Archive for Aprile 11th, 2021

Coronavirus in Italia, il bollettino di oggi 11 aprile: 15.746 nuovi casi e 331 morti

domenica, Aprile 11th, 2021

I dati del bollettino sulla pandemia di Covid-19 di domenica 11 aprile. Il tasso di positività è 6,2 (ieri 5,5%) con 253.100 tamponi

Coronavirus in Italia, il bollettino di oggi 11 aprile: 15.746 nuovi casi e 331 morti

Sono 15.746 i nuovi casi di coronavirus in Italia (ieri sono stati +17.567, qui il bollettino). Sale così ad almeno 3.769.814 il numero di persone che hanno contratto il virus Sars-CoV-2 (compresi guariti e morti) dall’inizio dell’epidemia. I decessi odierni sono 331 (ieri sono stati +344), per un totale di 114.254 vittime da febbraio 2020. Mentre le persone guarite o dimesse sono 3.122.555complessivamente: 15.486 quelle uscite oggi dall’incubo Covid (ieri +20.483). E gli attuali positivi — i soggetti che hanno il virus — risultano essere in tutto 533.005, pari a -80 rispetto a ieri (-3276 ).

I tamponi

I tamponi totali (molecolari e antigenici) sono stati 253.100, mentre ieri erano 320.892. Il tasso di positività, in aumento, è pari al 6,2%: ieri era 5,5%.Qui la mappa del contagio in Italia.

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Abituiamoci a vaccinarci (e a farci valere con la Cina)

domenica, Aprile 11th, 2021

“Dovremo continuare a vaccinarci per anni”: parole semplici e vere di Mario Draghi, che cambiano molte prospettive. Abbiamo sbagliato strada per oltre un anno e forse non poteva andare in modo diverso. Perché in Italia c’è poca cultura dello Stato e troppa cultura del condominio, anche e soprattutto nella politica.

Il virus Covid 19, prepotente nemico in arrivo dalla Cina, ci ha aggredito e travolto, come tutto il mondo, ma la nostra reazione è stata più disordinata e scomposta. Hanno sbagliato in tanti per la loro parte, come si è visto e come ha spiegato Mario Draghi con sincerità nella sua ultima conferenza, ma abbiamo aggiunto ai danni la nostra confusione. Così, mascherine, respiratori, terapie intensive, tutti deficit strutturali sono diventati contemporaneamente oggetti di affannosa ricerca e di sanguinose polemiche. Per non parlare delle guerricciole Governo-Regioni e di quelle personali tra esponenti politici.

Inutile rivangare la contrapposizione demenziale tra salute ed economia, che ci siamo trascinati per mesi: oggi ci rendiamo conto che sono un binomio inscindibile, ma la salute comanda, la lotta al Covid viene prima e spero si sia capito oggi che un governo di unità nazionale, che moltiplichi l’impegno e riduca le inutili risse, ci voleva anche un anno prima, come qualcuno aveva anche detto. Invece, per molte settimane ci siamo comportati come i capponi di Renzo descritti da Manzoni, che “s’ingegnavano a beccarsi l’uno con l’altro, come accade troppo sovente tra compagni di sventura”.

Ora, immaginare Salvini e Conte, Zingaretti, Renzi, Di Maio e Meloni, legati per le zampe da qualcuno, è un po’ forte, ma se pensiamo alla dimensione mondiale della pandemia, abbiamo la misura di una tragedia in cui tutti siamo precipitati. Ed ecco che Draghi ci offre due lampi di verità. Il primo sui vaccini, il secondo sulla nostra collocazione identitaria.

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McDonald’s assume: 1.400 i posti di lavoro. E cresce in Italia: l’85% è prodotto nazionale

domenica, Aprile 11th, 2021

di Carlo Ottaviano

Nel periodo più duro per la ristorazione italiana, c’è chi va in controtendenza e addirittura programma entro fine anno l’apertura di 35 nuovi ristoranti con l’assunzione di 1.400 addetti e altrettanto prevede di fare nel 2022. È la filiale italiana di McDonald’s che nel terribile primo anno del Covid è riuscita a realizzare un + 28% nei 500 store con delivery e + 41% nelle 400 location col servizio drive. «La pandemia – afferma Mario Federico, amministratore delegato di McDonald’s Italia – ovviamente ha impattato sul nostro business, come su tutti. Però non ha modificato i nostri piani, tanto da aprire ristoranti e assumere persone. Negli ultimi mesi ci è capitato più volte perfino in zone rosse». 

GLI EFFETTI
Secondo il report sul valore condiviso redatto dall’Istituto Althesys, ogni euro di fatturato prodotto da McDonald’s ne genera tre sull’intera filiera. Così ai 778,2 milioni di euro prodotti dai 610 ristoranti (57 di proprietà e gli altri in licenza), vanno aggiunti 207,6 milioni di euro di ricadute indirette (prevalentemente i fornitori) e 453,3 milioni di euro di ricadute indotte sull’intera filiera produzione-consumo. I tributi fiscali complessivi dell’ultimo anno sono stati 521milioni (+16,5% rispetto all’anno precedente).

L’acquisto in Italia della materia prima è stato uno degli impegni maggiori di Federico, salernitano di 58 anni, rientrato nel 2016 come ad, dopo aver compiuto un lungo percorso internazionale in McDonald’s. «Oggi – racconta – l’85% dei fornitori ha sede nella penisola. La carne è 100% bovina, proviene da 15.000 allevamenti italiani ed è fornita da Inalca; il pollo, anch’esso 100% italiano, arriva da Amadori; il latte per i gelati da Granarolo; le mele dall’altoatesino Vog; il pane è prodotto in due stabilimenti, uno dei quali a Monterotondo, vicino Roma. Abbiamo altri fornitori su tutto il territorio e a una lunga tradizione di partnership con i consorzi dei prodotti tipici, Dop e Igp». Tradotto in numeri vuol dire 94 mila tonnellate di materie prime agroalimentari italiane all’anno.

GLI IMPEGNI
I dipendenti sono 25 mila con una quota molto alta di giovani (il 50% ha meno di 30 anni e il 32% ancora studia). Il 50% dei manager degli store sono donne (il 62% del totale) e infine il 15% di chi lavora in McDonald’s è straniero. «Sappiamo bene – afferma Federico – che c’è una grande differenza tra essere presenti in una comunità ed essere parte di essa impattando sui territori nei quali operiamo. Vogliamo continuare su questa strada, continuando a investire in Italia per rafforzare ancora di più il nostro legame con il territorio e generare ulteriore valore per le comunità».

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Torino, pensionato uccide moglie, figlio disabile e padroni di casa a Rivarolo Canavese. Poi, si spara: è grave

domenica, Aprile 11th, 2021

Strage a Rivarolo Canavese (Torino) dove nella notte un pensionato ha ucciso la moglie, il figlio disabile e i padroni di casa. Poi, si è sparato, ferendosi gravemente e ora è ricoverato in gravi condizioni in ospedale a Torino. Lotta infatti tra la vita e la morte Renzo Tarabella, 83 anni. 
I carabinieri hanno rinvenuto poco dopo le 3 di stamani le quattro persone morte all’interno di un appartamento. Erano state colpite nelle ore precedenti con una pistola da un inquilino pensionato che, durante le fasi di accesso dei militari dal balcone dell’appartamento con l’ausilio dei vigili del fuoco, si è sparato ferendosi in modo grave.

Quattro vittime

Le persone decedute sono la moglie e un figlio disabile del pensionato, nonché una coppia di anziani coniugi, proprietari dell’appartamento e domiciliati in un altro alloggio al piano di sopra del medesimo stabile. La moglie del pensionato, Rosaria Valovatto, aveva 79 anni, mentrei il figlio Wilson aveva 51 anni.

Uccisi anche i vicini, proprietari della casa in cui viveva il pensionato con la sua famiglia: Osvaldo Dighera, di 74 anni, e la moglie Liliana Heidempergher, di 70.

La pistola era regolarmente detenuta

L’uomo si è sparato, ferendosi in modo grave, con la stessa pistola semiautomatica calibro 9×21 detenuta in modo regolare.

Le indagini sul movente

I carabinieri del Nucleo Investigativo del Comando provinciale di Torino stanno effettuando i rilievi nell’appartamento di Rivarolo Canavese, al quinto piano di un condominio di Corso Italia, in cui 83enne Renzo Tarabella ha ucciso la moglie Rosaria Valovatto, 79 anni, il figlio disabile di 51 anni, Wilson, e i padroni di casa Osvaldo Dighera e Liliana Heidempergher, marito e moglie di 74 e 70 anni. È accaduto al civico 46, nel centro della cittadina, poco più di 12 mila abitanti a mezz’ora d’auto da Torino. I carabinieri stanno anche ascoltando vicini di casa e parenti per ricostruire quanto accaduto e delineare un movente.

A dare l’allarme, secondo una prima ricostruzione, è stata la figlia dei proprietari di casa. La donna, che abita in un edificio di fronte ai genitori, non riuscendo a contattarli al telefono, è andata a suonare il campanello e, non trovandoli in casa, ha chiamato i carabinieri.

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Regia a Palazzo Chigi e un team di ministri per gestire il Recovery

domenica, Aprile 11th, 2021

Alessandro Barbera

ROMA. È deciso: la regia politica del Recovery plan andrà a un comitato di ministri riunito attorno a Mario Draghi. A due settimane dalla scadenza per la presentazione a Bruxelles del piano da duecento miliardi, il premier sta affrontando la complicata strettoia politica che costò il posto a Giuseppe Conte. Se l’allora premier avrebbe voluto accentrare tutto a Palazzo Chigi, Draghi sceglie la via francese, dando pieno mandato per l’attuazione del piano ad una struttura attuativa presso il ministero del Tesoro. Se Conte avrebbe voluto attorno a sé solo due ministri (Gualtieri e l’allora ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli), il comitato dei ministri di Draghi sarà più largo. Dovrebbe essere composto da sei persone, quelle maggiormente coinvolte nelle «missioni» del piano: Daniele Franco (Tesoro), Roberto Cingolani (Transizione ecologica), Vittorio Colao (Digitalizzazione), Enrico Giovannini (Infrastrutture), Maria Cristina Messa (Ricerca), Roberto Speranza (Sanità). C’è un però, che in queste ore sta creando a Draghi problemi coi partiti: fatta eccezione per Speranza, si tratta solo di ministri tecnici. Non sono ad esempio rappresentati i giovani, il Sud, né le pari opportunità, le cosiddette «direttrici trasversali» del piano. Non ci sono soprattutto i grandi azionisti della maggioranza, ovvero Cinque Stelle, Lega e Pd. Fonti di Palazzo Chigi gettano acqua sul fuoco: «La composizione del comitato sarà variabile, verranno coinvolti di volta in volta i ministri interessati da questo o quell’investimento».

Per Draghi quel che conta è aver affidato al Tesoro il ruolo di interlocutore unico con la Commissione europea e gli uffici che ogni sei mesi chiederanno conto dello stato di avanzamento di questa o quella spesa. Il premier due giorni fa in conferenza stampa ha preso l’impegno a presentare il progetto all’Unione entro il 30 aprile. Non è un termine perentorio, ma prima viene consegnato, più aumentano le probabilità di ottenere entro la fine dell’estate un anticipo delle risorse pari a circa 25 miliardi.

Ebbene, nonostante manchino due settimane, ci sono ancora diverse questioni da mettere a punto. Una è la citata sulla gestione politica e attuativa del piano: su questo Palazzo Chigi sta scrivendo un decreto ad hoc. Un secondo decreto ad hoc servirà a introdurre il cosiddetto «modello Genova», ovvero le deroghe alle norme sugli appalti che permettano di evitare lo stop ai cantieri in nome di questa o quella autorizzazione. Palazzo Chigi punta ad approvare entrambi i decreti entro fine mese, ma non è detto che riesca nell’impresa.

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Banda Ultralarga, la lenta rincorsa italiana contro il digital divide. Ecco i dati su ritardi e cantieri aperti

domenica, Aprile 11th, 2021

Daniele Tempera

Immaginate un Paese dove poter lavorare a distanza anche da un piccolo borgo del nostro mezzogiorno, dove i medici possono operare da remoto un paziente o dove la gestione del verde o del traffico delle nostre città sono regolate da un sistema di intelligenza artificiale. No, non è un affresco di tecno-ottimismo anni ‘90, ma quello che la tecnologia potrebbe permetterci a breve, a patto di una singola premessa: la diffusione capillare del 5g e della Banda Ultralarga. Non è un caso che le reti, e il digitale, siano uno degli aspetti strategici del piano definito “Next Generation EU” e  della Commissione europea che ha stabilito obiettivi ambiziosi. Entro il 2030 tutte le famiglie europee dovranno poter usufruire di una connettività di almeno 1 Gbps e il 5G dovrà coprire tutte le aree popolate del continente. Più pragmaticamente, fra poco più di quattro anni, ovvero nel 2025, l’obiettivo è di dare invece una connettività di almeno 100mbps per tutte le famiglie europee e una copertura di 1Gbps per uffici, scuole, ospedali, biblioteche. Ma di cosa parliamo quando parliamo di “Banda Ultralarga”?

Raccontiamo  velocità (e lentezza): ecco come partecipare

Proviamo a costruire una mappa dell’Italia e della sua velocità di connessione. Ecco perché chiediamo ai nostri lettori di condividere uno speed test, un modo per calcolare la capacità di download e di upload della nostra rete. In questo anno di smartworking e didattica a distanza per tutti la velocità (o la lentezza) ha fatto la differenza. In attesa della banda ultra larga e delle tecnologie più avanzate proviamo a raccontare come oggi – anno 2021 – navighiamo su internet.

C’era una volta la ADSL

In principio fu il rame. Standard creato nel 2000, le connessioni ADSL sfruttavano il doppino telefonico per scaricare e trasmettere dati in rete. Una soluzione che si appoggiava su tecnologie già esistenti per connettere abitazioni e aziende e che era caratterizzata da un’asimmetria tra download (più veloce) e upload (molto più lento). Da 640kbps si è arrivati, nel tempo, a velocità prossime ai 20mbps in download. Oggi la rivoluzione è costituita dalla luce, ovvero da una tecnologia nata negli anni ‘50, ma che sta rivoluzionando le nostre telecomunicazioni. Utilizzando segnali luminosi, invece che elettrici, e costituiti da filamenti vetrosi e polimerici, i cavi in fibra ottica permettono di trasportare dati in modo enormemente più veloce rispetto a quelli in rame. È la condizione essenziale per realizzare quella che è definita “banda ultralarga”.  Secondo l’Agenda europea questa definizione può essere applicata a ogni rete caratterizzata da una connettività superiore ai 100mbps. Le reti in fibra ottica che arrivano fino a casa nostra (FFTH), promettono una velocità prossima a 1Gbps. Ma questa opzione non è certamente oggi la più diffusa. 

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Come si osserva dallo schema sopra, esistono oggi tipi di architetture miste. La fibra ottica può terminare più o meno vicina alle nostre abitazioni per poi lasciare spazio al rame. O può interagire con reti wireless; in questo caso i dati viaggiano su onde elettromagnetiche fino alla prima centrale fisica disponibile in fibra (FWA), una soluzione particolarmente utile in aree difficili da cablare. A seconda delle varie opzioni la velocità di connessione sarà ovviamente diversa. Lo sforzo è però arrivare, nel più breve tempo possibile, a una copertura adeguata di reti in fibra ottica e wireless. Un obiettivo che richiede un grande sforzo economico e infrastrutturale e che assomiglia spesso a una lotta contro il tempo per non rimanere indietro nel nuovo mondo digitale. In Italia il conto alla rovescia è partito nel 2015. 

Il piano italiano per la Banda Ultralarga

L’anno stabilito è il 2023. È questa la deadline stabilita dal piano di Banda Ultralarga (BUL) per le copertura di reti di ultima generazione delle cosiddette aree bianche. Parliamo di aree a “fallimento di mercato”, cioè dove gli operatori privati non hanno in previsione di implementare la velocità di connessione ad almeno 30 Mbps ed è prioritario l’intervento statale. Il Piano di banda ultralarga è stato varato nel 2015 e divide infatti il territorio nazionale in quattro macroaree e cerca di conciliare pubblico e privato.

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Molto di nuovo

domenica, Aprile 11th, 2021

MASSIMO GIANNINI

Mario Draghi che dà del “dittatore” a Erdogan. È la classica buccia di banana sulla quale scivola un leader arrivato al potere con le apparenti credenziali di un “impolitico”, o è invece la ruvida frustata di un primo ministro che insegue un più raffinato disegno diplomatico? Le sacre fonti di Palazzo Chigi invitano a non caricare di significati eccessivi l’accusa che il presidente italiano ha rivolto al suo omologo turco: era indignato per il trattamento scandalosamente sessista riservato alla presidente della Commissione europea in visita ufficiale ad Ankara, e questo è tutto. Può darsi che sia così. Ma quello che è accaduto, depurato dalla possibile motivazione psicologica, sollecita comunque qualche riflessione politica. Intanto perché l’affondo del premier rappresenta in ogni caso uno strappo lessicale e istituzionale: nel galateo delle diplomazie nessun capo di Stato e di governo usa dire ciò che pensa in modo così netto e quasi brutale. E poi perché, a distanza di quattro giorni e nonostante le proteste ufficiali della Turchia, il premier non ha fatto nulla per troncare e sopire.

Dunque, cosa c’è dietro la sortita di Draghi? Suggerisco due chiavi di lettura. La prima chiave di lettura è fattuale: Erdogan è un dittatore perché viola sistematicamente i diritti del suo popolo e del popolo curdo e reprime le libertà fondamentali, di espressione e di genere. Comprensibile nella sostanza, irricevibile nella forma: come ha scritto giustamente Nathalie Tocci, Erdogan è un pessimo autocrate, maschilista e nazionalista, ma in Turchia non c’è una dittatura, il presidente è stato eletto dai cittadini, le tre maggiori città sono in mano a sindaci dell’opposizione e tra due anni si svolgeranno nuove elezioni. Draghi non può non saperlo.

Se nonostante questo ha evocato la “dittatura”, e poi non ha fatto nessuna marcia indietro, è verosimile che abbia voluto lanciare qualche messaggio. Agli amici e ai nemici. E qui siamo alla seconda chiave di lettura, che è invece geo-strategica. Con la sua intemerata, per quanto “tecnicamente” imprecisa, il premier riempie a modo suo l’inquietante vuoto di leadership dell’Unione in Europa, in Medioriente, nel mondo. Un vuoto che deriva dal declino dell’asse franco-tedesco, con una Merkel in uscita e un Macron in attesa. Che precipita nella ritirata comunitaria dai grandi teatri globali del conflitto militare-industriale, dal Corno d’Africa alla Siria all’Iraq.

Che si manifesta nel clamoroso fallimento della campagna vaccinale, con una copertura finora limitata al 14% dei cittadini europei, contro il 38% degli americani e il 58% dei britannici. Che deflagra simbolicamente proprio con il “Sofà-gate” in terra turca, con un patetico Charles Michel che invece di cedere la poltrona alla collega Von der Leyen usa a vanvera il “protocollo” per giustificare la sua figuraccia, quasi più oscena di quella di Erdogan.

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Dante per Dante

domenica, Aprile 11th, 2021
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di   Massimo Gramellini

A Caprona, cinquecento anime nei pressi di Pisa, spunta un murales dove il nasone del Sommo Poeta è in primo piano per onorare le vittime della mafia con uno dei suoi versi più famosi: «E quindi uscimmo a riveder le stelle». Qualcuno del posto esce a rivedere il dipinto e ne rimane sconvolto. Quel Dante glorificato nel murales non è forse lo stesso Dante che il 16 agosto 1289, praticamente l’altro ieri, partecipò con i guelfi di Firenze all’assedio del castello di Caprona, abitato dai ghibellini di Pisa, e che ebbe pure l’ardire di citare l’episodio nella Divina Commedia, paragonando i pisani ai diavoli di Malebolge? L’affronto reclama una rappresaglia letteraria immediata. Non avendo a disposizione Petrarca e nemmeno un rapper, gli offesi la affidano a un ultrà di calcio. Lo striscione appeso nei pressi del murales recita: «Calci e Caprona, Dante non rappresenta la zona». I critici diranno se si tratta di un verso immortale. Di sicuro l’episodio rivela come gli italiani – e in primis i toscani, che sono i più italiani di tutti – coltivino una riserva insospettabile di memoria storica, destinata a venire allo scoperto ogni volta che intercetta un loro rancore.

Per completezza vi segnalo che l’amministrazione comunale, con una mossa da trapezista, ha deciso di difendere il murales pro-Dante e al tempo stesso di non rimuovere lo striscione anti-Dante. A riprova che l’Italia è fatta di guelfi e di ghibellini, ma soprattutto di democristiani.

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Pietro Castellitto: la serie su Totti, la passione per Nietzsche. E mi piace andare oltre i conformismi

domenica, Aprile 11th, 2021

di Valerio Cappelli

Pietro Castellitto: la serie su Totti, la passione per Nietzsche. E mi piace andare oltre i conformismi

Pietro Castellitto, 30 anni a dicembre, figlio d’arte (suo padre è Sergio Castellitto, sua madre Margaret Mazzantini) è un antiborghese cresciuto in un ambiente privilegiato, spiazzante e analitico, libero nei suoi pensieri. Il suo obiettivo è: avere talento dunque poter essere ascoltato e andare controvento. E’ il personaggio del momento.

Ha due candidature ai David di Donatello per I predatori: migliore regista esordiente e sceneggiatura originale. E ha appena concluso su Sky la serie su Totti (in media ascolti record di 1 milione 100 mila spettatori, ora on demand e in streaming su Now): «Francesco mi ha detto, le pause sono quelle mie».

Quali sono i commenti di romanisti e laziali che l’hanno colpita di più?

«I romanisti hanno ritrovato l’essenza del capitano, per me è anche un modo di stare tranquillo quando cammino per Roma (sorride). I laziali mi hanno detto che per prepararmi al meglio ho dovuto ripetere tre volte la terza media. Alla fine è un uomo che malgrado soldi e successo ha tenuto intatta la sua personalità. Non c’era nulla di scontato, Totti non è Maradona…La camorra, la vita spericolata»

Cosa risponde a chi, cercando il sosia di Totti, ha commentato che lei è troppo diverso fisicamente…

«Allora potevano dare la parte a lui, allo stesso Totti. Avevamo pensato al trucco prostetico ma non aveva senso in un contesto dove nessuno lo aveva. E poi avrei avuto sei ore di trucco, diventava un altro lavoro».

I David?

«I premi arrivano quando hai fatto le cose da tanto tempo. Ero più euforico e avevo i piedi meno per terra quando ho finito di girare o quando ho saputo che l’avrei girato; lì hai il mistero di quello che accadrà, ora ho la consapevolezza che devo farmi venire un’idea per continuare».

Lei è più attore o autore?

«Più autore. Recitare è una vacanza, arrivi a progetto già costruito, mi piace quando il personaggio ha un suo passato, anche se non c’è nel film, perché comprendi altre cose. Per fare l’attore devi saper dire le bugie e fare gli scherzi».

Cosa vuol dire?

«Se non scherzi più, il tuo percorso è stato sacrificato alle consuetudini e al perbenismo dominante. Negli Anni ‘20 Al Capone faceva soldi gestendo alcol e droga, oggi li fai perpetuando il bene. Penso ai milioni incassati dagli studi legali attraverso il monumento all’ipocrisia del Me Too, battaglia sacrosanta, ma se Kevin Spacey mi mette la mano sulla coscia gliela sposto, non gli rovino la vita chiedendo pure soldi; io vedo la volontà di potenza che sfrutta questa crociata morale per ingrassarsi, sto parlando come amante di Nietzsche, che studiai a Filosofia. Ho anche compiuto un viaggio in Germania sulle sue tracce, ho dormito nella casa museo dove ha ideato Zarathustra…».

L’annosa questione dell’«essere figlio di»?

«E’ un problema che hanno sempre avuto gli altri, poi l’hanno fatto venire a me, un senso di oppressione per cui non sono visto come Pietro qualunque cosa faccia. Questo mi ha spinto a bruciare le tappe, ad avere una voce mia, che dipende anche dalla genetica, dall’educazione, dai genitori e da una percentuale di imprevedibilità».

Chi è più presente dei suoi genitori?

«C’è un buon equilibrio, non facciamo calcoli, ci diciamo tutto soprattutto quando litighiamo. Non parliamo in modo preponderante di cinema e libri. Mi sono sentito amato, mai privilegiato, mi hanno sempre detto che le cose dovevo conquistarmele, che avrei avuto molti detrattori. Nessun attore vuole che il proprio figlio lo segua perché è tutto aleatorio. Una parte della libertà l’ho portata anch’io in casa, mi riferisco a una intolleranza alla prepotenza intellettuale. Ho detto cose di sinistra in ambienti di destra e viceversa, anche se è più difficile dire cose di destra in ambienti di sinistra».

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Un mondo più difficile per l’Italia

domenica, Aprile 11th, 2021

di Angelo Panebianco

Il mondo sta diventando un posto molto pericoloso anche per noi italiani. Si pensi a come si è surriscaldato il clima diplomatico. La settimana scorsa abbiamo espulso due diplomatici russi che ottenevano segreti Nato da un nostro ufficiale. La Russia ha minacciato ritorsioni. Ieri l’altro, il nostro Primo ministro ha definito Erdogan un dittatore. Ha poi aggiunto, con realismo, che dobbiamo collaborare anche con i dittatori quando sono in gioco gli interessi vitali del nostro Paese. Erdogan ha risposto con finta indignazione e ha convocato il nostro ambasciatore. Questi due episodi ci ricordano quanto siano ora agitate le acque internazionali.

Consideriamo proprio il caso Erdogan. Le parole di Draghi non esprimevano solo biasimo per il trattamento riservato alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. C’era, implicito, anche un riferimento alla questione libica. In Libia Draghi è stato tre giorni fa. Allo scopo di riannodare i legami (spezzati o, quanto meno, assai logorati) fra l’Italia e un Paese le cui sorti hanno uno stretto legame con il nostro interesse nazionale: si tratti di rifornimenti energetici, della presenza in Libia delle nostre imprese, di flussi migratori, di contrasto al terrorismo o di sicurezza militare. Una Libia che è oggi spartita fra russi e turchi. Gli uni e gli altri ritengono di essersi conquistati sul terreno il diritto di essere lì, avendo partecipato, su fronti opposti, alla guerra fra la Tripolitania e la Cirenaica.

L’Italia è impegnata ad appoggiare gli sforzi dell’attuale governo libico di riconquistare l’unità del Paese. Se coronati da successo danneggerebbero gli interessi sia di Erdogan che di Putin. La Libia non potrà essere davvero riunita se l’esercito turco e i mercenari russi non se ne andranno. Quello italiano è un tentativo necessario ma difficile. Puntiamo sui rapporti economici per ricostituire i nostri legami con la Libia. Ma può la capacità di offrire cooperazione economica sconfiggere le posizioni di forza di coloro (come appunto Erdogan) che hanno soldati e armi sul terreno? I precedenti storici non sono incoraggianti. In ogni caso, il governo Draghi è impegnato, in Libia, in una partita i cui esiti saranno assai importanti per l’Italia. In sintesi: di quanta sicurezza disporremmo (non solo noi, anche il resto dell’Europa), se il Mediterraneo diventasse stabilmente un mare russo/turco?

Alzare il tiro della polemica con Erdogan, serve forse a perseguire diversi obiettivi. È un messaggio implicito alla Nato(di cui la Turchia fa tuttora parte), un messaggio che dice: non possiamo più trattare Erdogan con i guanti, come se la Turchia fosse ancora l’alleato di un tempo. È un richiamo agli Stati Uniti, è la richiesta di un loro rinnovato impegno nel Mediterraneo. Potrebbe essere anche un messaggio alla Germania: lo scambio denaro contro controllo delle frontiere forse dovrebbe essere rinegoziato in modo più favorevole per l’Europa. È infine, certamente, un messaggio indirizzato agli italiani: non possiamo evitare di cooperare col dittatore di turno quando ciò serva a tutelare certi nostri vitali interessi ma dobbiamo anche essere consapevoli del fatto che ci sono grandi differenze fra noi e il suddetto dittatore, dobbiamo monitorare con attenzione le conseguenze spiacevoli che da queste differenze possono in ogni momento derivare.

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