Enrico Letta considera che ci sono ancora margini per convincere l’ex segretario del Pd. Zingaretti che finora ha più volte detto di no, con diverse motivazioni e, in verità, diversi gradi di perentorietà, alcuni assai sfumati: una campagna vaccinale in corso che suggerisce di non lasciare la tolda di comando della Regione, considerati anche gli eccellenti risultati rispetto alle altre Regioni italiane, ma anche una certa delusione personale verso il suo partito, dopo le sue dimissioni, che lo rendono poco predisposto al sacrificio per salvare la patria. Raccontano che, negli sfoghi più amari, ha manifestato il desiderio di candidarsi al Parlamento, quando sarà, per continuare a fare politica da “deputato semplice”.

Per le amministrative, presumibilmente le prime dopo pandemia che, proprio per questo, valgono quanto un’elezione politica come metro del sollievo o della disperazione del paese e quindi come giudizio verso le forze politiche, si voterà dopo l’estate dunque c’è ancora tempo e in parecchi, a partire dai suoi favorevoli all’ipotesi considerano che, se la campagna di vaccinazione proseguirà con successo, tra un paio di mesi sarà più semplice decidere. Sia come sia, la vicenda racconta un paradosso e fotografa una serie di contraddizioni. Il paradosso è che l’unica soluzione, per il Pd, è proprio l’ex segretario che poco più di un mese fa se ne andato provando “vergogna” verso il suo partito. Ed è lo stesso ex segretario romano, che da queste parti ha sempre vinto sin dalla sua prima elezione alla Provincia, nel giorno della disfatta di Rutelli contro Alemanno (i giornali titolarono Zingaretti batte Rutelli di quattro punti), ma che evidentemente non è riuscito a lasciare proprio a Roma un centrosinistra competitivo e con una classe dirigente forte e rinnovata.  

In questa storia delle amministrative, e qui siamo alle contraddizioni, in controluce si rivedono tutti i nodi che hanno portato alle dimissioni di Zingaretti, forse troppo frettolosamente archiviate con la teoria del “crollo psicologico” e momentaneamente nascoste dal restyling sui capigruppo: le difficoltà a costruire una coalizione allargata, le tensioni nel centrosinistra, quelle dentro il Pd. Enrico Letta confida, comprensibilmente, di arrivare a un accordo nazionale con i Cinque Stelle di Conte, nell’ambito del quale l’auspicio è quello di ottenere un passo indietro della Raggi. Complicato, basta dare uno sguardo ai profili social della sindaca per constatare come sia già in campagna elettorale. E l’umore nelle periferie suggerisce peraltro di considerarla tutt’altro una candidata debole. Vale su Roma, vale su Torino e Napoli, nelle città dove cioè è difficile cauterizzare le ferite di questi anni. Senza un accordo su Roma è pressoché impossibile arrivare alla candidatura di Fico a Napoli, che registra l’aperta ostilità di Vincenzo De Luca (l’alternativa è Gaetano Manfredi, che nel Conte 2 è stato ministro in quota Pd) e anche a Torino, dove lo schema ipotizzato prevede un civico comune, non è semplice arrivare a una sintesi dopo anni in cui l’opposizione del Pd è arrivata fino alle denunce penali verso la Appendino.

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Astrazeneca addio, l’Ue prenota 1,8 miliardi di vaccini mRna

sabato, Aprile 10th, 2021

Via da Astrazeneca, che anche questa settimana sta ritardando metà delle consegne all’Europa. Via da Johnson&Johnson, che pure avrebbe scatenato alcuni rari casi di trombosi sui quali – questa è la novità – sta indagando l’Ema. Per il futuro, la Commissione europea punta sui vaccini a ‘Rna messaggero’, considerati anche dalla stessa Agenzia europea del farmaco più efficaci e con minori rischi di reazioni avverse. Palazzo Berlaymont è pronta all’acquisto di ben 900 milioni di dosi efficaci anche contro le varianti del coronavirus, con un’opzione contrattuale di altri 900 milioni di fiale, per l’approvvigionamento dei paesi membri nel 2022 e 2023.

Secondo fonti europee, la casa farmaceutica con cui la Commissione Europea potrebbe firmare un nuovo contratto nei prossimi giorni potrebbe essere la Pfizer-Biontech, che al momento ha maggiori capacità produttive. Ma possibili opzioni sono anche Moderna e Curevac. Il problema però è che fare ora con i richiami:  dopo la Germania, anche la Francia ha deciso di non usare Astrazeneca per la seconda dose agli under-55.

Dopo l’altalena di decisioni sul vaccino di Oxford, responsabile anche secondo l’Ema dei casi di trombosi, pur rari ma gravi, riscontrati nelle utenze più giovani e soprattutto femminili, la via sembra segnata. Per il futuro, Bruxelles, in accordo e a nome degli Stati membri, non farà più affidamento su questo genere di vaccini, bensì su quelli a ‘mRNA’ che spingono il corpo umano a produrre una proteina che imita parte del virus, innescando una risposta immunitaria. Mentre AstraZeneca, come anche il prodotto di Johnson&Johnson, utilizza una versione innocua e indebolita del virus del raffreddore comune di uno scimpanzé per fornire istruzioni per generare una risposta immunitaria e prevenire l’infezione.

Ma questo è il futuro.

Il problema è il presente, non semplice da gestire mentre incalzano le varianti del virus e la campagna vaccinale resta lenta in tutta l’Ue e in particolare in Italia. L’Ue ha un disperato bisogno di vaccini ora. Dopo che diversi Stati membri tra cui Germania, Italia, Francia, Spagna, Belgio e altri hanno scelto di raccomandare l’uso di Astrazeneca solo a chi ha più di 55 o 60 anni, alla luce delle nuove indicazioni dell’Ema sui “forti legami” tra le trombosi e l’inoculazione di questo vaccino, il problema è gestire i richiami, per chi ha già ricevuto la prima dose del siero anglo-svedese.

In Italia il governo raccomanda di usare comunque Astrazeneca, sostenendo che non ci sono segnalazioni di complicazioni dopo la seconda dose. Il punto è che sui richiami non ci sono sufficienti dati scientifici, perché in grandissima maggioranza non sono stati ancora effettuati, come hanno spiegato anche i tecnici dell’Ema in conferenza stampa martedì scorso

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Francia, Germania, Italia: ecco perché l’Europa guadagnerebbe (più degli Usa) da una tassa minima globale sulle multinazionali

sabato, Aprile 10th, 2021

di Raffaele Ricciardi

MILANO – Chi guadagnerebbe da una tassa globale sulle multinazionali, sul modello rilanciato dall’amministrazione americana?

Presentando il suo piano da oltre 2 mila miliardi di dollari di investimenti infrastrutturali, il presidente americano Joe Biden ha rimesso sul tavolo una proposta di una imposizione minima globale sui profitti delle multinazionali, indicandone anche il livello al 21 per cento. Un’asticella che di fatto – notano gli analisti di Unicredit – raddoppierebbe il livello di tassazione ad oggi previsto sui guadagni che le grandi corporation registrano fuori dai confini nazionali (all’interno dei quali l’imposizione corporate è invece al 25,8 per cento).

La Casa Bianca fa sul serio e ha inviato il suo dossier alle 135 cancellerie che collaborano (a grande rilento) nell’Ocse per uniformare la tassazione a livello globale. Oltre a un minimo livello per tutti, nel menu c’è anche il tema delle multinazionali del web che dovrebbero pagare laddove producono i loro ricavi.

Il 21% indicato dalla amministrazione Usa sarebbe leggermente al di sotto del livello di imposizione ufficiale nell’area Ocse, che è sceso dal 32,2% del Duemila all’ultimo 23,3%. Ma è stata una ripida calata, quella dell’imposizione, se si pensa che nel 1980 raramente si scendeva sotto un livello del 45%, come ha ricordato il Tesoro Usa.

Se per Biden e la sua segretaria al Tesoro, Janet Yellen, mettere un minimo livello di gioco per tutti riporterebbe in casa un po’ di gettito e sarebbe quindi un buon modo di finanziare le spese infrastrutturali, l’onda lunga di una simile mossa coordinata (subito il Fmi ha ricordato di esser favorevole all’idea e la presidenza italiana del G20 punta a un primo accordo per l’estate) arriverebbe in tutto il globo.

E, cosa più importante secondo Adreas Rees, capo economista della banca di Piazza Gae Aulenti per la Germania, impatterebbe sul problema ormai annoso dell’arbitraggio fiscale che le multinazionali riescono a fare dai Paesi ad alta a quelli a bassa tassazione. Se la sua messa in pratica fosse severa, si potrebbe bloccare la cosiddetta erosione della base imponibile e riportare le tasse laddove sono generate le vendite o quantomeno alla capofila dei gruppi. Secondo le ultime stime, ben il 40% dei profitti delle multinazionali è stato dirottato verso i cosiddetti paradisi fiscali.

Anche in Europa ci sarebbero implicazioni per una simile tassa minima globale. “Probabilmente la conseguenza sdarebbe un minor gettito fiscale nei piccoli Paesi europei che finora si sono comportati come paradisi fiscali”, pronostica Rees. Che fa anche i nomi e cognomi: l’Ungheria che tassa le imprese al 9%, la Bulgaria al 10% e la nota Irlanda al 12,5%. “Contemporaneamente, allo stesso tempo aiuterebbe a riportare base imponibile verso tre pesi massimi europei che hanno una tassazione elevata: Francia (32%), Germania (30% circa) e Italia (vicino al 28%). Nel Regno Unito, è in programma un innalzamento dal 19 al 25% nel 2023”.

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Ubi Banca diventa Intesa Sanpaolo. Iban, carte, mutui: cosa cambia per i clienti

sabato, Aprile 10th, 2021

di Federico Formica

Per 2,4 milioni di clienti di Ubi Banca sta per scattare l’ora X: lunedì 12 aprile saranno a tutti gli effetti clienti di Intesa San Paolo. Condividono la stessa sorte circa mille filiali di Ubi. Nel fine settimana del 10 e 11 aprile avverrà la migrazione informatica di tutta la rete di Ubi in quella di Intesa. È il risultato finale dell’acquisizione dell’estate 2020. Ma cosa comporta tutto questo per gli ormai ex clienti di Ubi Banca?

Nell’immediato, nel fine settimana gli sportelli automatici di Ubi potrebbero subire “temporanee operazioni di operatività” spiega Intesa, specificando che si potranno però usare senza problemi gli sportelli automatici del gruppo Intesa Sanpaolo.

Il cambio dell’Iban

La novità più importante per i clienti è il cambio dell’Iban, che è già stato comunicato da tempo. Il nuovo codice non comporterà, come spiega Intesa SanPaolo, alcuna seccatura visto che gli accrediti di stipendi e pensioni, così come gli addebiti di bollette o prestiti, “saranno automaticamente aggiornati affinché ogni operazione pre-autorizzata che pervenga in Intesa Sanpaolo sia eseguita con le nuove coordinate”. Anche se l’istituto consiglia comunque, per scrupolo, di comunicare il nuovo Iban a chi effettua addebiti o accrediti domiciliati.

Bancomat, carte prepagate e carte di credito

Per i proprietari di carte di debito come il bancomat Libramat, al momento non cambia nulla. I clienti provenienti da Ubi continueranno a utilizzare quelle del vecchio istituto fino a scadenza, se precedente alla fine dell’anno, oppure in ogni caso fino al 31 dicembre 2021. Poi verranno contattati per sottoscriverne una nuova. Novità invece per chi usa la prepagata Enjoy: Altroconsumo spiega che dal 12 aprile, per ricaricarla bisognerà usare il nuovo codice utente, che si potrà ricavare telefonando all’800303303 o sul sito di Intesa. Ma sarà sempre valida fino a fine anno al massimo.

Durante il fine settimana di migrazione, verrà garantita alla clientela la possibilità di utilizzare le carte di debito per prelevamenti e pagamenti fino ad un massimo di 250 euro al giorno.

Per quanto riguarda le carte di credito di Ubi banca (Hybrid, Libra e Kalìa) rimane la scadenza del 31 dicembre 2021 che però si anticipa al 30 giugno “se la carta è utilizzata prevalentemente tramite firma dello scontrino” oppure fino alla naturale scadenza solo se precedente alla fine dell’anno. In ogni caso, se le carte vengono smarrite, vengono rubate o si deteriorano, al cliente verrà fornita quella di Banca Intesa.

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Erdogan e il sofa-gate: diplomazia al lavoro con la Turchia. Ma la linea di Draghi non cambia

sabato, Aprile 10th, 2021

di Tommaso Ciriaco

Nessuno, ventiquattr’ore dopo, è in grado di affermare con certezza se quella definizione così dura dedicata al presidente turco Recep Tayyip Erdogan, “dittatore”, sia stata preparata, studiata e quindi scagliata in conferenza stampa seguendo un copione già scritto. Probabilmente no, o comunque: non tutto era stato pianificato. E nessuno può prevedere fino in fondo gli effetti di questa sortita. La sostanza, però – quella sì – ricalca una linea che Mario Draghi intende seguire nei prossimi mesi. Frutto di convinzioni consolidate e della nuova fase internazionale. Di certo, il premier è descritto in queste ore come sereno e non troppo turbato da quanto accaduto. Sia chiaro: i canali diplomatici sono già in movimento, com’è ovvio che sia in casi del genere. Ma il presidente del Consiglio non dà segnali di bruschi cambi di direzione, né di clamorose marce indietro. 

Esistono due piani, in questa partita. E vanno tenuti ben distinti. Il primo attiene all’incidente diplomatico della “sedia” negata alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che ha generato la reazione di Draghi. Netta, pubblica, in diretta televisiva, con il logo della Presidenza del Consiglio alle spalle. La più dura registrata in Europa. Ed è culminata con due parole che non si prestano a fraintendimenti: la presidente della Commissione è stata  “umiliata” e, soprattutto, Erdogan è un “dittatore” con cui comunque “si ha bisogno di collaborare”. 


La reazione di Ankara, immediata, ha portato alla convocazione dell’ambasciatore italiano in Turchia. E anche il ministro degli Esteri si è subito scagliato contro l’ex banchiere centrale. A fronte di questi eventi, molto si è messo in moto. “Se ne stanno occupando le diplomazie”, fanno sapere da Palazzo Chigi a metà giornata. Significa che i contatti tra le due rappresentanze sono in corso. Significa che il premier italiano ha già avuto modo di discutere della questione con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, al telefono. E che nelle prossime ore incontrerà il responsabile della Farnesina, appena farà rientro in Italia reduce da due giorni di missione in Malì.

Ridurre il danno significa anche gradire la scelta di Matteo Salvini di rinviare a data da destinarsi il sit-in – previsto per stamane – di fronte alla rappresentanza diplomatica turca nella Capitale. Questa, dunque, è la tela diplomatica. Che sarà condizionata, evidentemente, anche dall’eventuale reazione pubblica di Erdogan, attesa per oggi ma che ancora, a sera, non è stata registrata dai media turchi. Ma le parole di Draghi vanno inquadrate anche allargando lo sguardo al contesto geopolitico internazionale. E’ questo il punto che segnalano tutti gli interlocutori di Palazzo Chigi, in queste ore. Un filo che partendo da Bruxelles, arriva fino a Tripoli e Washington.

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Chiara Ferragni regina di Borsa

sabato, Aprile 10th, 2021

Domitilla Ferrari

Se per i media Chiara Ferragni è considerata ancora una influencer, l’impatto che ha avuto l’annuncio del suo ingresso nel Consiglio di Amministrazione di Tod’s sul titolo in Borsa ribalta decisamente il punto di vista: la più nota imprenditrice digitale al mondo ha scelto di entrare nel CDA di un brand italiano per portare il suo punto di vista in azienda su temi che le sono cari, come l’impatto ambientale e la responsabilità sociale.

Vi ricordate l’eco che aveva avuto quando aveva speso il suo volto raccontando la visita agli Uffizi? I dati che erano stati pubblicati parlavano del 27% di giovani in più dando ragione al direttore del complesso museale Eike Schmidt che aveva avuto l’idea.

Tra i manifestanti durante la manifestazione milanese di solidarietà al movimento Black Lives Matter c’era anche lei col marito, tornati da un weekend al lago proprio per esserci, fare numero, insieme, forti del fatto che comunque coperti da mascherina, felpa e berretti non sarebbero stati riconosciuti. Insieme a loro c’erano tantissimi altri personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura. Oggi serve tutti fare la propria parte, come dice lo zio di Peter Parker: «Da un grande potere derivano grandi responsabilità». E il potere di Chiara Ferragni è un capitale sociale che non conta solo i 23 milioni di follower su Instagram perché quello è solo uno dei numeri pubblici che guardiamo, pensiamo alle visite sul suo blog, l’interesse verso le dirette, non solo su Instagram. Ma è proprio lì che insieme a Fedez a ottobre ha invitato i giovani a indossare la mascherina su richiesta dell’ex primo ministro Conte, da lì si è espressa sul caso della riduzione di pena da parte della Corte d’Appello di Milano nei confronti di uno stupratore dicendo di essere senza parole. Ogni volta studia, fa propri messaggi e concetti e li condivide. Non ha bisogno di andare in televisione per animare il dibattito pubblico: ha persino parlato del suo percorso terapeutico su Instagram per abbattere lo stigma del ricorso alla psicoterapia. Grazie al successo della raccolta fondi che ha permesso di realizzare una terapia intensiva nuova all’ospedale San Raffaele Chiara Ferragni e Fedez sono stati premiati con l’Ambrogino d’oro, la massima onorificenza concessa dal Comune di Milano a chi ha dato lustro alla città.

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Il labirinto di Salvini

sabato, Aprile 10th, 2021

Giovanni Orsina

L’ambiguità è da sempre la cifra di Matteo Salvini. Da quando più di sette anni fa, alla fine del 2013, è diventato segretario della Lega, è saltato a cavallo, in sequenza, di tre coppie di posizioni politiche ben poco compatibili l’una con l’altra.

La prima coppia dissonante che Salvini ha cavalcato metteva insieme l’identità padana e quella nazionale. Come Umberto Bossi aveva ben compreso già negli ultimissimi anni del secolo scorso, la Lega Nord sarebbe potuta sfuggire a un destino di marginalità localistica soltanto alleandosi con un partito capace di prender voti in tutta la Penisola. Il collasso del berlusconismo, fra il 2011 e il 2013, ha messo in crisi questa strategia. Con un’aggravante: al posto di Forza Italia non stava emergendo nulla che potesse svolgerne la funzione. La transizione verso la Lega nazionale e nazionalista è stata per tanti versi una mossa obbligata, allora: se il partner più grande non c’era più, e se la sua crisi rendeva inoltre disponibili milioni di voti, diventava possibile e al contempo necessario far da soli. La presenza in Europa di una posizione politica sovranista che in Italia non era rappresentata da nessun partito ma che avrebbe potuto incontrare il favore degli elettori da un lato, la crisi migratoria dall’altro hanno fatto il resto.

La seconda coppia Salvini l’ha cavalcata in tempi più recenti. Alle ultime elezioni politiche, nel 2018, si è presentato in coalizione con Forza Italia e Fratelli d’Italia, ma poi per un anno ha governato col Movimento 5 stelle. La Lega è passata insomma dal presentarsi come un partito di destra alleato con altri partiti di destra e contrapposto a quelli di sinistra, al proporsi come un partito populista alleato a un altro partito populista e contrapposto a quelli di establishment. Mentre a livello locale, peraltro, restava ancorato alla coalizione originaria. La terza coppia è storia di oggi: a farla breve, Draghi a Roma, Orbán a Bruxelles. Una riedizione della prima coppia, per certi versi: l’ingresso in maggioranza (Draghi) è stato sollecitato dai ceti produttivi dell’Italia settentrionale, là dove quel che resta del sovranismo euroscettico (Orbán) deve servire a conservare il consenso anche in altre fasce sociali e sul territorio nazionale. Come la prima, pure queste due ultime ambiguità sono state, se non proprio rese indispensabili, quanto meno sollecitate dalle circostanze: l’ingovernabile caos politico dell’attuale legislatura prima, l’emergenza pandemica poi. In questi ultimi anni del resto, e non per caso, incongruenze di ogni genere e cambi repentini di direzione politica non hanno di certo caratterizzato soltanto la Lega. Non solo: è possibile ipotizzare che quelle ambiguità abbiano tutto sommato evitato al Paese tensioni e strappi politici ancora più perniciosi.

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Vaccini, ecco il nuovo piano Figliuolo: stop a chi non è in prima linea, subito gli over 80 e il personale scolastico finisce in coda

sabato, Aprile 10th, 2021

PAOLO RUSSO

ROMA. Alla fine l’attesa ordinanza del generale Figliuolo inviata in nottata alle Regioni non si discosta di una virgola dall’ultima versione del piano vaccinale del governo, se non fosse per il fatto che questa volta a impartire l’ordine ai governatori è un commissario con stellette e mostrine. L’ordine di priorità resta infatti: vaccinare «prevalentemente con AstraZeneca» gli over 80, poi i due milioni di estremamente vulnerabili, compresi familiari conviventi e caregiver, a seguire le persone di età compresa tra 70 e 79 anni, infine quelli tra 60 e 69. Con l’indicazione di completare in parallelo l’immunizzazione già avviata del personale sanitario e socio sanitario. Precisando che le dosi vanno riservate a chi tra loro è «in prima linea nella diagnosi, nel trattamento e nella cura del Covid-19 e che opera in presenza presso le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private». Di fatto uno stop ai vaccini elargiti fino ad oggi a man bassa a personale amministrativo, tecnici, e persino fornitori di Asl e ospedali. E non è forse un caso che anche il personale scolastico sia messo in coda.

Questo perché il generale sa bene che il nodo era e resta sempre quello della fascia di età 70-79 anni, colpita dal più alto tasso di mortalità ma con solo il 16% ad aver ricevuto la prima dose e appena il 2,3% il richiamo. In tutto quasi 5 milioni di anziani da immunizzare che diventano sei e mezzo con gli over 80 che devono ancora fare la puntura. Anche se il data base del ministero della Salute rivela che con gli oltre 8 milioni di dosi previste in consegna questo mese si potrebbero vaccinare tutti. Se le Regioni privilegeranno d’ora in avanti i nonni nelle vaccinazioni.

Intanto i super esperti più vicini a Draghi e Speranza si dividono su una mossa che potrebbe dare una bella accelerata alla campagna vaccinale. A lanciare l’idea è il coordinatore del Cts, Franco Locatelli: «Ci sono dati che indicano come sia possibile allungare l’intervallo da 21 a 42 giorni per il richiamo del vaccino Pfizer senza perdere l’efficacia della copertura vaccinale. E questo consentirebbe di incrementare il numero delle persone che possono ricevere la prima dose». «I presupposti immunologici e biologici ci son tutti, poi l’attuazione pratica spetta al ministero della Salute», precisa il professore, ascoltatissimo dal premier. E anche Massimo Galli del Sacco di Milano approva, se pur con un paletto: «Escludendo i più fragili dai quali ci si attende una risposta immunitaria meno valida». Ma proprio da un fedelissimo di Speranza, il direttore della prevenzione del ministero, Gianni Rezza, arriva la mezza smentita. «Non credo che cambi l’indicazione di effettuare la seconda dose per i vaccini di Pfizer e Moderna, che è rispettivamente fissata a 21 e 28 giorni», è la replica secca.

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I nostri anziani trascurati, ora un investimento straordinario

sabato, Aprile 10th, 2021
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di   Maurizio Ferrera

Gli anziani stanno pagando un prezzo altissimo per la pandemia. Lo dimostrano giorno dopo giorno i dati sulla mortalità e sui ricoveri in terapia intensiva. È vero che gli over 80 sono in Italia particolarmente numerosi. Ma fatta cento la popolazione anziana, i nostri tassi di mortalità sono i più alti in Europa, dopo quelli del Regno Unito: 46 decessi ogni cento casi accertati, di contro ai 34 della Germania.

Le inefficienze organizzative, il deficit di informazione, lo scarso coinvolgimento dei medici di base e, da ultimo, il ritardo nelle vaccinazioni hanno giocato un ruolo determinante. Ma a monte c’è un problema più generale: l’inadeguatezza dei servizi di assistenza, in particolare quelli a sostegno della non autosufficienza. Per ogni mille anziani sopra i 65 anni di età, i posti disponibili nelle residenze assistite sono meno di venti, in Spagna sono il doppio, in Olanda il triplo. Più o meno la stessa situazione si registra per i servizi a domicilio. Oltre che sulla salute e sulla qualità della vita degli anziani, il deficit di servizi ha ripercussioni molto negative anche sull’occupazione. Molte donne sono costrette alla inattività o al lavoro part time per motivi di cura. L’atrofia dei servizi pubblici comprime l’offerta di posti di lavoro. Lo Stato risparmia in termini di spesa pubblica, ma molte famiglie devono pagare di tasca propria badanti e altre forme di aiuto. I circoli viziosi generati da questa situazione sono un «male collettivo» che va al più presto superato.

Nel contesto delle politiche pubbliche italiane, la parola «presto» ha perso purtroppo ogni significato. La Commissione Onofri aveva raccomandato una riforma dell’assistenza agli anziani già nel 1997. Nessun governo ha mai promosso un intervento di sistema, di ampio e lungo respiro. L’Unione europea ha da tempo incluso il sostegno alla non autosufficienza fra le priorità che gli Stati membri dovrebbero affrontare. L’articolo 18 del Pilastro europeo dei diritti sociali (il nuovo «faro» della politica sociale Ue) recita: «Ogni persona ha diritto a servizi di assistenza a lungo termine di qualità e a prezzi accessibili, in particolare ai servizi di assistenza a domicilio e ai servizi locali». Parole che sembrano scritte di proposito per dare una scossa ai governi italiani.

Oggi abbiamo un’opportunità di agire che non si ripeterà. Da un lato, il pacchetto Next Generation Fund mette a nostra disposizione una quota significativa di risorse per investimenti e riforme che siano in linea con l’agenda Ue. Dall’altro lato, esiste già un progetto elaborato dal Network Non Autosufficienza, promosso da Caritas, il Forum Diseguaglianza e Diversità e quello del Terzo settore, Cittadinanzattiva e molte altre organizzazioni della società civile. Manca solo la «scintilla», il veicolo decisionale. O meglio, il veicolo c’è, basta volerlo usare: il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, che il governo sta mettendo a punto per ottenere i fondi Next Generation. Per chi non lo vedesse, il nesso fra politiche a sostegno della non autosufficienza e generazioni future sta nell’alleggerimento dei carichi familiari per le donne e nell’espansione dell’occupazione, auspicabilmente anche sui tassi di natalità. Il nesso peraltro risponde ad un altro obiettivo chiave della Ue: la parità di genere.

Il progetto messo a punto dal Network prevede un forte rafforzamento dei servizi domiciliari, la riqualificazione e l’ammodernamento delle strutture residenziali, la creazione di punti di accesso unici per la definizione di prestazioni individualizzate, un nuovo modello di relazioni fra livelli di governo, coordinato in tandem dal Ministero della Salute e da quello del Welfare, e l’istituzione di un efficiente sistema di monitoraggio. La stima dei costi per il periodo 2022-2026 è di circa 7,5 miliardi.

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Vaccini, nei frigo solo tre milioni di dosi, ma servono per i richiami: ritardi e inciampi del piano

sabato, Aprile 10th, 2021

di Fiorenza Sarzanini e Alessandro Trocino

Vaccini, nei frigo solo tre milioni di dosi, ma servono per i richiami: ritardi e inciampi del piano

Il presidente del Veneto Luca Zaia rispolvera un proverbio inventato dal direttore del Mattino Edoardo Scarfoglio, a fine 800: «Non si possono fare le nozze con i fichi secchi». Dove le nozze sarebbero l’immunità di gregge e i fichi secchi i pochi vaccini. L’infettivologo Massimo Galli, invece, si affida alla saggezza popolare: «Senza AstraZeneca, abbiamo solo due gambe per il nostro sgabello». E, si sa, con due gambe sole il rischio di cadere è alto. In questi giorni la campagna vaccinale sembra sempre più traballare: le scorte sono praticamente finite, ci sono tre milioni di dosi che restano in magazzino prudenzialmente per tenere una riserva per i richiami e molte regioni hanno hub, farmacisti e volontari in stand by perché manca la materia prima. Eppure, nonostante tutto, il commissario straordinario per l’emergenza Covid, il generale Francesco Paolo Figliuolo, perlustra il campo di battaglia spronando le truppe (le Regioni) e ostentando sicurezza: «Siamo in linea con il piano». I suoi dati non sembrano però combaciare con quelli delle Regioni. E dai governatori parte l’allarme.

I calcoli di Figliuolo

Nella sua ultima versione (prima era previsto a metà aprile), l’obiettivo è raggiungere 500 mila vaccinazioni al giorno a fine mese per arrivare a settembre a immunizzare il 70 per cento della popolazione. Giovedì sono state fatte 299 mila somministrazioni. Come recuperare le 200 mila che mancano? Ecco i calcoli del commissario. Le dosi previste da contratto per aprile sono 8 milioni, alle quali Figliuolo assicura che si aggiungerà un 15-20 per cento in più. A queste bisogna sommare le dosi consegnate a inizio aprile, relative al primo trimestre, e non ancora usate: il totale delle dosi disponibili ad aprile, dunque, dovrebbe essere di 12 milioni circa. Dal 1° all’8 aprile sono state fatte 1,9 milioni di vaccinazioni. Sottraendo 1,9 da 12 milioni, si hanno 10,1 milioni. Dividendo per 22 giorni, la media farebbe 460 mila circa al giorno. Ma ora siamo, come abbiamo visto, a 300 mila circa. Quindi a fine mese la disponibilità dovrebbe consentire, nell’ultima settimana, di avere 500 mila dosi al giorno. E a maggio e giugno? Sottraendo dai 52 milioni di dosi previste nel secondo trimestre le 10 milioni di aprile, ne rimangono 42. Divisi per 60 giorni farebbe 700 mila dosi al giorno disponibili. Calcolando una riserva del 25-30 per cento per i richiami, avremmo comunque a disposizione 500 mila dosi al giorno. Ancora meglio andrebbe nel terzo trimestre, quando le dosi da contratto sono 84,8 milioni.

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