Archive for Aprile, 2021

Festa della Libertà, almeno quest’anno la Sinistra non rovini il 25 Aprile

domenica, Aprile 25th, 2021

Riccardo Mazzoni

“Oggi è la festa della libertà di tutti gli italiani”: le parole del presidente Mattarella hanno efficacemente sintetizzato il significato autentico del 25 Aprile, il giorno della Liberazione dal nazifascismo che per tre quarti di secolo è stato invece teatro di divisioni ideologiche, e soprattutto ostaggio dell’uso strumentale che ne ha fatto a piene mani la sinistra. In nome della propria presunta superiorità politica ed etica, il Pci e i suoi epigoni si sono infatti impadroniti di questa data per affermare una verità storica manipolata, ossia – ed è un ossimoro – che la riconquista della libertà sia stata opera quasi esclusiva dei partigiani comunisti. Per cui, dal dopoguerra agli anni di piombo, fino alla Seconda Repubblica, i cortei celebrativi hanno sempre visto il presidio fisso delle bandiere rosse, con l’ostilità manifesta, spesso sfociata in violenza, nei confronti di tutti gli altri partiti. Basti ricordare la grande manifestazione del ’94, in cui la sinistra inopinatamente sconfitta nelle urne da Berlusconi, utilizzò il 25 Aprile per sfogare la sua rabbia e inaugurare una nuova Resistenza contro il rinascente fascismo capeggiato dal Cavaliere nero, un cartello politico-elettorale che “poteva diluire di molto la qualità della democrazia pur senza arrivare alla dittatura”. Il pericolo di un regime incombente era tale che il primo governo di centrodestra durò appena sette mesi, affondato da un avviso di garanzia al premier (poi assolto) e dalle spregiudicate manovre di Scalfaro dalla tolda del Quirinale.

La sinistra i conti con la storia li ha sempre fatti per gli altri, mai per sé stessa, e forte di questo manicheismo ideologico e culturale non ha mai derogato dal principio per cui quando governano gli altri si diluisce, appunto, la qualità della democrazia. Accadde prima con Craxi, il socialista con gli stivaloni che provò a destabilizzare l’impianto consociativo della Prima Repubblica, poi con Berlusconi e ora con Salvini. Un riflesso pavloviano di cui la gauche italiana non riesce proprio a liberarsi, immemore evidentemente del fatto che per decenni è stata quell’area politica, a lungo foraggiata da Mosca, a negare che il comunismo fosse una deriva totalitaria speculare al fascismo, bloccando così la democrazia italiana con il “fattore k”; e che la demonizzazione del berlusconismo è stata solo il tentativo di mascherare le sconfitte politiche. Questa è stata l’Italia degli ultimi 76 anni: un grande Paese in cui basta un tentativo di riforma della Costituzione sgradito alla sinistra per far risuonare le sirene d’allarme per la democrazia in pericolo.

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Festa della Liberazione, quelle svastiche sul 25 aprile

domenica, Aprile 25th, 2021

di Paolo Berizzi

Quest’anno hanno giocato d’anticipo: le svastiche hanno iniziato a spuntare già da giorni. Le prime, due settimane fa. Svastiche per sfregiare la storia e per marchiare d’infamia il 25 aprile e la sua vigilia. Svastiche come provocazione vandalica ma anche come segno del fanatismo ideologico: una strategia liquida asimmetrica per veicolare “messaggi”, per fare proseliti e attirare nuovi militanti. Svastiche, croci celtiche, scritte razziste che, da due anni con intensità sempre maggiore, come fosse una moda, compaiono su muri e lapidi. O a ricoprire manifesti e a imbrattare bandiere.

Anche quest’anno sulla Festa della Liberazione e i giorni che la precedono cala l’odio cupo dell’ultradestra: mani anonime marchiano con i simboli del Male luoghi e scritte nelle città. Genova, Ferrara, Roma, Gallarate, Genzano sono gli ultimi palcoscenici scelti da vandali o militanti neonazifascisti. Il caso più recente è accaduto l’altra notte a Genova, quartiere Sampierdarena: le bandiere dell’Anpi preparate per il 25 aprile al circolo di via Rolando sono state imbrattate con svastiche scritte a spray. A scoprirle alcuni volantari dell’Anpi che hanno denunciato l’episodio definendolo uno sfregio a Genova, Città Medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza

“Abbiamo già sostituito le bandierine imbrattate con le svastiche ma chiedo che, una volta identificati gli autori del gesto, siano applicate le leggi Scelba e Mancino, che puniscono con rigore questi atti”, dice il presidente di Anpi Liguria, Massimo Bisca. Chi ha messo a segno il blitz – indaga la Digos – ha lasciato “segni” anche su manifesti che ricordano la Liberazione affissi sulle vetrine di alcuni negozi in via Rolando. Un fatto simile in città era già accaduto a Campo Ligure, e lì l’Anpi ha portato una sua rappresentanza per ricordare don Andrea Gallo e il fratello Dino, capo partigiano. “Portiamo insieme ai sindaci di tutta la vallata un mazzo di fiori sulla tomba di Don Gallo”, aggiunge Bisca.

Quest’anno il primo episodio balzato alle cronache è avvenuto il 10 aprile a San Fruttuoso: una svastica e la scritta “Via gli stranieri all’Italia vota Salvini” sono spuntate sull’ingresso laterale della chiesa di Santa Sabina. A scoprirle, il viceparroco. Sulla bacheca dove vengono annunciati gli eventi settimanali. “Sono sconcertato – dice don Andrea Decrescenzo – la svastica non ci concilia con la croce di Cristo, il nostro Vangelo predica tutt’altro ed è lontano dalle politiche e dal messaggio sovranista”. Che i simboli nazisti sui muri si stiano moltiplicando lo spiega anche Luca Mastropeto, presidente della società sportiva della parrocchia. “Le svastiche nel quartiere di San Fruttuoso si sono moltiplicate, un segnale non buono che indica la radicalizzazione di un pensiero”.


Dalla Liguria alla Capitale. Il 13 aprile i volontari del quartiere Monti Tiburtini hanno scoperto, anche qui, svastiche e atti vandalici al parco “Andrea Campagna”, nella sede della Rete Civica Cittadinanza Attiva. Il giorno dopo la triste “sorpresa” è spuntata a Genzano: la porta d’ingresso della sede locale del Pd in via Garibaldi è stata danneggiata con croci celtiche e svastiche. Condanne anche da parte del centrodestra locale, che ha parlato di “azioni barbare e incresciose”.

Poi c’è stata Ferrara.  Da alcuni mesi sui muri della città appaiono svastiche e altri simboli che richiamano a manifestazioni d’odio. L’ultimo caso, tre giorni fa: sul muro di cinta dell’ex caserma Pozzuolo del Friuli, in via Scandiana, è apparsa una vistosa svastica dipinta con la bomboletta spray. Dice il consigliere comunale del Pd Mauro Vignolo: “Ci risiamo. L’identità è un valore costruito nel tempo, e lo abbiamo fatto insieme. Non è un dono naturale, non arriva dall’alto. È un dono sociale, che si conquista, è come gli altri ti vedono. L’identità di tutti noi ferraresi si allontana tantissimo da questa immagine”.


Non c’è stato bisogno di attendere l’intervento del Comune. Alle 14 infatti alcuni residenti della zona, indignati per quel simbolo d’odio disegnato nei pressi di palazzo Schifanoia, hanno impugnato anche loro una bomboletta spray e ricoperto l’immagine della vergogna. “Non potevamo tollerare che i passanti vedessero la svastica – raccontano le tre ragazze e il ragazzo impegnati nell’opera di ripulitura – è un insulto alla città e alla civiltà”. In gennaio, alla vigilia della Giornata della Memoria, le svastiche erano apparse sia sulla sede della sezione del Pd ‘Lio Rizzierì a Porotto, sia sui muri della succursale della scuola ‘Cosmè Turà del Barco. In quel caso, accompagnate da altri simboli altrettanto espliciti: croce celtica e aquile imperiali che richiamano l’iconografia neofascista. Poche settimane più tardi, altre svastiche sui muri delle scuole di Porotto.

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Perché abbiamo smesso di ascoltare lo spirito della Costituzione

domenica, Aprile 25th, 2021

MASSIMO CACCIARI

Quale vittoria si celebra il 25 aprile? Non solo quella contro «invasori» che avevano scatenato una guerra che si potrebbe definire «ingiusta», secondo tutti i parametri dello ius belli fino ad allora, almeno a parole, condiviso. È anche la vittoria in una guerra civile, la più tremenda delle guerre e anche quella che più profondamente ne esprime l’essenza, quella in cui «si sa perché si uccide e chi si uccide: il lupo divora l’agnello,ma non lo odia; ma il lupo odia il lupo» (Henry de Montherlant).

Si celebra la vittoria in una guerra come questa a due condizioni – se queste non vengono comprese e rispettate non varrà il motto «guai ai vinti, vae victis», bensì il suo opposto: guai ai vincitori, «vae victoribus».

La prima è che sia la vittoria sulle ragioni che hanno portato al fraterno macello; non basta affermare quelle del vincitore; la giustizia fugge spesso e volentieri dal suo campo (Simone Weil); il vincitore deve con-vincere: mostrare che la sua vittoria ha davvero superato le cause di quell’odio. Solo un nato servo si riterrà vinto fino a quando si sente tale soltanto perché sopraffatto dalla forza del nemico. Ma nulla è più insicuro di una vittoria che si affidi alla naturale servitù dell’anima umana, poiché in quest’anima è altrettanto potente l’impeto alla libertà. E il vincitore è su questo che fa bene a contare, è per la vittoria di quest’impeto che deve con-vincere di aver lottato.

La seconda condizione, strettamente connessa alla prima, è che la vittoria in una guerra come questa celebri l’inizio della rigenerazione di un popolo. La guerra civile non consente mai di ritornare allo stato precedente, a differenza della guerra col nemico esterno, che può permetterne addirittura il rafforzamento. Nulla deve essere come prima dopo il bellum civile, il vincitore dovrà mostrarsi capace di superare l’intero sistema di relazioni politiche, economiche, culturali che lo aveva prodotto, e quindi, in qualche modo, anche di superare sé stesso. Ciò significa che se la guerra civile non è costituente, se essa non genera classi dirigenti nuove e un ethos comune in cui trovino radice gli stessi conflitti che inevitabilmente si generano nella «città dell’uomo», essa, alla fine, non si concluderà che con vincitori apparenti. La guerra civile o brucia ogni spirito conservatore e con quel fuoco illumina il futuro (è ancora Montherlant a parlare) o manca la propria unica giustificazione e non ne rimane che la faccia nefanda dell’odio tra fratelli.

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Cartabia: “Giustizia, uniti sulla riforma o non avremo i soldi Ue”

domenica, Aprile 25th, 2021

Massimo Giannini

«Superiamo la tentazione dello scontro continuo. In una data così simbolica per l’Italia, che segna il tempo della Liberazione, della rinascita, della ricostruzione, proprio la Giustizia può e deve diventare il terreno sul quale ritrovare lo spirito di unità nazionale. Le diversità resteranno, come nella stagione che portò alla nascita della Costituzione, ma come allora si può provare a ricomporre le fratture su progetti precisi in nome di uno scopo più grande. Deve essere molto chiaro che senza riforma della Giustizia, niente fondi del Recovery. E per un compito così importante, serve responsabilità e volontà di tutti». Dopo più di due ore di conversazione con Marta Cartabia, ho infine capito cos’è il “Metodo” che porta il suo cognome. Una fede incrollabile nella ragione e nella forza del diritto, una ricerca irriducibile della conciliazione tra gli opposti, da impastare con i valori costituzionali e i principi repubblicani.

È in nome di questi, oggi, che la ministra della Giustizia celebra il 25 aprile tratteggiando una saldatura ideale tra quello che successe nel ‘45, quando un popolo esausto e diviso ritrovò nella Resistenza al nazifascismo le ragioni del suo stare insieme, e quello che succede oggi, quando un’Italia stremata per un’altra guerra, quella contro il virus, deve riscoprirsi nazione attraverso le riforme condivise, senza le quali i 191 miliardi del Recovery, il nostro Piano Marshall, resteranno nei caveaux di Bruxelles. Mi resta solo un dubbio, alla fine della nostra intervista nel suo ufficio di Via Arenula, che è stato il campo di Agramante di tutte le battaglie tra magistratura e politica da Tangentopoli in poi: Cartabia ci crede davvero? È davvero convinta che si possa riformare la giustizia e raggiungere una tregua alla “guerra dei trent’anni”, in un governo votato da Berlusconi e Salvini?

Lei giura di sì, «intorno a obiettivi concreti, anche se – specifica – non esistono bacchette magiche». E io vorrei crederle. Ma non ci riesco. Al di là delle sue migliori intenzioni.Ministra Cartabia, perché il suo appello dovrebbe funzionare? Perché dovrebbe riuscire a lei e al governo Draghi quello in cui hanno fallito tutti i governi dal 1993 in avanti?
«Vede, la festa del 25 Aprile ci riporta alla mente anni di lacerazione fortissima, ma soprattutto un grande momento di riscatto. Evoca lo stato d’animo di un popolo che seppe mettere da parte le conflittualità, pur conservando le differenze. Seppe ritrovare il coraggio per unirsi e per ricostruire una nazione libera e democratica. La giustizia, molto più che altri ambiti, è stata una trincea dove si è consumato uno scontro di idee e di sensibilità tra i vari soggetti istituzionali, politici e sociali. Ora deve diventare il terreno dove cercare una convergenza, che non è solo trovarsi a metà strada, ma immaginare una mappa di principi in cui tutti possano riconoscersi. Abbiamo il dovere di farlo, per il bene delle future generazioni».

Mi perdoni, lo hanno detto tutti i suoi predecessori, appena entrati in questo ufficio. Cosa è cambiato, rispetto a prima?
«È cambiato tutto. Non è retorica, è realismo: abbiamo un compito storico, un’occasione irripetibile per l’Italia. È il Recovery Plan, che il presidente Draghi presenterà alle Camere e trasmetterà alla Commissione Ue la prossima settimana. Vorrei che una cosa fosse ben chiara, ai partiti e ai cittadini: insieme a quella della Pubblica Amministrazione, la riforma della giustizia è il pilastro su cui poggia l’intero Piano nazionale di ripresa e resilienza. Se fallisce questa riforma, molto semplicemente, noi non avremo i fondi europei. Non avremo le risorse necessarie a rimettere in piedi il Paese dopo la pandemia. Questa è la posta in gioco. Per questo faccio appello al senso di responsabilità delle forze politiche, perché rinuncino al conflitto permanente e ammainino le “bandierine identitarie”, come ha detto il premier…».

Ammettiamolo: finora non è accaduto.
«In questi due mesi e mezzo abbiamo indirizzato i primi passi nella direzione di ricreare un clima di fiducia reciproca. Ma ora comincia la fase cruciale, non neghiamolo. Le polemiche di giornata non ci devono distogliere dall’obiettivo più alto. Discutiamo pure sui singoli tecnicismi, ma non perdiamo di vista il compito ultimo e lo spirito con cui è nato questo governo».

E secondo lei oggi aleggia il “Veni creator Spiritus”, con Matteo Salvini al posto di Benedetto Croce?
«Lo spirito costituente non può esser dato per scontato, va custodito e riconquistato ogni giorno. All’interno del governo, io avverto una “gravitas”, un senso di consapevolezza della nostra missione. Ma come abbiamo visto in quest’ultima settimana, le increspature o i motivi di possibile dissenso possono essere ovunque. Basta che non si trasformino in insanabile dissidio. Per questo occorre una forte assunzione di responsabilità da parte di tutti. Lavoriamo per il bene comune».

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Recovery plan, la carta che l’Italia non può sciupare

domenica, Aprile 25th, 2021

di Daniele Manca

Immersi in un eterno presente fatto perlopiù di guerriglie verbali, la politica tutta ha dato per scontato che l’Europa fosse lì pronta a girarci quasi un terzo dell’intero ammontare del programma di rinascita Next generation Eu. Un gentile omaggio al nostro Paese. la decisione che a luglio dell’anno scorso presero i 27 capi di Stato si basava sulla comprensione della gravità della situazione. Era l’assunzione di responsabilità da parte di tutte le nazioni dell’Unione di un destino comune. Una così forte assunzione di responsabilità che per la prima volta si decideva addirittura di indebitarsi collettivamente per battere la pandemia e rilanciare il Continente. Quegli oltre 190 miliardi che da Bruxelles dovrebbero arrivare in Italia sotto forma di fondi perduti e prestiti, sono legati a impegni precisi che il nostro Paese ha preso per investire in una transizione ecologica non più rinviabile e in una digitalizzazione che è nei fatti. Ma anche per avviare quelle riforme di cui ogni partito a parole è paladino.

Italia cartina tornasole

Nel piano che la squadra e i ministri del governo hanno scritto ci sono quei riassetti tanto attesi: dalla Pubblica amministrazione alla Giustizia, dalle semplificazioni alle liberalizzazioni. Impegni e tempi di attuazione attraverso cronoprogrammi ai quali sono legate le erogazioni di fondi dell’Europa man mano che si raggiungono gli obiettivi stabiliti e condivisi. L’Unione Europea è a un passaggio fondamentale della sua storia. Di questo se ne sente la tensione in ogni capitale. Al punto che i rilievi fatti in sede di Piano nazionale di resilienza e rilancio (Pnrr) anche all’Italia suonano avulsi dalla realtà di una pandemia che gli Stati stanno combattendo con difficoltà. Ma per le cifre in ballo e per la qualità della sfida e degli ambiziosi obiettivi l’Italia farà da cartina tornasole. Sarebbe perlomeno da ingenui se non peggio, non comprendere che siamo nel mezzo di un processo continuo che si chiama Europa. Ed è un processo continuo anche il Pnrr, basti pensare che dovrà durare fino al 2026. In queste ore e settimane è stato oggetto di confronto e a tratti di veri e propri negoziati tra Roma e Bruxelles. Negoziati che necessitano però una fiducia di fondo tra le controparti. Pena il dover confrontarsi, come troppo spesso accaduto in passato, sulle forme, sulle virgole piuttosto che sulla sostanza. È la fiducia che Mario Draghi si è conquistato in Europa e nel mondo che ci sta garantendo di poter raggiungere l’obiettivo di accedere al Next Generation EU. Di poter lanciare il Recovery plan. È di questo che bisognerebbe essere molto più consapevoli.

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La spinta del nuovo Recovery, 46 miliardi in più da investire

domenica, Aprile 25th, 2021

di Federico Fubini

La spinta del nuovo Recovery, 46 miliardi in più da investire

Fin da prima del giuramento, uno dei grandi obiettivi del governo di Mario Draghi è stato il progetto in approvazione in questi giorni. Da subito era certo solo che ci sarebbe stato pochissimo tempo per farlo. E uno dei motivi della caduta del governo che lo ha preceduto, quello di Giuseppe Conte, è stato nella difficoltà nel mettere a punto quel progetto. Entro il 2026 l’Italia potrà investire 204 miliardi di fondi di Next Generation EU, di cui 191 nell’impianto di investimenti che sta per arrivare in parlamento come Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Poiché quello è stato uno dei grandi spartiacque che hanno deviato il corso della politica da Conte e Draghi, vale la pena di chiedersi in cosa il Pnrr del secondo sia diverso – o simile – rispetto alle bozze del primo. Risposta: c’è una buona dose di continuità nello scheletro e nella maggior parte dei progetti, mentre spiccano poche notevoli discontinuità.

Gli stessi funzionari hanno scritto i due Pnrr, ma il cambio di stagione si avverte. Quanto sarà effettivo dipenderà però dal percorso sulle riforme dei prossimi mesi e anni. Le prime novità sono nel linguaggio. Sparisce una certa retorica (“Costruire l’Unione europea delle prossime generazioni è il compito storico a cui siamo chiamati per essere protagonisti”, esordiva il Pnrr di Conte). Subentra un’analisi realista, come a far capire agli italiani la posta in gioco. Scrive Draghi nella prefazione: “Tra il 1999 e il 2019, il prodotto interno lordo in Italia è cresciuto in totale del 7,9%. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna l’aumento è stato del 30,2%, del 32,4% e del 43,6%”.

E ancora, per mostrare che il problema di fondo è la produttività del sistema: “Negli ultimi vent’anni, dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2%, mentre in Francia e Germania è aumentato del 21%”. Senza dirlo, il Pnrr viene dunque presentato come l’ultima occasione per correggere mali che hanno origine ben prima della pandemia. Conte non era stato così trasparente. Ne deriva una differenza del nuovo piano: ci sono più investimenti addizionali, rispetto a quelli che l’Italia programmava già da prima. Nel piano di Conte valevano circa 120 miliardi. Nel piano di Draghi valgono invece circa 166 miliardi, dei quali 31 localizzati in un “fondo complementare” di risorse tutte italiane (non europee) varato essenzialmente per finanziare vari progetti presentati dai ministeri che non sono riusciti a entrare nel Recovery. Il piano contro la crisi

Un protagonista stagionato di questi anni paragona il fondo complementare “al cestino del computer: ci sono le voci in attesa di essere eliminate”. Ma, anche se in parte accadesse, i nuovi investimenti di Draghi superano quelli di Conte. Restano uguali o quasi le sei grandi missioni del Recovery, dal digitale a “inclusione e coesione” e così quasi tutte le 16 componenti. Chiaramente il nuovo governo ha costruito sulla base del lavoro del vecchio. Ma c’è un maggior livello di dettaglio – riconosciuto anche dalla Commissione Ue – e si notano importanti deviazioni, in particolare nel lavoro dei ministri Roberto Cingolani (Transizione ecologica) e Vittorio Colao (Innovazione e digitale).

Non solo per il fatto che il grosso degli aumenti di investimenti addizionali – circa venti miliardi – vanno nei loro progetti. Solo l’area del digitale, dalla banda larga alla cybersecurity, passa da sei a 13 miliardi. Ma in realtà l’area verde e tecnologica cambiano anche nel merito. Colao ha imposto una novità in una delle partite più delicate: nella banda ultra-larga, si passa da un’unica gara nazionale con una sola azienda vincitrice a varie gare (forse fra dieci e 15) per i diversi territori. È l’approccio seguito anche negli Stati Uniti. Permette più concorrenza, il formarsi di diversi consorzi, stime più precise sulla fattibilità e aggira il problema di un blocco dell’appalto su tutto il Paese in caso di contenziosi. C’è poi molta più enfasi sui progetti dell’industria spaziale.

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Draghi alza il telefono e avverte von der Leyen: «Basta così, per l’Italia ci vuole rispetto»

domenica, Aprile 25th, 2021

di Marco Galluzzo

Draghi alza il telefono e avverte von der Leyen: «Basta così, per l'Italia ci vuole rispetto»

Ad un certo punto del pomeriggio Mario Draghi alza il telefono per la seconda volta in due giorni, richiama la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, non alza la voce, ma manda un messaggio che chiude una trattativa estenuante, ruvida, segnata dalla diffidenza degli uffici tecnici di Bruxelles: «Non credo che dobbiamo fornire ulteriori spiegazioni, basta così. Ci vuole rispetto per l’Italia». A Palazzo Chigi, alle nove di sera, dicono che l’accordo politico con la Commissione è chiuso, ma che il confronto con Bruxelles sull’ultima versione del Recovery plan è stato segnato da una serie di richieste sulle riforme che accompagneranno il Piano «piene di cavilli» e «di sfiducia nelle capacità del Paese» di implementarle.

«Non si può chiedere tutto e subito»

Alle dieci di sera un Consiglio dei ministri programmato alle dieci del mattino non è ancora iniziato, tutti i ministri attendono Draghi: per tutto il giorno ha coordinato il lavoro dei tecnici del Mef e del suo staff economico sottoposti ai bombardamenti di spiegazioni ulteriori sulle riforme di attuazione del Recovery. Ci sono stati anche momenti di scontro vero con Bruxelles: hanno chiesto più dettagli sul contrasto al lavoro nero, sui tempi e i contenuti della riforma della giustizia, sulle semplificazioni delle procedure, su concorrenza e liberalizzazioni. Su quest’ultimo punto è dovuto intervenire ancora una volta il presidente del Consiglio, con un messaggio diplomatico e al contempo molto fermo: «Non si può chiedere tutto e subito ad un Paese con un’economia in ginocchio». La riforma della concorrenza si farà, insieme alle altre, nel Pnrr sono indicati tempi e contenuti di almeno 15 fra decreti leggi e leggi delega di riforma del Paese nei prossimi mesi ed anni, con tanto di cronoprogramma.

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È morta Milva, la “Rossa” della canzone d’autore

sabato, Aprile 24th, 2021

di Anna Bandettini

Nel 2010 sulla sua pagina Facebook aveva scritto una lettera bella e commovente. “Dopo cinquantadue anni di ininterrotta attività, migliaia di concerti e spettacoli teatrali sui palcoscenici di una buona metà del pianeta, dopo un centinaio di album incisi in almeno sette lingue diverse, ho deciso di mettere un punto fermo alla mia carriera (…) che credo grande e unica, non solo come cantante ma come attrice ed esecutrice musicale e teatrale (….). Ho deciso di abbandonare definitivamente le scene e fare un passo indietro”. A undici anni da quel saluto, Milva ha dato addio alla vita. La “Rossa”, come la sua famosa fulgida chioma di capelli ramati, è morta a 82 anni: da un po’ aveva perso la coscienza del tempo e della memoria, viveva nella casa di via Serbelloni, pieno centro di Milano, con la fida segretaria Edith e l’affetto incondizionato della figlia, Martina Corgnati, critica d’arte.

Con Mina e Ornella Vanoni, è stata protagonista della musica italiana dagli anni Sessanta, ma, più irrequieta e volitiva delle colleghe, Milva ha saputo cambiare e trasformarsi, usando curiosità, bravura, versatilità per costruire una carriera unica, lunga oltre mezzo secolo, 173 album e lanciata in più direzioni, talvolta anche opposte: cantante ma anche attrice, pop a Sanremo, dove fu in gara per quindici volte – senza mai vincere (e le scaramucce non sono mancate)-; engagé come interprete dei canti della Resistenza, di Bella ciao, delle Canzoni del tabarin e dei Canti della libertà; protagonista alla Deutsche Oper di Berlino con I sette peccati capitali di Brecht e Weill e conduttrice di Al Paradise il varietà del sabato sera, fino a diventare la sofisticata interprete prediletta di autori, registi e compositori come Giorgio Strehler e Astor Piazzolla, Franco Battiato e Vangelis, Luciano Berio ed Ennio Morricone.

Maria Ilva Biolcati era nata a Goro (e la “pantera di Goro” è stato a lungo il su nomignolo), il 17 luglio del 1939. “A 7 anni insistevano con mia madre di farmi cantare, lei minimizzava”, ricorderà

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«Un processo per stupro» che non ha insegnato nulla

sabato, Aprile 24th, 2021

di Gian Antonio Stella

«Mi fijo nun ha fatto niente de male. Nun l’ha ammazzata, ‘sta ragazza. Mi fijo è annato a divertisse. Certo che je piaceva pure a llei d’anna’ a divertisse…». Quarantatré anni dopo le parole della madre di uno degli stupratori di gruppo d’una ragazza di Latina, raccontato allora in un famoso documentario Rai, riassumono decenni di processi simili. Dove alla sbarra, come è successo anche col «caso Grillo», rischiano di finire le vittime… Era invelenita, quella madre, quel giorno, davanti alla cinepresa di «Un processo per stupro». Decisa a difendere con unghie e denti il suo pupone quarantenne accusato con tre amici d’aver attirato con l’offerta di un lavoro una diciottenne disoccupata in una villa di Nettuno dove la ragazza era stata più volte violentata. Macché violenza! Era lei, la novella Circe, ad aver adescato lui perché «se voleva divertì, se no non ci andava con mi fijo, che aveva moglie e un figlio e lei lo sapeva…». Voce di Loredana Rotondo, una delle sei registe del documentario: «Ma se aveva una moglie e un figlio perché ci andava?». «Perché tutti lo fanno! Che, è il primo che lo fa? Suo marito, si ce l’ha, nun ce va?».

Togliete ora gli accenti laziali, la villa sul litorale, il bianco/nero dei filmati di allora: son poi così abissalmente diverse le surreali scusanti accampate da quella madre popolana dell’Agro Pontino da quelle sbraitate l’altro giorno nel web da Beppe Grillo in difesa del figlio e dei suoi tre amici accusati di uno stupro di gruppo nella villa in Costa Smeralda? «… non è vero niente, che c’è stato uno stupro, non c’è stato niente… una persona che viene stuprata la mattina il pomeriggio va in kytesurf e dopo otto giorni fa la denuncia… c’è un video in cui si vede che c’è un gruppo che ride, ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello, così… perché sono quattro coglioni…». Insomma, quasi una ragazzata…

Colpevoli? Innocenti? Decideranno i giudici. Ma l’ennesimo ricorso alla difesa degli accusati basata sulla sistematica demolizione della vittima, senza un’incertezza, un dubbio, un accenno alle troppe donne annientate da stupri simili, dimostra una volta di più quanto la storia, spesso, non riesca affatto a essere «magistra vitae». Tanto più se non viene solo dimenticata. Ma rimossa. Abolita. Cancellata.

Come è accaduto appunto al documentario «Un processo per stupro», girato nel ’78, trasmesso dalla Rai in una tarda serata dell’aprile ‘79 e accolto da un successo così impattante (tre milioni di telespettatori) da guadagnarsi a furor di popolo una nuova messa in onda in prima serata con una audience addirittura triplicata. Quanto sarebbe bastato a qualunque programma per venire riproposto chissà quante volte in tivù se non fosse stato azzoppato da una sentenza. La quale accolse la pretesa di qualche avvocato che, finalmente a disagio per i toni, le battute da bordello, le insinuazioni usate mettendo alla sbarra la ragazza anziché i suoi stupratori, condannati in primo grado (per delitto contro la moralità pubblica, non contro la persona!) a pene risibili con la condizionale e a un risarcimento miserrimo (mezzo milione di lire a testa: 1.789 euro attuali), chiese il diritto all’oblio. Niente più nomi, niente più facce, niente più indignazione…

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Rischio calcolato, Bonanni: «Con le riaperture le mascherine diventano ancora più cruciali»

sabato, Aprile 24th, 2021

di Laura Cuppini

«Da lunedì sarà cruciale rispettare le misure di prevenzione dei contagi, a partire dall’uso delle mascherine». Per Paolo Bonanni, professore ordinario di Igiene all’Università di Firenze, serve una «road map» per evitare che i numeri della pandemia tornino a peggiorare.

Cosa potrebbe comportare la graduale riapertura delle attività?
«Probabilmente fino all’estate non avremo grossi sbalzi, aiutati dall’arrivo del caldo e dalla possibilità di trascorrere tempo all’aperto. Ma serve grande responsabilità da parte di tutti, perché il virus circola ancora in modo sostenuto: le riaperture non possono essere viste come un “liberi tutti”».

Come si può evitare che la situazione peggiori?
«Indossare correttamente la mascherina è il primo punto, meglio optare per le Ffp2, evitare quelle di stoffa. Se si va a casa di amici è bene proteggersi, quando non si mangia. Inoltre mi auguro che aumentino i controlli delle forze dell’ordine: chi non rispetta le regole va multato pesantemente».

Il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri ha detto che i contagi potrebbero aumentare, soprattutto tra i giovani che non sono vaccinati. È d’accordo?
«Sì, lo ritengo possibile. Al contrario, non penso che aumenteranno i decessi e le ospedalizzazioni. La campagna vaccinale procede e una quota sempre maggiore di soggetti fragili sarà protetta».

La Gran Bretagna ha riaperto le attività solo dopo aver vaccinato moltissime persone (circa 30 milioni hanno ricevuto la prima dose), in Italia siamo più indietro: quando potremo ritenerci a buon punto?
«Avremo una riduzione drastica dei ricoveri quando almeno il 50 per cento della popolazione sarà vaccinato: allora vedremo anche un calo consistente dei contagi».

Secondo l’Ecdc (European centre for disease prevention and control) per i vaccinati è possibile allentare le misure di protezione, come l’uso delle mascherine e il distanziamento. Che cosa ne pensa?
«Questa affermazione mi lascia perplesso. Sappiamo che i vaccini non sono efficaci al 100 per cento nel proteggere dall’infezione, pur essendo un valido scudo contro le forme gravi e i decessi. Non possiamo escludere che un vaccinato trasmetta il virus ad altri: ecco perché tutti dovremmo continuare a proteggerci, ancora per un po’ di tempo».

Parallelamente alle riaperture andrebbero potenziate le attività di test e tracciamento?
«Credo che 300mila tamponi al giorno siano un buon numero. In Australia la pandemia è stata sconfitta con una vasta attività di testing, ma la situazione sociale che abbiamo in Italia è completamente diversa: 60 milioni di persone vivono in situazioni di alta densità abitativa. La differenza possono farla il rispetto delle regole da parte dei singoli e il procedere della campagna vaccinale senza intoppi».

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