Tecne e Agenzia Dire hanno condotto un sondaggio per pesare il voto dei giovani compresi tra i 18 e i 21 anni, alla luce dell’approvazione della riforma che consente ai 18enni di votare anche al Senato. Il via libera definitivo è arrivato l’altro giorno da Palazzo Madama: come influenzerà le intenzioni di voto? Il primo dato che balza all’occhio, forse il più importante, è che il 50 per cento dei giovani non sa se votare o non si pronuncia sulla possibile scelta. Una percentuale altissima, che la politica dovrà essere brava a catturare quando arriverà il momento del voto. Nel frattempo dal sondaggio emergono ottime notizie per il centrodestra e in particolare per Fratelli d’Italia e Lega. Il partito di Giorgia Meloni è il preferito nella fascia 18-21 anni con il 23 per cento dei consensi (20,6 nel complesso), mentre quello di Matteo Salvini segue al 22 per cento (20,4 totale). Bene anche il Pd che raccoglie il 21 per cento (19,6), malissimo invece il Movimento 5 Stelle. I grillini, infatti, sembrano avere scarsissima considerazione tra i più giovani: solo il 9 per cento li voterebbe (15,1 totale). Seguono Forza Italia e Azione, entrambe al 6 per cento. Un po’ più staccata Sinistra Italiana (4 per cento), mentre Verdi e +Europa si attestano entrambe al 2 per cento.
Giuseppe Conte sta giocando una partita che rischia di vanificare il
percorso lungo quindici anni con cui Beppe Grillo, Gianroberto
Casaleggio e migliaia di attivisti hanno costruito un soggetto politico
che, almeno nelle intenzioni, doveva essere un veicolo che avrebbe
portato nelle istituzioni persone competenti e animate dal bene comune.
Ora lo scenario è cambiato: il M5S è dilaniato da due visioni opposte.
Da un lato c’è Beppe Grillo che vuole continuare ad avere l’ultima
parola sulle decisioni di quell() che una volta chiamava «non partito»,
anche perché con la morte di Gianroberto, il manager visionario che ha
inventato la seconda vita tecnologica e politica – del comico, il suo
ruolo è inevitabilmente diventato decisivo benché in passato abbia dato
l’idea di voler tornare a fare l’attore a tempo pieno. Dall’altra parte,
invece, c’è Giuseppe Conte, l’ex premier uscito dal cappello a cilindro
dell’ex ministro Bonafede.
Non è mai stato un 5 Stelle ma quando l’allora capo politico Luigi Di
Maio gli chiese di far parte di un eventuale governo del MoVimento
disse si. Gli eventi lo hanno portato a Palazzo Chigi. Dopo essere stato
deposto dalla raffinata spregiudicatezza di Matteo Renzi, vorrebbe
tornare sulla scena ma costruire un suo partito sarebbe un salto nel
vuoto: i sondaggi continuano a mostrare il gradimento degli italiani per
l’«avvocato del popolo» (prima abile definizione inventata da Pietro
Dettori) ma, considerato che le elezioni potrebbero esserci tra quasi
due anni, l’operazione sembra assai difficile. Dunque l’ex premier punta
a guidare ciò che resta del MoVimento ma con i «pieni poteri».
Per questo ha costruito un nuovo statuto, senza confrontarsi con
nessuno, che assegna al capo (cioè a lui), ratificato da una votazione
degli iscritti, la facoltà di guidare i 5 Stelle, lasciando un ruolo
simbolico a Grillo. È quello che hanno cercato di fare da almeno
quindici anni tanti presunti delfini di Silvio Berlusconi, senza
ottenere niente altro che l’uscita dal partito. La scelta
di Conte rischia dunque di dividere il MSS ma, politicamente, ha il
sapore di una manovra masochistica. Come si può pensare di guidare il
partito che aveva tra i suoi mantra quello che «il leader non esiste, il
MoVimento è il leader», quello stesso partito che ha sempre rifiutato
sedi, tessere, dirigenti, rimborsi elettorali, trasformandolo in un
soggetto politico stile Novecento? E qui che l’ex premier mostra la sua
estraneità alle radici dei 5 Stelle ma anche la sua miopia politica, che
rischia di mandare in tilt pure i suoi fedelissimi.
Il MoVimento, cresciuto troppo in fretta e ancora pieno di
convinzioni e provenienze ideologiche differenti, arrivato a essere il
primo partito italiano dopo le elezioni del 2013 e del 2018, non
potrebbe mai diventare una piccola Dc (10-15%) con una maggioranza che
guarda a sinistra. Ma questa è soltanto la prima fallacia della visione
politica dell’ex premier. La seconda è la sua contrapposizione con Mario
Draghi, che lo rende ancora più debole, anche agli occhi di chi lo
sostiene. Le critiche alla riforma Cartabia diventano un boomerang
per Conte, considerato che l’intesa su quelle norme è stata raggiunta
dai ministri Di Maio e Patuanelli (quest’ ultimo schierato con
l’avvocato del popolo).
Ma quanto è spaccone Beppe Grillo. Tenta di far
risalire la corrente al suo movimento spaccato in troppi tronconi e
mille personalismi e se ne esce con frasi davvero sconcertanti.
In molti hanno saputo delle gravi minacce del terrorismo islamico al ministro degli Esteri. E hanno solidarizzato senza riserve col titolare della Farnesina. Le farneticazioni Isis non consentono divisioni nel mondo libero. Ma non poteva mancare la frescaccia di Beppe Grillo, che non ha trovato niente di meglio per “rassicurare” Di Maio: “Luigi Di Maio non ti preoccupare. Sono meno pericolosi dei grillini più agguerriti”, ha scritto su facebook.
Come un qualsiasi cummenda milanese, come un coatto romano, come un
guappo napoletano. Per Beppe Grillo ci si può sganasciare di fronte alle
minacce dei tagliagole sostenendo che in fondo in casa Cinque stelle c’è di peggio.
Ovvero in quella che è ancora la prima formazione politica dell’Italia ed è decisiva per la vita del governo.
Caro direttore, dopo la Rai tempo di nomine anche per le Forze Armate.
E, come diceva Andreotti, l’unica guerra che i nostri generali sanno
fare è quella tra loro. La partita a risiko è già iniziata: il supercommissario Figliuolo, con i suoi 55 milioni di vaccini, vuole ora il «green pass» per diventare, a novembre, Capo di stato maggiore della difesa
al posto del generale di squadra aerea Enzo Vecciarelli, fortunatamente
in uscita dopo aver acuito una guerra senza senso tra Marina e
Aeronautica.
Se invece la battaglia dovesse vincerla il generale Pietro Serino,
Figliuolo, ormai anche lui in trans mediatica e sempre più somigliante
al generale paranoico del Dottor Stranamore di Kubrick, potrebbe
aspirare a prendere il suo posto come Capo di stato maggiore dell’esercito, oppure ambire a fare il Segretario generale della difesa, il vero Ceo delle Forze Armate.
Tuttavia, alla Segreteria della difesa sarebbe molto più naturale che approdasse l’attuale numero due, l’ammiraglio triestino Diego Giacomin;
ma si sa che, in fatto di nomine, Mario Draghi vuole fare il fenomeno,
come in Rai. Per Viale Mazzini ha scelto, sbagliando clamorosamente i
ruoli e forse anche i profili, Carlo Fuortes, impresario Pd, e Mariella
Soldi, manager televisiva in sedicesimo. Dopo le disastrose esperienze
di altri due «esterni»,
Campo Dall’Orto e Salini, la Rai aveva bisogno di scelte interne e
certo non di una Presidente che rischia di essere bocciata
clamorosamente dalla Commissione di Vigilanza e di un capo azienda che
si è cimentato in modesti, sia pur prestigiosi, enti culturali da sempre
cari alla sinistra. Comunque, sembra che almeno per la Difesa
SuperMario stia segretamente coltivando l’opzione giusta. Con una
piccola modifica a mezzo Dpcm, di contiana e funesta memoria, potrebbe
per la prima volta nella storia nominare come Capo di stato maggiore
della difesa il Comandante generale dei Carabinieri Teo Luzi,
unanimemente riconosciuto come il più autorevole ufficiale, con la «U»
maiuscola.
Il premier darebbe così un segnale importante alle Forze Armate
italiane, sempre più riconosciute, con i Carabinieri in prima fila, nel
mondo, espressione di pace e per l’Arma, finalmente, un riconoscimento
della loro padteticità con le altre Forze militari e di Polizia. Per
l’Aeronautica la partita pare invece chiusa con la promozione del
generale Luca Goretti, ben conosciuto a Washington, mentre più avanti
nel tempo per il Comandante della Guardia di Finanza Giuseppe Zafarana,
che ha ridato prestigio alle Fiamme Gialle, la carica più probabile
potrebbe essere quella di direttore dell’Aise al posto del silenzioso,
ma stimatissimo Gianni Caravelli. Dopo l’infausto passaggio a Palazzo
Baracchini dell’ex ministra grillina Elisabetta Trenta, ora rifugiatasi
in Italia dei Valori, l’M5s sa di aver perso il consenso del mondo
militare che aveva in gran parte votato per loro fiduciosi
nell’aspettativa, completamente disattesa, dell’«uno vale uno».
L’ultima barzelletta rifilatagli dal Movimento è il disegno di legge predisposto dalla deputata Emanuela Corda che avrebbe dovuto istituire il diritto di tutte le forze militari ad avere un’organizzazione sindacale; facoltà peraltro già avallata nel 2018 dalla Corte Costituzionale. Ma non è l’ennesima figuraccia che deve preoccupare i 55te11e quanto de) che ne deriva: una potenziale perdita di 3 milioni di voti alle prossime elezioni che contribuirà ad affossarli ulteriormente.
Ogni tentativo di migliorare la giustizia penale si è
scontrato nei decenni con forti resistenze da parte soprattutto della
magistratura. Ci provarono Anna Finocchiaro (Pd) e Angelino Alfano (FI) e
le cose restarono come prima, con tempi di processo incompatibili con
un paese moderno. Con l’arrivo dei 5 Stelle al governo la
situazione è peggiorata per chi crede nelle garanzie di base: se ogni
tentativo di ragionevolezza si schianta sul paracarro del ‘salvaladri’ ci sono pochi margini operativi. La commissione istituita dal ministro Cartabia e guidata dal presidente emerito della Consulta Lattanzi aveva avanzato proposte di buona qualità.
Non tutte hanno retto alle necessità della mediazione politica, soprattutto in termini di prescrizione, ma un passo in avanti è stato compiuto. Vedremo in pratica se e come saranno ridotti i tempi del processo. L’assoluzione dopo sette anni dall’accusa di corruzione in Cassazione di Gianni Alemanno,
già ministro e sindaco di Roma, lascia pensare sia in termini di
giustizia (fu politicamente e personalmente distrutto) sia in termini di
durata, visto che occorrerà aspettare il giudizio di rinvio seppure
solo per traffico d’influenza. (Siamo anche il Paese in cui il pubblico ministero Fabio De Pasquale si
occupava di Eni ai tempi del suicidio Cagliari, nel 1993, e se ne è
occupato ininterrottamente per il trentennio successivo avendo nelle sue
mani le sorti di un’azienda strategica come quella). Fiaccata dallo scandalo Palamara,
la magistratura associata si è adattata alla riforma, ma l’esperienza
ci insegna che solo sul campo potremo misurare l’efficacia delle novità.
Le concessioni fatte da Draghi per ottenere il voto favorevole dei 5 Stelle hanno rivelato peraltro una spaccatura nel MoVimento
di non poco conto. Chi ha catalogato frettolosamente Grillo tra gli
estremisti e Conte tra i moderati deve rifare i calcoli. Che Grillo
fosse governativo fin nel midollo lo sapevamo, al di là delle sparate e
dei Vaffa. Rottura impensabile, quindi, con Draghi. Non ci aspettavamo un Conte
che guida da remoto la contestazione alla pattuglia ministeriale dei 5
Stelle. Furibondo per il ridimensionamento della sua riforma, Bonafede
chiede vendetta a Conte contro Di Maio, accusato di aver ceduto. Per
capire l’aria che tira, basta guardare ‘Il Fatto quotidiano’
di ieri, house organ di Conte : “I 5 Stelle vanno in prescrizione” con
una vignetta che vede Grillo, Di Maio e Patuanelli ai piedi di Draghi.
Londra – Storica finale di Wimbledon 2021: Matteo Berrettini sfida Novak Djokovic. Per la prima volta in 144 anni un azzurro si gioca il trofeo del prestigioso torneo londinese, e lo fa contro l’attuale numero 1 del ranking Atp. Berrettini, trionfatore sull’erba poche settimane fa al Queen’s, arriva dalla vittoria in quattro set in semifinale sul polacco Hurkacz, mentre il rivale serbo ha sconfitto in tre set Shapovalov. “Forza Italia contro l’Inghilterra. Speriamo che qui a Wimbledon sia una bella finale, ma che l’Italia possa vincere solo quella del calcio, la sera”, ha scherzato Djoko – 30 finali negli slam giocati in carriera, di cui 19 vinte – ai microfoni Sky. Il numero 1 Atp non ha risparmiato lodi all’avversario: “Ha uno dei servizi migliori al mondo e uno dei dritti più potenti del circuito”, ha detto aggiungendo che “il suo gioco lo porta a essere sempre molto aggressivo ed è molto intelligente nella costruzione del punto”. In vista di un evento eccezionale nel suo genere, anche i canali tv subiranno delle variazioni.
La finale di Wimbledon verrà trasmessa su Sky Sport, che ha deciso però di aprire i cancelli del Campo Centrale di Londra a tutti gli italiani. Il match, in programma oggi domenica 11 luglio alle ore 15, sarà visibile non solo sui canali Sky Sport Uno e Sky Sport Tennis – dedicati agli abbonati – ma anche su TV8 in chiaro. La partita sarà disponibile in streaming su Sky Go, Now Tv e sul sito web di TV8.
Precedenti
Matteo Berrettini, numero 9 del ranking Atp e 7 del seeding londinese, non ha mai vinto contro Novak Djokovic: nei
“precedenti” è in vantaggio il serbo per 2-0. Il numero uno del mondo
si è imposto quest’anno (in 4 set) nei quarti di finale del Roland
Garros (su terra rossa, non la superficie preferita dall’azzurro) e nel
2019 (nettamente) sul veloce indoor delle Atp finals.
I bookmakers
Berrettini sogna, ma per gli scommettitori il favorito è
Djokovic. Gli esperti di Planetwin365 danno il primo Slam del romano a
quota 4,77, contro l’1,19 riservato al successo di Djokovic. Sulla
stessa linea anche i betting analyst di Snai per i quali, riferisce
Agipronews, la vittoria di Berrettini vale 4,25 volte la posta con il
serbo favorito a 1,23. Djokovic va invece alla caccia dello Slam che gli
permetterebbe di agganciare Federer e Nadal a quota 20 major in
carriera: un obiettivo che si raggiunge a 1,21 per i betting analyst di
888sport.it che vedono Berrettini vincente in quota a 4,70, mentre
Stanleybet.it dà ancora più fiducia al numero uno al mondo serbo a 1,19
contro il 4,30 riservato all’italiano. Il risultato più probabile è il 3-0 a favore di ‘Nole‘,
offerto a 2,55 su Sisal Matchpoint, mentre i 3 set a 1 che hanno
portato Berrettini a superare Auger-Aliassime e Hurkacz si ripetono a
9,50 in favore dell’azzurro.
ROMA. «Da qui ad ottobre l’umanità gioca la sua partita decisiva contro la pandemia. E nel quadro generale hanno un’incidenza fondamentale le varianti e le vaccinazioni dei bambini e degli adolescenti», afferma alla Stampa.it il professor Roberto Cauda, direttore dell’Unità operativa complessa di Malattie Infettive al Policlinico Gemelli e revisore scientifico dei parametri Covid del governo. A indicarne i tre possibili esiti è uno studio pubblicato da Jama, organo ufficiale dell’Associazione medica degli Stati Uniti e riportato nel report di Malattie Infettive dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Tre situazioni «Appena un anno fa gran parte del pianeta era accomunato nel lockdown come risposta alla prima ondata della pandemia- si legge nello studio dei medici Usa-. Adesso, invece, la situazione diverge notevolmente tra le varie aree del mondo». Gli scienziati statunitensi indicano tre gruppi di paesi a seconda dello scenario. Nel primo ci sono le nazioni come Israele, Nuova Zelanda, Vietnam e Brunei nei quali si può ipotizzare una prossima eliminazione del Sars-Cov-2. Nel secondo gruppo di paesi (Regno Unito, Usa, Cina) si va verso, invece, una coabitazione con il virus. Infine in India, larga parte del sudest asiatico e del Sudamerica si rischia uno stato di conflagrazione della pandemia, con i sistemi sanitari in tilt per l’ingestibile numero di ricoveri in ospedale».
Prospettive Il professor Roberto Cauda è impegnato in prima linea nel sequenziamento delle varianti del Sars-Cov-2 in collaborazione con il professor Massimo Ciccozzi, responsabile dell’Unità di statistica medica ed epidemiologia del Campus Bio-Medico. «Il contesto generale può variante in funzione della diffusione delle varianti- precisa l’infettivologo-. Rispetto a un anno fa il quadro è mutato per la vaccinazione in corso. Nei paesi che hanno maggiormente immunizzato la popolazione c’è all’orizzonte l’eliminazione del virus. Ma le difformità tra le differenti aree del mondo mette a repentaglio l’intero sistema sanitario mondiale in ragione anche dell’odierna rapidità di spostamento tra paesi. La condizione di coabitazione, di convivenza con il Sars-Cov-2 si estenderà ma ciò che più preoccupa è l’ampia porzione del pianeta che, per la fragilità del sistema sanitario, non potrà sostenere le conseguenze gravi della pandemia sugli ospedali».
Una finale che definisce la redenzione è difficile da giocare.
Italia-Inghilterra a Wembley è questione di identità, di storia e sì,
certo, di pallone ma stavolta entrambe le squadre, per motivi diversi,
sembrano incarnare il meglio dei Paesi che rappresentano e soprattutto
superare il peggio.
Lo stadio che, fino a qui, ha più racconti che ricordi sembra una torta a strati e l’arco è uno svolazzo di zucchero, è il dolce che aspetta di accendere le candeline, i fuochi d’artificio, per chi dei due completerà il viaggio e potrà concedersi altri desideri. La perdente ne uscirà benissimo, ma a questo punto è il trofeo che stabilisce la svolta. Come se l’immagine costruita a partire da umiliazioni, errori, sviste, fraintesi avesse bisogno di un’altra foto per ancorare il momento e mostrarsi definitivamente.
A ritroso: tra crisi e fuga
Questa
Italia-Inghilterra si gioca tra gli scatti di Chiesa e le folate di
Sterling, tra i piedi Jorginho e gli spazi creati da Kane, però è
iniziata cinque anni fa. Siamo nel 2016, un altro evo in pratica, siamo
al precedente Europeo quando in 10 giorni le due finaliste di oggi
perdono ogni certezza. Il 23 giugno 2016 la Brexit passa al referendum e
l’Inghilterra del calcio si sveglia in Francia senza sapere che faccia
fare. Loro, i padroni dell’adorata, straguardata, strapagata Premier
alle prese con le carte di uscita, gli extracomunitari che cambiano
confini, la paura di tornare agli Anni Ottanta e senza la stessa musica.
Il 27 giugno l’Inghilterra lascia pure l’Europeo, una batosta epocale
contro la debuttante Islanda. Il 2 luglio l’Italia perde dagli undici
metri contro la Germania e non ci sarebbe proprio nulla di svilente,
tanto più che siamo ai quarti però si saluta con una vena ridicola, con i
rigori clowneschi di Pellè e Zaza a cui resta appiccicata un’ombra di
inaffidabilità. Il profilo diventerà tristemente reale nei due anni
successivi, per la prima volta dal 1958 gli azzurri mancano i Mondiali e
gira tutto storto. Non siamo credibili, non siamo concreti
calcisticamente e politicamente, non siamo neanche divertenti. Dopo il
collasso del 2016 la nazionale inglese si scolla dalla nazione e fa un
percorso contrario, riemerge e pure con una dignità che non ha nulla a
che fare con la retorica tradizionale. Niente «noi siamo un’isola chiusa
nel nostro splendore», ma noi siamo aperti e ci interessa la ricchezza
delle differenze. Si riprendono, arrivano alle semifinali Mondiali, con
questo tecnico, lo stesso Southgate che dopo l’ultimo allenamento dice
ai suoi: «Avete già creato un’eredità, avete guadagnato il rispetto, ora
dovete decidere per che cosa sarete ricordati». Se per essere i primi
ad arrivare al massimo dal 1966 o per essere quelli che ci sono andati
tanto vicino.
L’Italia nel 2018 stava davanti alla tv a ruminare fastidio e in questa competizione è riemersa issandosi su due punti fermi che non appartengono al nostro Dna. I numeri di una solidità assoluta, 33 partite senza sconfitte e la forza di chi ha equilibrio. I ragazzi di Mancini si divertono, fanno yoga, mangiano le brioche alla crema quando rientrano in ritiro di notte dopo la partita, giocano per piacere, senza freno a mano. A un minuto dai rigori contro la Spagna, quando di solito la tensione squadra le facce, Chiellini mette in campo un gag con l’inconsapevole Jordi Alba sul sorteggio dei rigori. Quanto convinto di quello che fai devi essere per ridere, proprio ridere di gusto, mentre sta per partire una riffa che ti può togliere tutto. E Jorginho, anzi Giorgio, come lo chiamano in azzurro si prende la palla che scotta, il passaggio del turno, e non pensa neanche un secondo al rischio di bruciarsi. Centra il rigore con tutta la serenità che ha portato l’Italia fino a qui. Non è solo una squadra ricostruita è un atteggiamento che non siamo abituati a vedere.
Non scomoderemo Albert Camus, che sosteneva “tutto quello
che so della vita l’ho imparato su un campo di calcio”. Ma forse c’è
una morale da cogliere, nella stupefacente congiunzione astrale che in
questa domenica di luglio vedrà l’Italia protagonista nelle due
cattedrali più sacre dello sport mondiale. Ci giochiamo tutto in una
manciata di ore, tra Wimbledon e Wembley. Non solo la finale del più
prestigioso torneo di tennis nel dopo-Brexit, giocata dal primo italiano
che calpesta quell’erba da 144 anni a questa parte. Non solo la finale
del primo campionato europeo dell’Era Covidica, disputata dagli azzurri
nel tempio di quella che Brera chiamava la Dea Eupalla e che noi già
violammo due volte, con Capello nel 1973 e con Zola nel 1998. Matteo
Berrettini e Roberto Mancini sono i portabandiera di un Paese che prova a
rialzare la testa e di un’Europa che cerca di ritrovare se stessa.
Comunque vada a finire, hanno già vinto.
Accade,
è già accaduto. Lo sport riflette nell’immaginario collettivo lo
spirito e lo stato di salute psico-politica di un popolo. Cos’altro è
stato il Brasile stellare tra i ‘70 e i ‘90, tra le magie carioca di
Pelè e le geometrie celesti di Falcao? Cos’altro è stata l’Olanda degli
Hippies del ‘74, tra il genio di Cruijff e la sregolatezza di Neskeens?
Cos’altro è stata l’Argentina del generale Videla del ‘78, tra le
metafore da panchina di Cesar Luis Menotti che grida “la zona è libertà”
e le galoppate sulla fascia di Mario Kempes che alla cerimonia di
premiazione si rifiuta di omaggiare il dittatore? Cos’altro è stata la
Germania quadrata di Berti Vogts e Franz Beckenbauer, la “macchina che
sforna vittorie”, tutti sanno sempre come giocherà eppure nessuno sa
come batterla?
Cos’altro è stata la
Francia neo-gollista ma multietnica del ‘98, tra i ricami dell’algerino
Zidane e le spaccate del caraibico Thuram? Cos’altro è stata la Spagna
di Bambi Zapatero e del boom economico tra il 2008 e il 2012, quando
dilagano le furie rosse di Raul, Xavi e Iniesta? Cos’altro è stata la
stessa Italia dei ragazzi dell’82, tra i golazi di Pablito Rossi, l’urlo
liberatorio di Tardelli e lo scopone in aereo con Pertini e Bearzot? In
mezzo, tanto per restare sospesi tra football e tennis, mettiamoci la
finale di Davis di Cile ‘76, quando Panatta e Bertolucci al Nacional di
Santiago si prendono la Coppa sfoggiando un’irridente maglietta rossa,
sotto lo sguardo sulfureo di Pinochet. E magari aggiungiamoci pure i
fasti del Milan berlusconiano, che per un ventennio anticipano e
accompagnano la pirotecnica “discesa in campo” e poi la tragicomica
caduta politica del Cavaliere. Se ci pensate, vale anche qui la formula
di Piero Gobetti sul fascismo: in ciascuna di queste avventure si è
incarnata la “biografia di una nazione”. Lo
sport è tifo, vivaddio. Ma è anche geopolitica. E il pallone, come
scriveva Pasolini, è l’ultima rappresentazione religiosa della nostra
Civiltà. Non è un caso se Boris Johnson impavesa il mitico numero 10 di
Downing Street di striscioni coccarde e bandiere, come fosse un pub di
Covent Garden: l’Inghilterra che vince, per lui, è la conferma che c’è
vita solo fuori dalla Ue e che di nuovo, come nei ruggenti Anni
dell’Impero, quando c’è tempesta sulla Manica è il Continente a essere
isolato. E non è un caso se, all’opposto, Sergio Mattarella questa sera
sarà a Londra, seduto in tribuna d’onore a gridare o nel suo caso
sussurrare “Forza Italia” insieme a Ursula von der Leyen. Oggi, piaccia o
no ai frugali del Nord e ai sovranisti dell’Est, davvero l’Europa siamo
noi. Noi che siamo arrivati fin qui, dopo aver combattuto per primi qui
in Occidente la pandemia più feroce del secolo e aver battuto negli
stadi del Continente il Belgio e la Spagna, il canadese Auger-Aliassime e
il polacco Hurkacz. E ancora, non è un caso se lo stesso presidente
della Repubblica ha già convocato domani al Quirinale Berrettini e
l’intero team azzurro, per festeggiarli qualunque sia stato il verdetto
del campo. Perché se anche perdessero la doppia finale, questa Meglio
Gioventù ci riporta a casa il trofeo dell’orgoglio. Come dice quel fine
intellettuale del pallone che è Jorge Valdano: esistere è più importante
che vincere una partita, il gioco serve a sentirsi un po’ più felici e
un po’ più amici e “quel fondo di fascismo che si annida dietro la
filosofia del risultato è tipico di gente che divide il mondo in
dominatori e dominati, in ricchi e poveri, in bianchi e neri, in
vincitori e vinti”.
Segretario, è soddisfatto della riforma Cartabia o è un compromesso al ribasso come dicono i denigratori? «Rispondo alla milanese — spiega il leader leghista Matteo Salvini — Piuttosto che niente, meglio piuttosto. È un passo avanti utile dopo mesi di nulla».
Ma la riforma Bonafede, ora corretta dal nuovo Guardasigilli, nel 2019 l’aveva votata anche lei. Si è pentito? «La
votammo con l’impegno a riformare entro un anno anche la giustizia
civile e penale e a ridurre la durata dei processi. Conte e Bonafede non
hanno mantenuto le promesse. E oggi ci sono oltre 5 milioni di processi
in arretrato, con più di 200 magistrati fuori ruolo, cioè che non fanno
il loro lavoro…».
Teme che il M5S faccia saltare il banco in Parlamento? «Se hanno fatto confusione prima, figuriamoci dopo. Noi siamo la garanzia per Draghi e Cartabia. M5S e Pd creano solo problemi».
Giuseppe Conte si è detto contrario alla riforma. Draghi rischia la crisi? «Io spero che vinca Draghi e che perdano Conte e Grillo».
Fra Conte e Grillo lei chi preferisce? «Difficile
scegliere. Conte farà di tutto per mandare a casa Draghi perché lo
accusa di avergli rubato il posto. L’altro è felice per ogni impresa che
chiude, figuriamoci…».
Se l’ex premier tenterà di far cadere il governo voi che farete? «Cercheremo
di impedirlo con ogni mezzo democratico. Ma sa cosa le dico? Facciano
quel che credono, tanto il governo va avanti lo stesso».
E se non succedesse? «Ai
5 Stelle, ma anche a Letta, dico chiaro che non si sta dentro il
governo per dire no. Ci si sta per costruire. Se vogliono distinguersi o
rompere, si accomodino».
Potrebbe essere Draghi a perdere la pazienza. «Mi
auguro proprio di no. Vorrebbe dire che oltre alla pazienza avrebbe
perso la speranza di cambiare il Paese. Davanti a noi abbiamo
un’occasione straordinaria che lascerà il segno per i prossimi
vent’anni. Sarebbe un delitto sprecarla».
Voi avete promosso i referendum sulla giustizia pur di fronte alla riforma della ministra Cartabia. Non è una contraddizione? «No,
anzitutto perché le materie su cui chiediamo le firme non riguardano la
riforma. E poi perché i referendum sono un binario che corre parallelo a
quello del governo. Se non ci fosse, il Parlamento si fermerebbe».
Sta raccogliendo adesioni da ogni parte, anche da fronti opposti. Tutti insieme appassionatamente per far che? «I
referendum stanno intercettando una grande voglia di cambiamento. Già è
affascinante che su questo tema lavorino insieme Lega e Partito
radicale, ma bisogna riconoscere che Marco Pannella agitava questi
problemi già negli anni Ottanta. Certo, sorprende anche me vedere
firmare Staino e costituzionalisti di sinistra insieme ai giovani di
Confindustria».
Ma visto che il fronte è così ampio e trasversale, non potevate provare a fare le riforme in Parlamento? «No,
perché lì il potere di interdizione dei 5 Stelle non ci avrebbe
consentito di fare nulla. Nel Paese non esistono più, ma in Parlamento
sono ancora il primo partito».
Ha firmato anche l’ex
pm Luca Palamara, uno dei protagonisti di quel sistema marcio che
vorreste cambiare. Avete accolto un pentito. «Sono per la
redenzione. Considero Palamara un figliol prodigo che ha capito che con
certi metodi le toghe hanno guadagnato solo discredito. E mi fa piacere
sapere che molti magistrati stanno firmando i nostri moduli».
State ragionando sul futuro del Quirinale? «Di quello si parlerà nel 2022. Da Renzi mi dividono tante cose, ma se ci dà una mano sulla giustizia non mi scandalizzo».
Eppure, sul ddl Zan andate d’amore e d’accordo. «Entrambi
ascoltiamo il Santo Padre. E siamo d’accordo sul tentativo di evitare
un inutile scontro. In fondo si tratta di modificare tre articoli. Non
c’è altro».