I
dati del bollettino sulla pandemia di Covid-19 di domenica 11 aprile. Il
tasso di positività è 6,2 (ieri 5,5%) con 253.100 tamponi
Sono 15.746 i nuovi casi di coronavirus in Italia (ieri sono stati +17.567, qui
il bollettino). Sale così ad almeno 3.769.814 il numero di persone che
hanno contratto il virus Sars-CoV-2 (compresi guariti e morti)
dall’inizio dell’epidemia. I decessi odierni sono 331 (ieri sono stati +344), per un totale di 114.254 vittime da febbraio 2020. Mentre le persone guarite o dimesse sono 3.122.555complessivamente: 15.486 quelle uscite oggi dall’incubo Covid (ieri +20.483). E gli attuali positivi — i soggetti che hanno il virus — risultano essere in tutto 533.005, pari a -80 rispetto a ieri (-3276 ).
I tamponi
I tamponi totali (molecolari e antigenici) sono stati 253.100, mentre ieri erano 320.892. Il tasso di positività, in aumento, è pari al 6,2%: ieri era 5,5%.Qui la mappa del contagio in Italia.
“Dovremo continuare a vaccinarci per anni”: parole semplici e
vere di Mario Draghi, che cambiano molte prospettive. Abbiamo sbagliato
strada per oltre un anno e forse non poteva andare in modo diverso.
Perché in Italia c’è poca cultura dello Stato e troppa cultura del
condominio, anche e soprattutto nella politica.
Il virus Covid 19, prepotente nemico in arrivo dalla Cina, ci ha
aggredito e travolto, come tutto il mondo, ma la nostra reazione è stata
più disordinata e scomposta. Hanno sbagliato in tanti per la loro
parte, come si è visto e come ha spiegato Mario Draghi con sincerità
nella sua ultima conferenza, ma abbiamo aggiunto ai danni la nostra
confusione. Così, mascherine, respiratori, terapie intensive, tutti
deficit strutturali sono diventati contemporaneamente oggetti di
affannosa ricerca e di sanguinose polemiche. Per non parlare delle
guerricciole Governo-Regioni e di quelle personali tra esponenti
politici.
Inutile rivangare la contrapposizione demenziale tra salute ed
economia, che ci siamo trascinati per mesi: oggi ci rendiamo conto che
sono un binomio inscindibile, ma la salute comanda, la lotta al Covid
viene prima e spero si sia capito oggi che un governo di unità
nazionale, che moltiplichi l’impegno e riduca le inutili risse, ci
voleva anche un anno prima, come qualcuno aveva anche detto. Invece, per
molte settimane ci siamo comportati come i capponi di Renzo descritti
da Manzoni, che “s’ingegnavano a beccarsi l’uno con l’altro, come accade
troppo sovente tra compagni di sventura”.
Ora, immaginare Salvini e Conte, Zingaretti, Renzi, Di Maio e Meloni,
legati per le zampe da qualcuno, è un po’ forte, ma se pensiamo alla
dimensione mondiale della pandemia, abbiamo la misura di una tragedia in
cui tutti siamo precipitati. Ed ecco che Draghi ci offre due lampi di
verità. Il primo sui vaccini, il secondo sulla nostra collocazione
identitaria.
Nel periodo più duro per la ristorazione italiana, c’è chi va in
controtendenza e addirittura programma entro fine anno l’apertura di 35
nuovi ristoranticon l’assunzione di 1.400 addetti e altrettanto prevede di fare nel 2022. È la filiale italiana di McDonald’s che nel terribile primo anno del Covid è riuscita a realizzare un + 28% nei 500 store con delivery e + 41% nelle 400 location col servizio drive. «La pandemia – afferma Mario Federico, amministratore delegato di McDonald’s Italia
– ovviamente ha impattato sul nostro business, come su tutti. Però non
ha modificato i nostri piani, tanto da aprire ristoranti e assumere
persone. Negli ultimi mesi ci è capitato più volte perfino in zone
rosse».
GLI EFFETTI Secondo il report sul valore condiviso redatto dall’Istituto Althesys, ogni euro di fatturato prodotto da McDonald’s ne genera tre sull’intera filiera.
Così ai 778,2 milioni di euro prodotti dai 610 ristoranti (57 di
proprietà e gli altri in licenza), vanno aggiunti 207,6 milioni di euro
di ricadute indirette (prevalentemente i fornitori) e 453,3 milioni di
euro di ricadute indotte sull’intera filiera produzione-consumo. I
tributi fiscali complessivi dell’ultimo anno sono stati 521milioni
(+16,5% rispetto all’anno precedente).
L’acquisto in Italia della materia prima è stato uno degli impegni
maggiori di Federico, salernitano di 58 anni, rientrato nel 2016 come
ad, dopo aver compiuto un lungo percorso internazionale in McDonald’s.
«Oggi – racconta – l’85% dei fornitori ha sede nella penisola. La carneè 100% bovina, proviene da 15.000 allevamenti italiani ed
è fornita da Inalca; il pollo, anch’esso 100% italiano, arriva da
Amadori; il latte per i gelati da Granarolo; le mele dall’altoatesino
Vog; il pane è prodotto in due stabilimenti, uno dei quali a
Monterotondo, vicino Roma. Abbiamo altri fornitori su tutto il
territorio e a una lunga tradizione di partnership con i consorzi dei
prodotti tipici, Dop e Igp». Tradotto in numeri vuol dire 94 mila
tonnellate di materie prime agroalimentari italiane all’anno.
GLI IMPEGNI I
dipendenti sono 25 mila con una quota molto alta di giovani (il 50% ha
meno di 30 anni e il 32% ancora studia). Il 50% dei manager degli store
sono donne (il 62% del totale) e infine il 15% di chi lavora in
McDonald’s è straniero. «Sappiamo bene – afferma Federico – che c’è una
grande differenza tra essere presenti in una comunità ed essere parte di
essa impattando sui territori nei quali operiamo. Vogliamo continuare
su questa strada, continuando a investire in Italia per rafforzare
ancora di più il nostro legame con il territorio e generare ulteriore
valore per le comunità».
Strage a Rivarolo Canavese (Torino) dove nella notte un pensionato ha ucciso la moglie, il figlio disabile e i padroni di casa. Poi, si è sparato, ferendosi gravemente e ora è ricoverato in gravi condizioni in ospedale a Torino. Lotta infatti tra la vita e la morte Renzo Tarabella, 83 anni. I carabinieri hanno rinvenuto poco dopo le 3 di stamani le quattro persone morte all’interno di un appartamento. Erano state colpite nelle ore precedenti con una pistola da un inquilino pensionato che, durante le fasi di accesso dei militari dal balcone dell’appartamento con l’ausilio dei vigili del fuoco, si è sparato ferendosi in modo grave.
Quattro vittime
Le
persone decedute sono la moglie e un figlio disabile del pensionato,
nonché una coppia di anziani coniugi, proprietari dell’appartamento e
domiciliati in un altro alloggio al piano di sopra del medesimo stabile.
La moglie del pensionato, Rosaria Valovatto, aveva 79 anni, mentrei il figlio Wilson aveva 51 anni.
Uccisi anche i vicini, proprietari della casa in cui viveva il pensionato con la sua famiglia: Osvaldo Dighera, di 74 anni, e la moglie Liliana Heidempergher, di 70.
La pistola era regolarmente detenuta
L’uomo si è sparato, ferendosi in modo grave, con la stessa pistola semiautomatica calibro 9×21 detenuta in modo regolare.
Le indagini sul movente
I carabinieri del Nucleo Investigativo del Comando provinciale di Torino stanno effettuando i rilievi nell’appartamento di Rivarolo Canavese, al quinto piano di un condominio di Corso Italia, in cui 83enne Renzo Tarabella ha ucciso la moglie Rosaria Valovatto, 79 anni, il figlio disabile di 51 anni, Wilson, e i padroni di casa Osvaldo Dighera e Liliana Heidempergher, marito e moglie di 74 e 70 anni. È accaduto al civico 46, nel centro della cittadina, poco più di 12 mila abitanti a mezz’ora d’auto da Torino. I carabinieri stanno anche ascoltando vicini di casa e parenti per ricostruire quanto accaduto e delineare un movente.
A
dare l’allarme, secondo una prima ricostruzione, è stata la figlia dei
proprietari di casa. La donna, che abita in un edificio di fronte ai
genitori, non riuscendo a contattarli al telefono, è andata a suonare il
campanello e, non trovandoli in casa, ha chiamato i carabinieri.
ROMA. È deciso: la regia politica del Recovery
plan andrà a un comitato di ministri riunito attorno a Mario Draghi. A
due settimane dalla scadenza per la presentazione a Bruxelles del piano
da duecento miliardi, il premier sta affrontando la complicata strettoia
politica che costò il posto a Giuseppe Conte. Se l’allora premier
avrebbe voluto accentrare tutto a Palazzo Chigi, Draghi sceglie la via
francese, dando pieno mandato per l’attuazione del piano ad una
struttura attuativa presso il ministero del Tesoro. Se
Conte avrebbe voluto attorno a sé solo due ministri (Gualtieri e
l’allora ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli), il comitato dei
ministri di Draghi sarà più largo. Dovrebbe essere composto da sei
persone, quelle maggiormente coinvolte nelle «missioni» del piano:
Daniele Franco (Tesoro), Roberto Cingolani (Transizione ecologica),
Vittorio Colao (Digitalizzazione), Enrico Giovannini (Infrastrutture),
Maria Cristina Messa (Ricerca), Roberto Speranza (Sanità). C’è un però,
che in queste ore sta creando a Draghi problemi coi partiti: fatta
eccezione per Speranza, si tratta solo di ministri tecnici. Non sono ad
esempio rappresentati i giovani, il Sud, né le pari opportunità, le
cosiddette «direttrici trasversali» del piano. Non ci sono soprattutto i
grandi azionisti della maggioranza, ovvero Cinque Stelle, Lega e Pd.
Fonti di Palazzo Chigi gettano acqua sul fuoco: «La composizione del
comitato sarà variabile, verranno coinvolti di volta in volta i ministri
interessati da questo o quell’investimento».
Per
Draghi quel che conta è aver affidato al Tesoro il ruolo di
interlocutore unico con la Commissione europea e gli uffici che ogni sei
mesi chiederanno conto dello stato di avanzamento di questa o quella
spesa. Il premier due giorni fa in conferenza stampa ha preso l’impegno a
presentare il progetto all’Unione entro il 30 aprile. Non è un termine
perentorio, ma prima viene consegnato, più aumentano le probabilità di
ottenere entro la fine dell’estate un anticipo delle risorse pari a
circa 25 miliardi.
Ebbene, nonostante manchino due settimane, ci sono ancora diverse questioni da mettere a punto. Una è la citata sulla gestione politica e attuativa del piano: su questo Palazzo Chigi sta scrivendo un decreto ad hoc. Un secondo decreto ad hoc servirà a introdurre il cosiddetto «modello Genova», ovvero le deroghe alle norme sugli appalti che permettano di evitare lo stop ai cantieri in nome di questa o quella autorizzazione. Palazzo Chigi punta ad approvare entrambi i decreti entro fine mese, ma non è detto che riesca nell’impresa.
Immaginate un Paese dove poter lavorare a distanza anche da un
piccolo borgo del nostro mezzogiorno, dove i medici possono operare da
remoto un paziente o dove la gestione del verde o del traffico delle
nostre città sono regolate da un sistema di intelligenza artificiale.
No, non è un affresco di tecno-ottimismo anni ‘90, ma quello che la
tecnologia potrebbe permetterci a breve, a patto di una singola
premessa: la diffusione capillare del 5g e della Banda Ultralarga. Non è
un caso che le reti, e il digitale, siano uno degli aspetti strategici
del piano definito “Next Generation EU” e della Commissione europea che
ha stabilito obiettivi ambiziosi. Entro il 2030 tutte le famiglie
europee dovranno poter usufruire di una connettività di almeno 1 Gbps e
il 5G dovrà coprire tutte le aree popolate del continente. Più
pragmaticamente, fra poco più di quattro anni, ovvero nel 2025,
l’obiettivo è di dare invece una connettività di almeno 100mbps per
tutte le famiglie europee e una copertura di 1Gbps per uffici, scuole,
ospedali, biblioteche. Ma di cosa parliamo quando parliamo di “Banda
Ultralarga”?
Raccontiamo velocità (e lentezza): ecco come partecipare
Proviamo
a costruire una mappa dell’Italia e della sua velocità di connessione.
Ecco perché chiediamo ai nostri lettori di condividere uno speed test,
un modo per calcolare la capacità di download e di upload della nostra
rete. In questo anno di smartworking e didattica a distanza per tutti la
velocità (o la lentezza) ha fatto la differenza. In attesa della banda
ultra larga e delle tecnologie più avanzate proviamo a raccontare come
oggi – anno 2021 – navighiamo su internet.
C’era una volta la ADSL
In
principio fu il rame. Standard creato nel 2000, le connessioni ADSL
sfruttavano il doppino telefonico per scaricare e trasmettere dati in
rete. Una soluzione che si appoggiava su tecnologie già esistenti per
connettere abitazioni e aziende e che era caratterizzata da
un’asimmetria tra download (più veloce) e upload (molto più lento). Da
640kbps si è arrivati, nel tempo, a velocità prossime ai 20mbps in
download. Oggi la rivoluzione è costituita dalla luce, ovvero da una
tecnologia nata negli anni ‘50, ma che sta rivoluzionando le nostre
telecomunicazioni. Utilizzando segnali luminosi, invece che elettrici, e
costituiti da filamenti vetrosi e polimerici, i cavi in fibra ottica
permettono di trasportare dati in modo enormemente più veloce rispetto a
quelli in rame. È la condizione essenziale per realizzare quella che è
definita “banda ultralarga”. Secondo l’Agenda europea questa
definizione può essere applicata a ogni rete caratterizzata da una
connettività superiore ai 100mbps. Le reti in fibra ottica che arrivano
fino a casa nostra (FFTH), promettono una velocità prossima a 1Gbps. Ma
questa opzione non è certamente oggi la più diffusa.
Interactive content by Flourish
Come
si osserva dallo schema sopra, esistono oggi tipi di architetture
miste. La fibra ottica può terminare più o meno vicina alle nostre
abitazioni per poi lasciare spazio al rame. O può interagire con reti
wireless; in questo caso i dati viaggiano su onde elettromagnetiche fino
alla prima centrale fisica disponibile in fibra (FWA), una soluzione
particolarmente utile in aree difficili da cablare. A seconda delle
varie opzioni la velocità di connessione sarà ovviamente diversa. Lo
sforzo è però arrivare, nel più breve tempo possibile, a una copertura
adeguata di reti in fibra ottica e wireless. Un obiettivo che richiede
un grande sforzo economico e infrastrutturale e che assomiglia spesso a
una lotta contro il tempo per non rimanere indietro nel nuovo mondo
digitale. In Italia il conto alla rovescia è partito nel 2015.
Il piano italiano per la Banda Ultralarga
L’anno
stabilito è il 2023. È questa la deadline stabilita dal piano di Banda
Ultralarga (BUL) per le copertura di reti di ultima generazione delle
cosiddette aree bianche. Parliamo di aree a “fallimento di mercato”,
cioè dove gli operatori privati non hanno in previsione di implementare
la velocità di connessione ad almeno 30 Mbps ed è prioritario
l’intervento statale. Il Piano di banda ultralarga è stato varato nel
2015 e divide infatti il territorio nazionale in quattro macroaree e
cerca di conciliare pubblico e privato.
Mario Draghi che dà del “dittatore” a Erdogan. È la classica buccia
di banana sulla quale scivola un leader arrivato al potere con le
apparenti credenziali di un “impolitico”, o è invece la ruvida frustata
di un primo ministro che insegue un più raffinato disegno diplomatico?
Le sacre fonti di Palazzo Chigi invitano a non caricare di significati
eccessivi l’accusa che il presidente italiano ha rivolto al suo omologo
turco: era indignato per il trattamento scandalosamente sessista
riservato alla presidente della Commissione europea in visita ufficiale
ad Ankara, e questo è tutto. Può darsi che sia così. Ma quello che è
accaduto, depurato dalla possibile motivazione psicologica, sollecita
comunque qualche riflessione politica. Intanto perché l’affondo del
premier rappresenta in ogni caso uno strappo lessicale e istituzionale:
nel galateo delle diplomazie nessun capo di Stato e di governo usa dire
ciò che pensa in modo così netto e quasi brutale. E poi perché, a
distanza di quattro giorni e nonostante le proteste ufficiali della
Turchia, il premier non ha fatto nulla per troncare e sopire.
Dunque,
cosa c’è dietro la sortita di Draghi? Suggerisco due chiavi di lettura.
La prima chiave di lettura è fattuale: Erdogan è un dittatore perché
viola sistematicamente i diritti del suo popolo e del popolo curdo e
reprime le libertà fondamentali, di espressione e di genere.
Comprensibile nella sostanza, irricevibile nella forma: come ha scritto
giustamente Nathalie Tocci, Erdogan è un pessimo autocrate, maschilista e
nazionalista, ma in Turchia non c’è una dittatura, il presidente è
stato eletto dai cittadini, le tre maggiori città sono in mano a sindaci
dell’opposizione e tra due anni si svolgeranno nuove elezioni. Draghi
non può non saperlo.
Se nonostante questo ha evocato la “dittatura”, e poi non ha fatto nessuna marcia indietro, è verosimile che abbia voluto lanciare qualche messaggio. Agli amici e ai nemici. E qui siamo alla seconda chiave di lettura, che è invece geo-strategica. Con la sua intemerata, per quanto “tecnicamente” imprecisa, il premier riempie a modo suo l’inquietante vuoto di leadership dell’Unione in Europa, in Medioriente, nel mondo. Un vuoto che deriva dal declino dell’asse franco-tedesco, con una Merkel in uscita e un Macron in attesa. Che precipita nella ritirata comunitaria dai grandi teatri globali del conflitto militare-industriale, dal Corno d’Africa alla Siria all’Iraq.
Che si manifesta nel clamoroso fallimento della campagna vaccinale, con una copertura finora limitata al 14% dei cittadini europei, contro il 38% degli americani e il 58% dei britannici. Che deflagra simbolicamente proprio con il “Sofà-gate” in terra turca, con un patetico Charles Michel che invece di cedere la poltrona alla collega Von der Leyen usa a vanvera il “protocollo” per giustificare la sua figuraccia, quasi più oscena di quella di Erdogan.
A Caprona, cinquecento anime nei pressi di Pisa, spunta un murales dove il nasone del Sommo Poeta è in primo piano per onorare le vittime della mafia con
uno dei suoi versi più famosi: «E quindi uscimmo a riveder le stelle».
Qualcuno del posto esce a rivedere il dipinto e ne rimane sconvolto.
Quel Dante glorificato nel murales non è forse lo stesso Dante che il
16 agosto 1289, praticamente l’altro ieri, partecipò con i guelfi di Firenze all’assedio del castello di Caprona, abitato dai ghibellini di Pisa, e che ebbe pure l’ardire di citare l’episodio nella Divina Commedia, paragonando i pisani ai diavoli di Malebolge? L’affronto reclama una rappresaglia letteraria immediata. Non avendo a disposizione Petrarca e nemmeno un rapper, gli offesi la affidano a un ultrà di calcio. Lo striscione appeso nei pressi del murales recita: «Calci e Caprona, Dante non rappresenta la zona». I critici diranno se si tratta di un verso immortale. Di sicuro l’episodio rivela come gli italiani – e in primis i toscani, che sono i più italiani di tutti – coltivino una riserva insospettabile di memoria storica, destinata a venire allo scoperto ogni volta che intercetta un loro rancore.
Per completezza vi segnalo che l’amministrazione comunale, con una mossa da trapezista, ha deciso di difendere il murales pro-Dante e al tempo stesso di non rimuovere lo striscione anti-Dante. A riprova che l’Italia è fatta di guelfi e di ghibellini, ma soprattutto di democristiani.
Pietro
Castellitto, 30 anni a dicembre, figlio d’arte (suo padre è Sergio
Castellitto, sua madre Margaret Mazzantini) è un antiborghese cresciuto
in un ambiente privilegiato, spiazzante e analitico, libero nei suoi
pensieri. Il suo obiettivo è: avere talento dunque poter essere
ascoltato e andare controvento. E’ il personaggio del momento.
Ha due candidature ai David di Donatello per I predatori: migliore regista esordiente e sceneggiatura originale. E ha appena concluso su Sky la serie su Totti (in media ascolti record di 1 milione 100 mila spettatori, ora on demand e in streaming su Now): «Francesco mi ha detto, le pause sono quelle mie».
Quali sono i commenti di romanisti e laziali che l’hanno colpita di più?
«I romanisti hanno ritrovato l’essenza del capitano, per me è anche un modo di stare tranquillo quando cammino per Roma (sorride). I laziali mi hanno detto che per prepararmi al meglio ho dovuto ripetere tre volte la terza media. Alla fine è un uomo che malgrado soldi e successo ha tenuto intatta la sua personalità. Non c’era nulla di scontato, Totti non è Maradona…La camorra, la vita spericolata»
Cosa risponde a chi, cercando il sosia di Totti, ha commentato che lei è troppo diverso fisicamente…
«Allora potevano dare la parte a
lui, allo stesso Totti. Avevamo pensato al trucco prostetico ma non
aveva senso in un contesto dove nessuno lo aveva. E poi avrei avuto sei
ore di trucco, diventava un altro lavoro».
I David?
«I premi arrivano quando hai fatto
le cose da tanto tempo. Ero più euforico e avevo i piedi meno per terra
quando ho finito di girare o quando ho saputo che l’avrei girato; lì
hai il mistero di quello che accadrà, ora ho la consapevolezza che devo
farmi venire un’idea per continuare».
Lei è più attore o autore?
«Più autore. Recitare è una
vacanza, arrivi a progetto già costruito, mi piace quando il personaggio
ha un suo passato, anche se non c’è nel film, perché comprendi altre
cose. Per fare l’attore devi saper dire le bugie e fare gli scherzi».
Cosa vuol dire?
«Se non scherzi più, il tuo
percorso è stato sacrificato alle consuetudini e al perbenismo
dominante. Negli Anni ‘20 Al Capone faceva soldi gestendo alcol e droga,
oggi li fai perpetuando il bene. Penso ai milioni incassati dagli studi
legali attraverso il monumento all’ipocrisia del Me Too, battaglia
sacrosanta, ma se Kevin Spacey mi mette la mano sulla coscia gliela
sposto, non gli rovino la vita chiedendo pure soldi; io vedo la volontà
di potenza che sfrutta questa crociata morale per ingrassarsi, sto
parlando come amante di Nietzsche, che studiai a Filosofia. Ho anche
compiuto un viaggio in Germania sulle sue tracce, ho dormito nella casa
museo dove ha ideato Zarathustra…».
L’annosa questione dell’«essere figlio di»?
«E’ un problema che hanno sempre
avuto gli altri, poi l’hanno fatto venire a me, un senso di oppressione
per cui non sono visto come Pietro qualunque cosa faccia. Questo mi ha
spinto a bruciare le tappe, ad avere una voce mia, che dipende anche
dalla genetica, dall’educazione, dai genitori e da una percentuale di
imprevedibilità».
Chi è più presente dei suoi genitori?
«C’è un buon equilibrio, non
facciamo calcoli, ci diciamo tutto soprattutto quando litighiamo. Non
parliamo in modo preponderante di cinema e libri. Mi sono sentito amato,
mai privilegiato, mi hanno sempre detto che le cose dovevo
conquistarmele, che avrei avuto molti detrattori. Nessun attore vuole
che il proprio figlio lo segua perché è tutto aleatorio. Una parte della
libertà l’ho portata anch’io in casa, mi riferisco a una intolleranza
alla prepotenza intellettuale. Ho detto cose di sinistra in ambienti di
destra e viceversa, anche se è più difficile dire cose di destra in
ambienti di sinistra».
Il mondo sta diventando un posto molto pericoloso anche per noi italiani.
Si pensi a come si è surriscaldato il clima diplomatico. La settimana
scorsa abbiamo espulso due diplomatici russi che ottenevano segreti Nato
da un nostro ufficiale. La Russia ha minacciato ritorsioni. Ieri
l’altro, il nostro Primo ministro ha definito Erdogan un dittatore. Ha
poi aggiunto, con realismo, che dobbiamo collaborare anche con i
dittatori quando sono in gioco gli interessi vitali del nostro Paese.
Erdogan ha risposto con finta indignazione e ha convocato il nostro
ambasciatore. Questi due episodi ci ricordano quanto siano ora agitate
le acque internazionali.
Consideriamo proprio il caso Erdogan. Le parole di Draghi non esprimevano solo biasimo per il trattamento riservato alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. C’era, implicito, anche un riferimento alla questione libica. In Libia Draghi è stato tre giorni fa. Allo scopo di riannodare i legami (spezzati o, quanto meno, assai logorati) fra l’Italia e un Paese le cui sorti hanno uno stretto legame con il nostro interesse nazionale: si tratti di rifornimenti energetici, della presenza in Libia delle nostre imprese, di flussi migratori, di contrasto al terrorismo o di sicurezza militare. Una Libia che è oggi spartita fra russi e turchi. Gli uni e gli altri ritengono di essersi conquistati sul terreno il diritto di essere lì, avendo partecipato, su fronti opposti, alla guerra fra la Tripolitania e la Cirenaica.
L’Italia è impegnata ad appoggiare gli sforzi dell’attuale governo libico di riconquistare l’unità del Paese.
Se coronati da successo danneggerebbero gli interessi sia di Erdogan
che di Putin. La Libia non potrà essere davvero riunita se l’esercito
turco e i mercenari russi non se ne andranno. Quello italiano è un
tentativo necessario ma difficile. Puntiamo sui rapporti economici per
ricostituire i nostri legami con la Libia. Ma può la capacità di offrire
cooperazione economica sconfiggere le posizioni di forza di coloro
(come appunto Erdogan) che hanno soldati e armi sul terreno? I
precedenti storici non sono incoraggianti. In ogni caso, il governo
Draghi è impegnato, in Libia, in una partita i cui esiti saranno assai
importanti per l’Italia. In sintesi: di quanta sicurezza disporremmo
(non solo noi, anche il resto dell’Europa), se il Mediterraneo
diventasse stabilmente un mare russo/turco?
Alzare il tiro della polemica con Erdogan, serve forse a perseguire diversi obiettivi. È un messaggio implicito alla Nato(di
cui la Turchia fa tuttora parte), un messaggio che dice: non possiamo
più trattare Erdogan con i guanti, come se la Turchia fosse ancora
l’alleato di un tempo. È un richiamo agli Stati Uniti, è la richiesta di
un loro rinnovato impegno nel Mediterraneo. Potrebbe essere anche un
messaggio alla Germania: lo scambio denaro contro controllo delle
frontiere forse dovrebbe essere rinegoziato in modo più favorevole per
l’Europa. È infine, certamente, un messaggio indirizzato agli italiani:
non possiamo evitare di cooperare col dittatore di turno quando ciò
serva a tutelare certi nostri vitali interessi ma dobbiamo anche essere
consapevoli del fatto che ci sono grandi differenze fra noi e il
suddetto dittatore, dobbiamo monitorare con attenzione le conseguenze
spiacevoli che da queste differenze possono in ogni momento derivare.