Archive for Aprile, 2021

Vent’anni (persi) in Afghanistan

venerdì, Aprile 16th, 2021

di Massimo Gaggi

Ritirando le truppe americane dall’Afghanistan Joe Biden archivia l’illusione — coltivata vent’anni fa dai neoconservatori repubblicani, ma poi diffusa anche tra i democratici — di poter esportare la democrazia arginando con la presenza militare feroci dittature che non rispettano i diritti civili. Buone intenzioni che nel primo scorcio di questo secolo si sono infrante contro realtà storiche difficili da modificare o hanno addirittura fatto saltare precari equilibri, dall’Egitto alla Libia, dallo Yemen alla Siria. La decisione, coraggiosa e controversa, del presidente democratico va vista a due livelli: quello dei rapporti internazionali coi rischi di un Afghanistan di nuovo radicalizzato che può tornare base di gruppi terroristici mentre Washington pensa di sorvegliare e, se necessario, intervenire da lontano usando la tecnologia dell’intelligence digitale e dei droni. Ma è importante anche l’aspetto dei riflessi interni negli Stati Uniti, stremati dall’impegno bellico più lungo della loro storia (il Vietnam, l’altro conflitto «senza fine» durò otto anni). Qui Biden, lontano anni luce da Donald Trump per mille aspetti, assume una posizione simile alla sua: la guerra in Asia Centrale liquidata come total waste, una colossale distruzione di risorse, non solo economiche. C’è di più: Biden si appropria di tre caposaldi di Trump — la fine della guerra, ma anche l’aiuto ai forgotten men, l’America impoverita, e il piano per le infrastrutture — cercando di trasformare in fatti quello che il suo predecessore ha annunciato per anni ma non ha mai realizzato.

In termini di proiezione dell’influenza americana nel mondo, questa decisione non rappresenta di certo un momento esaltante, ma contiene una presa d’atto di un mutamento degli scenari internazionali, di errori commessi e anche dei nuovi problemi interni degli Stati Uniti, forse non più rinviabile. Biden lo ha detto con franchezza nel suo messaggio alla nazione quando, da quarto presidente alle prese con questo conflitto, ha sostenuto di non volerlo trasferire al quinto.

Del resto lui era convinto già da più di un decennio che, eliminate le basi di Al Qaeda, l’America dovesse disimpegnarsi dall’Afghanistan «cimitero degli imperi» senza pretendere di imporre democrazia e diritti civili. Nelle sue memorie Barack Obama racconta che, appena divenuto presidente, fu incalzato da Biden, suo vice e contrario all’espansione della presenza militare in Afghanistan, che lo invitava a non farsi chiudere in un angolo dai generali. E George Packer in «Our Man», il suo bel libro sul grande diplomatico Richard Holbrooke, racconta che Biden, incontrando nel 2010 l’allora inviato speciale Usa in Afghanistan, si sfogò in privato, parlando del figlio Beau allora militare a Kabul: «Mio figlio rischia la vita per difendere i diritti delle donne, ma non funzionerà: non li abbiamo mandati lì per questo».

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Remuzzi: «I casi di trombosi vanno indagati. Solo così la gente potrà avere fiducia in tutti i vaccini»

venerdì, Aprile 16th, 2021

«Le limitazioni imposte ad AstraZeneca e Johnson & Johnson non rappresentano un fallimento e non sono neppure un errore. Anzi, dovrebbero aumentare la fiducia nei vaccini da parte della gente».

Professor Remuzzi, i dubbi sempre più diffusi non sono legittimi?
«Invece di fare il processo alla comunicazione delle due case farmaceutiche, anche loro alle prese con la prima pandemia della loro storia recente, sarebbe meglio ricordare che la scienza avanza sempre per approssimazioni successive. Più si fa, più si capisce».

E con il caos piombato sulla campagna vaccinale che si fa?
«Proprio il fatto che appena si vede un problema, per quanto raro, ci si ferma e si cerca di capire, deve aumentare la fiducia delle persone nel nostro sistema di controllo. Quella che chiamano confusione, in realtà sono nuove informazioni».

Allora perché quasi tutti i Paesi hanno bloccato questi due vaccini?
«Per giusta precauzione. Le complicanze trombotiche associate ai vaccini a vettore virale come AstraZeneca e Johnson & Johnson sono molto rare, 222 casi su 34 milioni di dosi nel primo caso, 6 casi su 7 milioni nel secondo, quasi sempre su donne sotto i sessant’anni di età».

Quindi le probabilità sono inferiori a quelle di restare vittima di un incidente aereo?
«Mi capita sempre più spesso di ascoltare questi paragoni. E non mi convincono. Non bisogna soffiare sulle paure, ma non bisogna neppure esagerare dall’altra parte, perché potrebbe essere controproducente. Quelle trombosi, in quelle sedi del corpo, non sono frequenti, soprattutto non nelle giovani donne. È molto probabile che siano legate al vaccino. Non può essere una coincidenza, un accidente come la caduta di un aereo o il morso di un cane».

Non sono pur sempre casi sporadici?
«Ma i medici devono comunque sapere che questa cosa può succedere. E devono sapere quali sono i sintomi che manifestano le persone più soggette a questi effetti indesiderati. Ecco perché è così importante riflettere su questi eventi».

Quindi per pochi casi di trombosi vale la pena sospendere la campagna vaccinale in un Paese che ha una media di 450 morti al giorno per Covid?
«Sono due discorsi ben differenti. Non c’è alcun dubbio sul fatto che continuare a usare questi vaccini salva migliaia di vite. Tuttavia questi rari casi vanno capiti e chiariti. Altrimenti rimarrà sempre una nuvola di sfiducia. Quelle donne avevano ben poche probabilità di morire per il Covid. È bene dirlo. Saranno anche pochi decessi, ma vanno conosciuti e investigati, per evitare che si ripetano».

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La zona gialla torna a maggio: il calendario delle riaperture di Draghi nel nuovo decreto

venerdì, Aprile 16th, 2021

di Monica Guerzoni

«Gradualità» è la parola chiave, il concetto con cui Mario Draghi punta a tenere assieme la volontà di dare un segnale di ritorno alla vita e la necessità di riaprire in sicurezza. Oggi, prima della conferenza stampa su Def, scostamento di bilancio, crescita economica e riaperture, il capo del governo presiederà la riunione della cabina di regia con i rappresentanti dei partiti. Al tavolo si analizzeranno i dati e si comincerà a mettere nero su bianco la «road map» destinata a finire nel prossimo decreto, che entrerà in vigore il primo maggio.

Primo maggio in rosso

Subito dopo la Festa dei lavoratori, che quasi di certo passeremo in zona rossa, potrebbe scattare la novità più attesa: il ritorno delle zone gialle, che il precedente decreto aveva congelato. L’inizio del mese di maggio segnerà un cambio di fase dopo mesi di restrizioni severe. Nelle zone con meno contagi e più anziani vaccinati i ristoranti riapriranno almeno a pranzo e si potrà circolare all’interno della propria regione.

Le posizioni di Pd e Lega

Il presidente Draghi intende muoversi «con grande prudenza», non rinuncia a dare priorità al ritorno in classe delle superiori e dovrà trovare una mediazione tra le diverse spinte che agitano il governo. Questa volta lo scontro non è tra aperturisti e rigoristi, ma è sui tempi e sul grado di cautela. Forza Italia e Lega vogliono riaprire già il 26 aprile con un Consiglio dei ministri ad hoc. E se Matteo Salvini preme per riaprire tutto e subito, Enrico Letta stoppa il toto-date e fissa le condizioni del Pd: calo degli indici di contagio e over 60 vaccinati. Vito Crimi schiera i 5 Stelle sulla linea delle riaperture (prudenti) e persino Roberto Speranza, il più rigorista di tutti, in Parlamento apre a un «allentamento graduale delle restrizioni», che consentano al Paese «una stagione nuova, ma in sicurezza».

Regioni «aperturiste»

Alla cabina di regia toccherà anche decidere fino a che punto sia possibile recepire le pressioni delle Regioni, che spingono per riaprire il più in fretta possibile. La Conferenza guidata dal leghista Massimiliano Fedriga ha presentato un documento fortemente aperturista, che punta a far ripartire i ristoranti a pranzo e a cena, le palestre, le piscine e gli spettacoli anche nelle zone ad alto rischio. Come? Grazie a «un rigido sistema di distanze interpersonali e incentivando le attività all’aperto», spiega Fedriga. Toccherà oggi al Cts valutare se le proposte sono compatibili con la velocità e la forza delle varianti.

Draghi pensa al cronoprogramma

Per quanto la linea europea della prudenza sia stata la sua bussola in queste settimane, Draghi è preoccupato per la stanchezza degli italiani e per la tensione che ha cominciato a sfogarsi nelle piazze. Il premier ha fretta di rendere pubblico il «cronoprogramma» che rimetterà in moto le attività economiche. «Il progredire della campagna vaccinale e la discesa, per quanto lenta, della curva del Covid, ci consentono di impostare un calendario», è il ragionamento che il premier ha condiviso con i ministri. Il presidente del Consiglio insomma non vuole correre, perché richiudere sarebbe devastante e dunque «le riaperture devono essere sicure e irreversibili». Alcuni governatori spingono per far ripartire al più presto la mobilità tra le regioni, ma su questo a Palazzo Chigi e al ministero della Salute prendono tempo: se ne riparla fra qualche settimana.

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Vaccini Pfizer, l’ad Bourla: «Entro l’autunno il ritorno alla normalità. In futuro il Covid-19 diventerà come un’influenza»

giovedì, Aprile 15th, 2021

di Federico Fubini

Vaccini Pfizer, l'ad Bourla: «Entro l'autunno il ritorno alla normalità. In futuro il Covid-19 diventerà come un'influenza»

Albert Bourla, ad di Pfizer

Albert Bourla porta un grosso anello con una pietra nera alla mano sinistra, gesticola, sorride, evita il solito gergo aziendale dei grandi capi delle multinazionali. «Non sono Zorba, ma sono un vero greco», dice il presidente e amministratore delegato di Pfizer in un’intervista al Corriere e a altri tre quotidiani europei. «Come parlo, come mi comporto: tutto questo credo abbia fatto una differenza nella mia carriera. Ho tenuto saldi i principi ma dicevo le cose apertamente, rumorosamente, come fanno i greci. Mi ha aiutato molto». Albert Bourla incarna la più grande speranza esista oggi al mondo di uscire dalla peggiore pandemia dell’ultimo secolo.

Neanche lui se lo sarebbe aspettato quando nel 1993, piccolo veterinario di Salonicco, entrò in Pfizer per un lavoro sulla salute animale in Grecia. Già sembrava improbabile che fosse lì. I suoi genitori erano stati fra i pochissimi sopravvissuti ai rastrellamenti nazisti contro gli ebrei sefarditi di Salonicco. Sua madre fu portata via da un parente non ebreo, che corruppe un ufficiale minuti prima del plotone di esecuzione. Suo padre era per caso fuori dal ghetto quando tutti furono presi e deportati. Oggi Bourla parla quasi ogni giorno via Zoom con Uğur Şahin, il medico di origine turca, musulmano, con il quale ha sviluppato il vaccino Covid di maggiore impatto per l’umanità. «Penso che sia un messaggio meraviglioso. Siamo amici. Abbiamo iniziato a lavorare insieme un anno fa senza neanche avere un contratto, non c’era tempo di scriverlo. Dovevamo salvare il mondo». Pfizer ha rifiutato gli enormi sussidi del governo americano, ma è arrivata per prima all’autorizzazione di un vaccino contro il Covid-19.

Come avete fatto?
«C’è un rapporto fra le due cose. Siamo andati veloce, più veloci di piccole biotech, anche se ci si poteva aspettare che, grandi come siamo, saremmo stati più lenti. Ci siamo dedicati completamente all’obiettivo e io ho cercato di proteggere i nostri scienziati dalla burocrazia che i sussidi pubblici portano con sé. Quando prendi soldi dal governo, ci sono obblighi ed è giusto che sia così: il governo vuole sapere come spendi, dove, e che piani hai. Non è solo il tuo progetto, sono anche i loro soldi. Questo io non lo volevo. Volevo che i nostri scienziati avessero tutte le risorse a loro disposizione, dato che gli stavo chiedendo di rendere possibile l’impossibile. Non gli potevo chiedere di fare in nove mesi qualcosa che di solito richiede dieci anni, se dovevano anche preoccuparsi dei soldi. Quindi, abbiamo rischiato due miliardi: questa è la dimensione dell’investimento, non poca cosa. Sapevo che se avessimo fallito, finanziariamente Pfizer avrebbe sofferto. Ma sapevo anche che, grazie alle nostre dimensioni, un fallimento non avrebbe distrutto l’azienda. Non ci avrebbe affondato. E sapevo che se avessimo fallito, avremmo avuto problemi molto più grandi: non noi soltanto, il mondo intero. Dunque non volevo neanche pensare che il fallimento fosse una possibilità. E alla fine siamo riusciti a fornire vaccini sicuri e efficaci e a produrli molto rapidamente».

Quanto ci metteranno i Paesi avanzati a tornare a un po’ di normalità? Per quando crede che in Europa riusciremo a essere tutti vaccinati?
«Non posso parlare per le altre aziende farmaceutiche. Noi stiamo programmando di aumentare drasticamente le nostre forniture di vaccini ai Paesi europei nelle prossime settimane. In questo trimestre consegneremo oltre quattro volte di più di quanto abbiamo fatto nel primo trimestre: 250 milioni di dosi, dopo averne date 62 fino a marzo. E siamo in discussioni per fare di più. Ho fiducia che ci riusciremo. Certo, c’è sempre la possibilità che qualcosa vada storto, come si vede dai problemi che stanno avendo altre aziende. Qualche questione può sempre sorgere, quando hai a che fare con la manifattura complicatissima di prodotti biologici. Ma sono ottimista, ho fiducia, perché finora abbiamo prodotto tantissimo ed è andata a buon fine quasi nel 100% dei casi. Non ci sono stati lotti da buttare. Il nostro processo produttivo si è dimostrato stabile e affidabile».

Ma crede che un ritorno alla normalità in autunno sia realistico?
«Credo di sì. Lo vediamo dall’esempio di Israele. Certo, Israele è un Paese piccolo, con i confini chiusi. I movimenti in entrata e in uscita sono limitati e la popolazione vive in uno stato di guerra quasi continuo, dunque sa come rispondere rapidamente a una crisi. Ma lì siamo riusciti a dimostrare al mondo intero che c’è speranza. Quello era il senso dello studio sui dati israeliani. Sapevamo che l’euforia dopo i primi vaccini sarebbe venuta meno quando, mese dopo mese, la gente vede che la vita non cambia molto. Ma in Israele si vedono i veri effetti del vaccino: quando copri una parte importante della popolazione, diventa possibile tornare quasi alla vita di prima. Il punto è quando si riesce a vaccinare la gente. Ma dal nostro punto di vista, sono ottimista: consegneremo numeri importanti di dosi».

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La nuova e inattesa sovranità: così torna lo Stato nazionale

giovedì, Aprile 15th, 2021

di Ernesto Galli della Loggia

Con gli effetti che produce nella realtà delle cose e nelle mentalità delle persone la pandemia, che da tempo imperversa nel mondo, sta contribuendo potentemente a rendere evidente anche la crisi della globalizzazione. La crisi cioè — se non forse la fine — di quella fase storica che per almeno un trentennio ha dominato la realtà economica e ideologica del nostro pianeta. Sono almeno tre i fattori che stanno segnando la probabile fine del ciclo storico apertosi negli anni 80 del secolo scorso.

Il primo fattore è la definitiva frantumazione dell’ordine internazionale uscito dalla fine «guerra fredda« (1991). Nel declino dell’egemonia americana che allora raggiunse il suo culmine, nuove potenze mondiali e regionali si sono fatte prepotentemente avanti dappertutto — Cina, Russia, Turchia, Iran, India — e altre minori premono in cerca di spazio. Tutte mirano a crearsi zone d’influenza, cercano di espandersi, suscitano conflitti, alterano equilibri, sempre seguendo il proprio esclusivo interesse e infischiandosene di ogni norma, accordo o status quo precedenti. Né d’altro canto la globalizzazione sembra avere prodotto alcuna apprezzabile diffusione della democrazia, mentre il mito della pace — tanto più se «mondiale» — si rivela sempre più un mito.

Anche il secondo fondamento della globalizzazione, il libero scambio — che ebbe il suo simbolo nell’ammissione della Cina comunista nell’ Organizzazione del Commercio Mondiale nel 2001 — ha perduto buona parte del suo consenso. Il libero scambio, infatti, ha determinato sì la crescita economica di alcuni Paesi (molto probabilmente però a scapito di quella di altri), ma ha mostrato un drammatico punto debole. Anzi due. Innanzi tutto dietro il suo schermo e grazie ad esso ha potuto prendere forma l’inquietante progetto di Pechino volto a impadronirsi di punti geografici chiave, di risorse e di tecnologia strategiche dell’economia mondiale, al fine di costruire la propria egemonia planetaria. Così come del resto, bisogna aggiungere, ogni Paese ha cercato in realtà di far girare le cose a proprio esclusivo vantaggio. In secondo luogo, proprio durante la pandemia si è visto quanto aleatorio sia quell’assioma a fondamento del libero scambio secondo il quale la proprietà e la localizzazione geografica delle produzioni sarebbe del tutto irrilevante perché a contare sarebbe solo il loro costo. Ma oggi ci accorgiamo che proprio su questo punto è lecito nutrire più di un dubbio: davvero non ha alcuna importanza, ad esempio, che una fabbrica, mettiamo di vaccini o di mascherine, si trovi in Italia o chissà dove? Che essere in grado o no di produrre in casa propria certi dispositivi elettronici sia indifferente?

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Decreto, via libera allo scostamento da 40 miliardi. Pil nel 2022 a +4,8%, indebitamento netto all’11,8%

giovedì, Aprile 15th, 2021

luca monticelli

Via libera del Consiglio dei ministri allo scostamento di bilancio e al Def. Il governo chiede al Parlamento l’utilizzo di un extra deficit di 40 miliardi per finanziare il prossimo decreto che si concentrerà sui ristori e la liquidità delle imprese.
Il Cdm ha approvato anche il Documento di economia e finanza con il quadro macroeconomico e le linee di intervento dei prossimi mesi. La stima del pil per il 2021 si attesta al 4,5%, una cifra che è data dalla crescita tendenziale acquisita al 4,1% (a legislazione vigente) e dalla spinta del Recovery plan e dalle misure che verranno messe in campo. 
Questo ulteriore indebitamento di 40 miliardi, che si aggiunge ai 140 miliardi di extra deficit già stanziati in un anno di pandemia, determina una impennata del deficit che quest’anno viene previsto all’11,8%. Nell’intenzione del governo l’impulso agli investimenti dovrebbe riportare l’asticella del rapporto deficit/pil sotto il 3% nel 2025.

Il Def contiene anche un finanziamento complementare al Recovery plan, un fondo ad hoc che andrà alimentato da qui al 2026 per realizzare le opere escluse dal Pnrr. Questa linea di credito sarà di circa 30 miliardi in sei anni.

Le altre previsioni
Nel 2022 il pil crescerà del 4,8% e poi del 2,6% nel 2023 e dell’1,8% nel 2024. Si tratta di «tassi di incremento mai sperimentati nell’ultimo decennio», sottolinea Palazzo Chigi.

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I silenzi di Draghi e l’ira di Erdogan

giovedì, Aprile 15th, 2021

Nathalie Tocci

«Prevedibile» è un aggettivo poco usato, eppure accurato, per definire il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, e in particolare la sua politica estera. Se leggiamo le mosse di Erdoğan attraverso le lenti della politica interna turca e del costante tentativo di consolidare il proprio potere, le sue dichiarazioni o azioni, spesso considerate avventate all’esterno, diventano incredibilmente coerenti, e in quanto tale pure prevedibili.

Così è stato anche nella bagarre diplomatica con il presidente del Consiglio Mario Draghi. Non appena definito da Draghi “dittatore”, Ankara si è immediatamente levata il sassolino dalla scarpa, puntualizzando che Erdoğan è stato eletto, e pure ripetutamente, a differenza dell’omologo italiano. Il presidente turco ha atteso qualche giorno le scuse di Draghi. Erdoğan probabilmente quelle scuse neppure se le aspettava, ma qualora fossero arrivate sarebbero state usate convenientemente per accendere gli animi nazionalisti nel Paese, dai quali gran parte del proprio potere dipende. Ma anche il silenzio italiano ha fatto gioco al presidente turco. Non solo Erdoğan ma anche la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica turca – orgogliosa, patriottica se non nazionalista – si è sentita insultata dall’esternazione di Draghi. In quanto tale, la risposta di Erdoğan, che ha bollato come “maleducato” l’atteggiamento di Roma, ha messo a segno un altro punto nell’ardua battaglia per riacquistare consenso interno. Una volta fatto il primo passo falso dall’Italia, Erdoğan aveva già vinto l’unica partita che realmente gli interessa: quella in Turchia.

Questo vuol dire che i rapporti tra Roma e Ankara subiranno una inevitabile battuta d’arresto, che farà saltare investimenti, accordi commerciali o intese di sicurezza o migrazione tra i due Paesi o con l’intera Unione europea? La domanda da porsi è sempre la stessa: a Erdoğan conviene? La risposta è chiaramente no. Così come il presidente turco ha avuto e continuerà ad avere interesse e pure una certa soddisfazione a dare buffetti sulla testa a Roma per qualche tempo – altro esempio eloquente è stata la vista in pompa magna del presidente del governo di unità nazionale libico Dbeibah ad Ankara, accompagnato da ben 14 ministri, la settimana scorsa -, le relazioni con l’Italia sono e possono rimanere strutturalmente costruttive.

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“Perché non funziona”: bocciata la cura col plasma

giovedì, Aprile 15th, 2021

Alessandro Ferro

Tre indizi fanno una prova: dopo che studi precedenti lo avevano già bocciato, adesso c’è il no definitivo anche da parte dell’Aifa. No, il plasma iperimmune non migliora i malati Covid-19 né tantomeno fa guarire dalla malattia.

Cosa dice l’Aifa

“Nel complesso, TSUNAMI non ha quindi evidenziato un beneficio del plasma in termini di riduzione del rischio di peggioramento respiratorio o morte nei primi trenta giorni”, scrive in grassetto un comunicato dell’Aifa (l’Agenzia italiana del farmaco) per sottolineare l’evidenza dello studio (chiamato, appunto, Tsunami). Lo studio clinico, randomizzato e controllato, è stato promosso e coordinato anche dall’Istituto Superiore di Sanità ed ha confrontato l’effetto del plasma convalescente ad “alto titolo di anticorpi neutralizzanti” (cioè con gli anticorpi più efficaci) associato alla terapia standard. Allo studio hanno partecipato ben 27 centri clinici distribuiti in tutto il territorio nazionale che hanno arruolato 487 pazienti (di cui 324 in Toscana, 77 in Umbria, 66 in Lombardia e 20 da altre regioni). Le caratteristiche demografiche, le comorbidità esistenti e le terapie concomitanti sono risultate simili nei due gruppi di pazienti, 241 dei quali assegnati al trattamento con plasma e terapia standard e 246 alla sola terapia standard. Purtroppo, la conclusione è stata lapidaria. “Non è stata osservata una differenza statisticamente significativa nell’end-point primario tra il gruppo trattato con plasma e quello trattato con terapia standard”. I risultati dello studio TSUNAMI “sono in linea con quelli della letteratura internazionale, prevalentemente negativa, fatta eccezione per casistiche di pazienti trattati molto precocemente con plasma ad alto titolo”, aggiunge l’Aifa.

Bassetti: “Spero sia la parola fine”

“Noi dobbiamo sempre seguire la Scienza e le evidenze scientifiche: a livello internazionale, con studi randomizzati e controllati è stato provato che ad un paziente a cui è stato somministrato il plasma e ad un altro paziente, in maniera random, è stato dato il placebo, tutti gli studi fatti finora hanno dimostrato che il plasma ed il placebo non hanno un’efficacia sulla malattia grave per ridurre la durata dei sintomi e la mortalità”: è quanto ha detto in esclusiva al nostro giornale il Prof. Matteo Bassetti, Direttore della Clinica di malattie infettive dell’Ospedale San Martino di Genova. Già un paio di mesi fa, come avevamo scritto sul giornale.it (clicca qui per l’articolo), l’infettivologo aveva preso posizione contro questa terapia sulla sua pagina Facebook dove aveva allegato un lavoro scientifico internazionale pubblicato su Jama dove si evidenziava l’inefficacia del plasma iperimmune. “Lo avevano già detto numerosissimi studi internazionali, adesso è venuto fuori lo studio italiano multicentrico coordinato da Pisa dove ha partecipato anche il mio Centro e la Liguria e si è visto che la cura con il plasma non migliora la mortalità e non migliora la durata dei sintomi nella malattia grave. Credo e spero che questa sia la parola fine”, ci dice l’esperto.

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Così Fedez e la Ferragni “influenzano” la politica

giovedì, Aprile 15th, 2021

Daniele Dell’Orco

È un fiume in piena ormai. Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, ha preso per qualche ragione sul personale la causa del Ddl Zan e un giorno sì e l’altro pure si avventura in invettive politiche a colpi di social.

È il testimonial principe di un nuovo paradigma della comunicazione, quello di sollevare l’attenzione di centinaia di migliaia, in alcuni casi milioni, di persone su tematiche di carattere etico o politico per influenzare l’agenda parlamentare. Fedez e consorte, l’imprenditrice e influencer Chiara Ferragni, da soli mettono insieme qualcosa come 35.6 milioni di follower ben distribuiti tra Italia ed estero. Ma, schioccando le dita e scatenando hype, riescono a coinvolgere altre superstar del web nelle loro battaglie, come Elodie, Francesca Michielin, Levante etc.

L’ultimo acuto di Fedez, ultimamente sempre meno canoro e sempre più da leader di folle, riguarda la riconferma del vitalizio a Roberto Formigoni. Scottato dalla mancata calendarizzazione del Ddl Zan, come “comandava” via social, Fedez ieri ha postato l’ennesima story contro il senatore Simone Pillon: “Vi ricordate qualche settimane fa il senatore Pillon che diceva che il Senato aveva un sacco di priorità? Avete letto la priorità di oggi? Confermato il vitalizio al Celeste, ovvero a Formigoni. Gli hanno ridato il vitalizio di settemila euro. Cazzo, queste sono priorità. Complimenti, buonanotte ai senatori”.

Posto che due, forse tre dei milioni di follower a cui parlano i Ferragnez conoscano davvero per cosa stia l’appellativo Celeste, o chi sia Formigoni, o i dettagli della sua vicenda giudiziaria, si tratta di un nuovo, pericolosissimo modo di fare populismo 2.0. Qualcosa che certamente proviene da lontano, ossia dal jet-set statunitense che da anni utilizza il web per sostenere posizioni politiche progressiste, idolatrare esponenti politici come Alexandria Ocasio-Cortez o Kamala Harris, rendere “cool” delle tematiche purché filtrate col proprio occhio. Ah, e soprattutto attaccare Donald Trump. Ora che l’elezione di Joe Biden ha dato la sensazione che rispetto al 2016 le posizioni di popstar, grandi sportivi, divi di Hollywood e influencer vari abbiano davvero spostato l’ago della bilancia, Fedez e Chiara Ferragni non si sono lasciati sfuggire l’occasione di rilanciare l’esperimento anche in Italia, e di diventare i capostipiti di quella “politica influencing” che rischia di rappresentare il futuro, specie man mano che riuscirà a coinvolgere i più giovani.

Lorenzo Pregliasco, 34 anni, analista politico, cofondatore di YouTrend, professore a contratto anche all’Alma Mater, ha spiegato in una recente intervista a Repubblica: “Gli influencer, così come le aziende attraverso l’attivismo dei brand, riempiono un vuoto della politica. Insomma, non è più solo la politica ad occuparsi di politica”.

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Afghanistan, ok al ritiro truppe Usa: Biden dice basta alla guerra più lunga

giovedì, Aprile 15th, 2021

Washington – Biden ha deciso il ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan. Il presidente americano: “E’ ora di porre fine” alla più lunga guerra americana. “Non possiamo continuare il ciclo di estensione o espansione della nostra presenza militare in Afghanistan sperando di creare le condizioni ideali per il nostro ritiro, aspettandoci un risultato diverso”, dirà Biden alla nazione secondo quanto anticipato dal suo entourage. 

Resta da stabilire quando. Per alcuni funzionari americani potrebbe essere l’11 settembre, vent’anni dopo l’inizio di tutto. E sempre con in ballo ancora un negoziato di pace molto fragile con i talebani. 

A Bruxelles i ministri degli Esteri e della Difesa della Nato hanno incontrato il segretario di Stato americano, Antony Blinken, e il suo collega alla Difesa, Lloyd Austin. Si sono susseguite le riunioni sull’Afghanistan, a cui ha partecipato il ministro Luigi Di Maio: i militari della Nato dovrebbero lasciare la terra afghana il primo maggio, come già previsto nell’accordo di pace negoziato con i talebani.

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