Archive for Luglio, 2021

Né Vaticano, né Ferragni

mercoledì, Luglio 7th, 2021

Piergiorgio Odifreddi

Sul ddl Zan gli schieramenti contrapposti sono da tempo al muro contro muro, e ciascuno ha i suoi dubbi sponsor: Salvini e il Vaticano, da una parte, e Fedez e la Ferragni, dall’altra. Chi abbia i modi eterei e raffinati di quest’ultima, può dire semplicemente che “fanno schifo tutti”, e finirla così. Ma nel frattempo a scompaginare le carte si è intromesso pure Renzi, sul quale si può peraltro pensarla allo stesso modo.

Forse sarebbe però più sensato evitare di fare la ola per l’uno o per l’altro, come se le vicende parlamentari fossero un’estensione dei campionati di calcio. Sulle leggi non si dovrebbe tifare per una squadra, ma ragionare tranquillamente sulla teoria e sulla pratica di ciò che esse intendono regolamentare. La cosa sembra semplice, ma che sia complicata lo ricorda un’osservazione che fece una volta Yogi Berra, il famoso giocatore di baseball dal quale ha preso il nome l’Orso Yoghi.

Berra era famoso per pronunciare frasi enigmatiche, e una di queste era appunto: “La teoria e la pratica, in teoria sono uguali, ma in pratica sono diverse”. Ora, la pratica del ddl Zan è che non ci devono essere discriminazioni di tipo sessuale: ognuno ha il diritto di scegliere con chi avere dei rapporti sentimentali e sessuali, e sono e devono essere soltanto fatti suoi. La teoria su cui il decreto basa questa sacrosanta pratica, è invece la “dannata” ideologia di genere: secondo i promotori, il diritto alla libertà sessuale si baserebbe sull’affermazione che i sessi non esistono. O, se proprio esistono, comunque non contano, perché a contare non è quello che uno è, ma quello che uno sente di essere. In questa logica c’è però un “non sequitur”. Si possono infatti benissimo difendere i diritti dei diversi, senza dover per forza affermare che i diversi non esistono. Anzi, forse si dovrebbe fare proprio questo: un mondo in cui ci sono diversità è molto più bello e variegato di uno monolitico in cui tutti sono uguali. In politica però le cose si ingarbugliano sempre, perché i ragionamenti logici cedono il passo agli interessi partitici, che nel caso in questione sono abbastanza chiari ed evidenti. Il Pd ha trovato nella difesa a oltranza dell’identità di genere una battaglia considerata “di sinistra”, la Lega nel suo rifiuto a oltranza della stessa nozione una battaglia considerata “cattolica”, e Renzi nel suo ondivagare dall’approvazione alla Camera alla disapprovazione in Senato un modo per diventare di nuovo visibile e determinante nella scena politica. In realtà, sbagliano tutti.

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La lite social con i Ferragnez, una nemesi per Matteo

mercoledì, Luglio 7th, 2021

Massimiliano Panarari

Renzi vs. Ferragnez. No, non è un peplum – quei film che furoreggiavano nell’Italia balneare di qualche decennio or sono, stile Maciste contro Ercole –, ma il rumore di spade e il clangore di trombe è il medesimo. Come lo sono le botte da orbi che si sono scambiate l’influencer e il politico intorno al ddl Zan. Il duello tra Chiara Ferragni e Matteo Renzi è un compendio degli effetti del tracimare della disintermediazione, allorché la classe politica sempre più sovente (e sconsolatamente) segue – un po’ come l’intendenza.

E un’istantanea degli eccessi della celebrity politics, che ha fragorosamente abolito da tempo le distinzioni di ambito professionale in materia di acquisizione della popolarità e della visibilità nelle democrazie del pubblico, composto di cittadini-consumatori, cittadini-elettori, cittadini-spettatori e “opinionisti” a seconda delle tipologie dei media. E dove tra spettacolo e politica spesso non vi è più alcuna soluzione di continuità. Esattamente come in queste «baruffe chiozzotte» che si nutrono, infatti, della chiacchierata infinita che si svolge sui social network. Solo che – per citare l’«antropologa del cyberspazio» Sherry Turkle – non siamo dalle parti della «conversazione necessaria» del faccia a faccia (che è stato fondamentale per portare in tanti casi la lotta politica a convertirsi in dialogo tra i diversi), ma alla guerra simulata transmediale. E, una volta di più, alla starizzazione della politica, alimentata da politici-star contro star che si mettono a fare quella che può sembrare politica. Nella fattispecie, la singolar tenzone è, ovviamente, smaterializzata. E, quindi, in attesa di sapere se Ferragni, sfidata da Renzi a incrociare le lame de visu, raccoglierà il guanto, per adesso la saga si può seguire solo via social. In un tripudio di litigation e tifoserie, come tipico del processo di hooliganizzazione da cui la politica viene pressoché istantaneamente assorbita una volta trapiantata sui media sociali e “personali”. Ovvero quegli strumenti tecnologici che avrebbero dovuto garantire le sorti magnifiche e progressive di una rinnovata partecipazione e «democrazia diretta», e hanno invece generato soprattutto un’escalation di aggressività. A conferma del fatto che chi di disintermediazione colpisce, può perire. O, quanto meno, si ferisce. Perché è stato proprio l’attuale leader di Italia viva che, da segretario del Pd e premier, ha spinto più in alto l’asticella della disintermediazione – insieme a quella della personalizzazione – nel campo del centrosinistra. Infrangendo dogmi e consuetudini per sintonizzarsi sullo spirito del tempo postmoderno e antipolitico, ma scoperchiando così un vaso di Pandora che ha liberato potenze incontrollabili. E ha prodotto un effetto boomerang che finisce per ritorcerglisi contro, dal momento che nel mare magnum del web vale la stessa regola sintetizzabile con le (presunte) parole pronunciate da Stalin al vertice di Yalta: «Quante divisioni ha il Papa?». Che su Internet si chiamano milioni di follower, come i 24 sonanti posseduti da Chiara Ferragni.

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Vaccini, la svolta di Figliuolo: Astrazeneca e Johnson&Johnson anche agli under 60

mercoledì, Luglio 7th, 2021

Paolo Russo

«Il gap con la riduzione del 5% delle forniture che abbiamo comunicato noi e quello del 30% lamentato dalle regioni sta nel fatto che loro il confronto con il mese di giugno lo fanno con le prenotazioni, non con le dosi scaricate. E questo non tiene conto che da allora l’utilizzo di AstraZeneca e Johnson&Johnson è oggi molto più limitato».

La spiegazione del rebus vaccini che ci fornisce la struttura commissariale è la stessa che il Generale sta fornendo a uno ad uno ai governatori, stretti tra la Delta che avanza e le fiale che non arrivano. E che difficilmente arriveranno, perché il Commissario il mese scorso ha chiesto e ottenuto da Pfizer un sostanzioso anticipo sulle dosi spettanti nei mesi a venire. Ma ora l’azienda statunitense questa disponibilità non l’ha data più e, come lamentano le regioni, le consegne settimanali da qui a fine mese saranno ridotte di un terzo. Un meno 30% e passa non di un vaccino qualsiasi ma dell’antidoto che con 13,2 milioni di dosi è l’architrave sulla quale poggia oramai la campagna vaccinale, perché di Moderna questo mese ne arriveranno solo 2,1 milioni di dosi, mentre oramai AstraZeneca viene utilizzato quasi esclusivamente per fare i richiami e l’altro antidoto a vettore virale, il Johnson&Johnson sconsigliato da Aifa e Cts per gli under 60, non lo vogliono più nemmeno gli over e così le regioni finiscono per somministrarlo solo a senza tetto e badanti perché monodose.

In attesa di un incontro formale con tutti i governatori, forse già con la Conferenza delle regioni di domani, Figliuolo nei singoli confronti al telefono ha ammesso che il problema dunque esiste. E per risolverlo bisogna utilizzare tutte le armi a disposizione. Così ieri il Generale ha teso la mano all’assessore laziale Alessio D’Amato, che si era beccato dell’incosciente da virologi ed epidemiologi per aver proposto il richiamo con AstraZeneca agli under 60, allettandoli con lo sconto sui tempi del richiamo salva-vacanze. Azione combinata con quella degli open day di J&J rivolti anche a chi ha appena compiuto i 18 anni, quando per entrambi i vaccini a vettore virale l’indicazione di Ministero, Cts ed Aifa era quella di utilizzarli solo dai 60 in su. «Con D’Amato siamo una cosa sola», ha scherzato ieri il Commissario alla presentazione dell’hub vaccinale di Sant’Egidio a Roma rivolto agli homeless. «Il Lazio sta facendo il massimo del massimo e sta seguendo le indicazioni del Cts e della struttura commissariale», ha poi aggiunto facendosi serio e sdoganando così l’uso di Az e J&J anche per gli under 60. Sia pure solo per i richiami nel caso dell’antidoto di Oxford.

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Il valore del centro in politica

mercoledì, Luglio 7th, 2021

di Angelo Panebianco

E se non fosse solo una tregua? Non è forse possibile che il governo Draghi abbia innescato un duraturo cambiamento di rotta? Non è possibile che stia prendendo corpo un nuovo ciclo nel quale le posizioni estreme perdono appeal e il «centro» politico riacquista forza, valore, capacità di attrazione? Non è questa la vulgata. La politica continua a rappresentare se stessa come se fosse dominata dal duro confronto fra la Destra e la Sinistra, ciascuna impegnata, l’una contro l’altra, in un permanente «conflitto di civiltà». Le apparenze sembrano dare ragione ai sostenitori della vulgata. Il comune sostegno al governo — imposto dall’emergenza pandemica e dal vincolo europeo — non impedisce al Pd e alla Lega di scontrarsi quotidianamente. E anzi proprio l’impossibilità di fare venir meno quel sostegno spinge gli antagonisti ad accentuare al massimo le loro differenze identitarie. In queste condizioni non sembrano esserci in prospettiva spazi per una riaggregazione al centro della politica italiana. Quando si chiuderà la parentesi del governo Draghi, secondo l’opinione prevalente, la polarizzazione destra/sinistra tornerà a dispiegarsi senza più ostacoli e il centro resterà vuoto, inesistente. Come è ormai da molti anni. I sondaggi danno manforte alla vulgata. Danno per vincente una destra in cui le componenti più moderate appaiono deboli e subalterne. I sondaggi, insomma, fotografano una situazione di spinte centrifughe e di polarizzazione politica.

In queste condizioni le posizioni politicamente meno remunerative appaiono proprio quelle di centro. Ma i sondaggi si limitano a registrare le intenzioni di voto del momento. L’evoluzione politica è però una cosa più complessa, i sondaggi non possono anticiparla. Nessun sondaggio pre-elettorale (prima delle elezioni del 2018) avrebbe potuto prevedere la formazione del governo fra 5 Stelle e Lega nè quello successivo fra 5 Stelle e Pd. Per la stessa ragione, nessun sondaggio può anticipare quali alleanze parlamentari prenderanno forma dopo le prossime elezioni. E tutto ciò vale anche se non si mettono in conto avvento e ruolo del governo Draghi. Se non che, dal governo Draghi e dai suoi effetti non è proprio possibile prescindere.

Man mano che passa il tempo diventa sempre più difficile definire «tecnico» questo governo. Nonostante il fatto che nella tradizione italiana tecnico sia sinonimo di «competente» e che la competenza sia una virtù che gli italiani, per lo più, sono poco propensi ad associare alla politica. Checché ne dicano le inconsolabili vedove del governo Conte, nell’opinione pubblica si è fatta strada la consapevolezza che l’attuale esecutivo unisca competenza e taratura politica.

Questo governo è a tutti gli effetti un governo di centro. Non lo è solo, banalmente, perché, data la composizione della coalizione che lo sostiene, deve tenersi in equilibrio fra la destra e la sinistra. Lo è anche perché, fatti salvi gli effetti, più o meno distorsivi, delle inevitabili mediazioni quotidiane, le sue politiche tengono la barra al centro, si sforzano di unire interventismo statale selettivo e sostegno al mercato e alla iniziativa privata, attenzione alle fasce più povere della popolazione e misure a favore dello sviluppo e della crescita. Chi accusa il governo Draghi di essere «liberista» non conosce il significato della parola, straparla.

L’azione neo-centrista del governo Draghi può avere successo oppure no. Se arriverà il successo — sotto forma, innanzitutto, di una sostenuta ripresa economica capace di durare nel tempo — ne uscirà rivoluzionata la politica italiana. Se le politiche di centro hanno successo, ne consegue che le posizioni di centro tornano ad essere politicamente appetibili.

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Ddl Zan, battaglia in Senato il 13 luglio: scontro tra Pd e Lega

mercoledì, Luglio 7th, 2021

Alessandra Arachi

Alle sei del pomeriggio ieri è arrivato l’ok dell’aula del Senato: la discussione sul ddl Zan comincerà martedì 13 luglio. Sembra poco, eppure per arrivare a fissare questa data ci sono volute in questi giorni tre riunioni dei capigruppo e appelli dell’ultimo minuto, persino dalla presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati.Il testo che arriverà in aula tra una settimana è quello approvato a novembre dalla Camera e sul quale Forza Italia e la Lega, e, negli ultimi giorni anche Italia viva, hanno cercato di fare modifiche. Chiedendo altro tempo per portare in aula un testo condiviso, generando un acceso dibattito.

Un dibattito che ha visto contrapposte in aula anche le forze del centrosinistra con Davide Faraone, Italia viva, che ha appoggiato l’operato del presidente della commissione Giustizia, il leghista Andrea Ostellari, chiedendo al «Pd di tornare in sé». E, fuori dall’aula, con il leader leghista Matteo Salvini che ha fatto apprezzamenti sulla «mano tesa» del leader di Italia viva Matteo Renzi. Fuori dall’aula anche la voce chiara e forte del segretario dem Enrico Letta, rivolta implicitamente a Renzi: «Calendarizzato il ddl Zan, quindi vuol dire che i voti ci sono. Allora in trasparenza, e assumendosi ognuno le sue responsabilità, andiamo avanti e approviamolo».

In aula, poco prima del voto del calendario, è stata la capogruppo di Forza Italia, Annamaria Bernini a tentare l’ ultima carta chiedendo «qualche giorno in più per arrivare ad un testo condiviso e non affrettato», appoggiata subito dopo da un intervento nel merito della presidente Casellati: «Invito alla riflessione perché non si dica che in questa aula rinunciamo al dialogo per la differenza di una settimana». L’aula non ha accolto l’appello e Simona Malpezzi, capogruppo dem, ha ricordato come l’iter del ddl Zan è stato tutto tranne che affrettato visto «che è in commissione da sette mesi». La stessa osservazione fatta da Alessandra Maiorino, M5s, che ha ricordato come i Cinque stelle avessero pronte dal 4 maggio le firme necessarie per chiedere la procedura d’urgenza.

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Italia-Spagna 5-3 ai rigori, Jorginho porta l’Italia in finale agli Europei 2021, Donnarumma salva sul penalty di Morata

mercoledì, Luglio 7th, 2021

di Alessandro Bocci, inviato a Londra

Italia-Spagna 5-3 ai rigori, Jorginho porta l'Italia in finale agli Europei 2021, Donnarumma salva sul penalty di Morata

Le notti non sono magiche e palpitanti solo dentro l’Olimpico, ma anche nell’austero e gelido Wembley. L’Italia si prende la finale dell’Europeo, a nove anni di distanza dall’ultima volta, nel 2012 con Prandelli, e come nei sogni più belli tornerà nel tempio domenica per sfidare l’Inghilterra o la Danimarca. Una goduria dopo 120 minuti di sofferenza e nove calci di rigore. Quello decisivo è di Jorginho. E pazienza se per lunghi tratti siamo finiti in apnea di fronte ai palleggiatori sopraffini della Spagna. La sfida per il possesso palla l’hanno vinta loro, ma a festeggiare siamo noi.

Meno gioco e più cuore. La capacità di soffrire è un tratto distintivo di questa squadra senza limiti. Il trentatreesimo risultato utile di fila è il più complicato. Gli azzurri tengono botta nei tanti momenti difficili, soprattutto nel primo dei due supplementari. I manciniani hanno un’anima e non si piegano neppure quando Morata pareggia il gol di Chiesa. E poi dal dischetto completano l’impresa, chiudendo il cerchio magico. Segnano Belotti, Bonucci, Bernardeschi e Jorginho. Donnarumma ipnotizza Morata e si scatena la festa.

Luis Enrique sceglie un tridente senza centravanti, con Dani Olmo falso nove e anche nove falso considerando che spedisce tra le braccia di Donnarumma, peraltro reattivo, l’occasione migliore della Spagna nel primo tempo. L’Italia parte bene, pressando alta, ma è un’illusione perché la Roja si aggiusta in fretta, mandando a vuoto le intenzioni azzurre di aggredire alti. La palla ce l’hanno quasi sempre loro e i manciniani sono costretti a giocare di rimessa, cercando il lancio lungo centrale per sfruttare la lentezza di Garcia e Laporte.

Il tema della partita è quello previsto: impossessarsi del pallone. La Spagna assolve il suo compito, ma per nostra fortuna è bella solo sino alla trequarti. Busquets vince quasi tutti i contrasti e sporca le linee di passaggio, mentre il diciottenne Pedri dà un saggio delle sue qualità in entrambe le fasi. Mancini in panchina si arrabbia. Non è la solita Italia, si allunga, gira a vuoto, sbaglia un paio di uscite che le Furie Rosse non sfruttano a dovere. Jorginho fatica a tenere insieme la squadra. Manca anche il supporto degli esterni, Chiesa e Insigne non riescono quasi mai a ribaltare il fronte e senza Spinazzola perdiamo un’arma fondamentale.

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Fantastica Italia, sofferenza, rigori e gioia infinita: Spagna ko 5-3 | Siamo in finale!

mercoledì, Luglio 7th, 2021

di ANDREA GHISLANDI

LA PARTITA
L’Italia meno brillante di questo fantastico Euro 2020 si guadagna per la quarta volta nella storia la finale del torneo continentale. E’ stata un’autentica sofferenza, sia per i calciatori in campo che per i tifosi allo stadio e davanti alla tv, ma alla fine Wembley si tinge di azzurro e al rigore decisivo di Jorginho la festa è tutta italiana e le lacrime sono solo spagnole. Una vittoria voluta a tutti i costi e arrivata con quel pizzico di fortuna che non guasta mai, visto che le Furie Rosse obiettivamente hanno giocato meglio e ai punti avrebbero meritato la qualificazione. I rigori, invece, sanno essere tanto emozionanti quanto spietati e la fortuna è una componente importante. E se dal dischetto sbagliano il migliore in campo per distacco (Dani Olmo) e l’uomo capace di riequilibrare il match (Morata), dopo l’errore iniziale di Locatelli, allora non ci sono dubbi che è la tua serata, una notte a tinte azzurre.

Mancini fa un cambio obbligato rispetto al Belgio: c’è Emerson Palmieri al posto dell’infortunato Spinazzola. Tre, invece, le novità di Luis Enrique: in difesa Eric Garcia è preferito a Pau Torres, mentre in attacco Oyarzabal scalza Morata e Dani Olmo è il prescelto per sostituire Sarabia, andato ko contro la Svizzera. Entrambe le squadre amano tenere il pallone tra i piedi, ma purtroppo per noi nel primo tempo ce l’ha quasi sempre la Spagna (61% contro 39% al riposo). Gli Azzurri faticano a recuperare il pallone e sono troppo imprecisi, soprattutto a centrocampo, mentre gli spagnoli sfruttano appieno l’ampiezza di Wembley con Torres e Oyarzabal larghissimi e Dani Olmo falso nove e giocano stretti e cortissimi, accettando l’uno contro uno. Le uniche azioni pericolose dei nostri arrivano dalla fascia sinistra, soprattutto grazie a Emerson, bravo ad andare in profondità alle spalle di Azpilicueta. L’italo-brasiliano al 4′ vede il taglio di Barella, l’interista salta Unai Simon, rienta sul destro e prende in pieno il palo. Azione fermata dal guardalinee per un giusto fuorigioco. 

A questo punto comincia la gara di grande sofferenza di Chiellini e compagni, con Busquets e Pedri che diventano padroni del centrocampo. Al 13′ il baby-prodigio del Barcellona vede il taglio di Oyarzabal che controlla male e consente a Emerson di liberare. Brutto segnale e due minuti dopo da un palla persa di Barella, Ferran Torres calcia a lato dal limite. Al 21′ l’Italia si riaffaccia in avanti: uno-due Emerson-Insigne, il portiere basco esce male, l’italo-brasiliano serve Immobile che a sua volta la dà a Barella che non trova il tempo per tirare. Passano quattro minuti ed entra in scena anche Donnarumma, bravo a distendersi sul tiro di Dani Olmo da centro area. Lo stesso calciatore del Lipsia è troppo egoista qualche minuto dopo sull’errore di Verratti, calciando alto dal limite dopo aver ignorato Torres e Oyarzabal. L’attaccante della Real Sociedad manda alle stelle un assist di Jordi Alba (39′) e la prima frazione di chiude con la nostra più grande occasione, l’unico tiro in porta: Insigne per Emerson e sinistro che si stampa contro la traversa.

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Italia- Spagna e l’omaggio a Raffaella Carrà a Wembley: in playlist «A far l’amore comincia tu»

martedì, Luglio 6th, 2021

di Redazione Sport

Italia- Spagna e l'omaggio a Raffaella Carrà a Wembley: in playlist «A far l'amore comincia tu»

Raffaella Carrà a un Eurovision Song Contest (LaPresse)

La partita fra il suo Paese, l’Italia, e uno di quelli che più l’ha amata, la Spagna, celebrerà martedì sera a Wembley Raffaella Carrà, morta lunedì a 78 anni. La Figc, infatti, ha chiesto e ottenuto dalla Uefa di inserire nella playlist utilizzata per il riscaldamento della semifinale degli Europei 2021 Italia-Spagna, una delle sue canzoni più amate e ballate, «A far l’amore comincia tu».

«La scomparsa di un’icona come Raffaella Carrà — dice il presidente federale Gabriele Gravina — donna innovativa e artista straordinaria, ha colpito tutti. Prima di Italia-Spagna, la sua partita, vogliamo ricordarla con allegria, ascoltando insieme la sua musica carica di energia». A Roma, intanto, sono previsti tre giorni di saluto alla regina della televisione italiana.

Il Corriere ha creato uno speciale con partite, squadre, protagonisti e risultati in tempo reale: sfoglia tutte le news sugli Europei 2021

Anche in Spagna hanno voluto ricordarla, e il titolo di prima pagina di uno dei principali quotidiani sportivi, Marca, per ricordarla, è: «Qué fantástica esta fiesta», citando un’altra delle sue canzoni.

CORRIERE.IT

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Lega, ecco quanto versa il senatore Pazzaglini e a chi vanno gli aiuti di Giorgetti: soldi, tutta la verità

martedì, Luglio 6th, 2021

Alessandro Gonzato

In tempo di crisi, col partito alle prese con un consistente calo di introiti, gli esponenti leghisti hanno fatto quadrato e aperto generosamente il portafogli. La “Lega per Salvini-premier” nel 2020 ha ricevuto 5 milioni 700 mila euro dai propri deputati, senatori ed europarlamentari. La “Lega Nord per l’indipendenza della Padania”, invece, 824 mila. Molti onorevoli hanno effettuato una doppia donazione: chi ha versato una cifra cospicua da una parte ne ha versata una ridotta dall’altra, denaro comunque essenziale per far fronte alle perdite legate principalmente alla pandemia.

Matteo Salvini è uno dei più generosi nei confronti della nuova Lega (38 mila euro nel bilancio 2020), ma c’è anche chi ha versato di più: si tratta del senatore Giuliano Pazzaglini (48 mila), del deputato Roberto Turri, della senatrice Michelina Lunesu (43 mila) e della collega Raffaella Marin (39). Hanno donato 38 mila euro come Salvini il ministro per le Disabilità Erika Stefani, il sottosegretario alla Difesa Stefania Pucciarelli e il deputato Edoardo Ziello, che nel 2018 è entrato a Montecitorio a soli 26 anni. E ancora, hanno dato 38 mila euro al partito i deputati Sara Foscolo e Gianni Tonelli, così come il senatore Cristiano Zuliani. La Lega Nord invece riceve i contributi maggiori da due padani della prima ora, il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli e il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti, 33 mila euro a testa. Cifre identiche per il ministro del Turismo Massimo Garavaglia. 

Al mantenimento della vecchia Lega ha contribuito con una somma rilevante, 19 mila euro, anche il giovane europarlamentare Marco Zanni, presidente a Bruxelles del gruppo Identità e Democrazia. I capigruppo di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, nel 2020 hanno donato alla “Lega per Salvini premier” rispettivamente 3 e 35 mila euro, e anche in questo si è trattato di donazione doppia. Tra gli altri “governativi” che hanno dato un importante contributo alla causa leghista ci sono il sottosegretario alle Finanze, Claudio Durigon (32mila 380 euro), il sottosegretario agli Interni, Nicola Molteni (36mila), il sottosegretario all’Agricoltura, Gian Marco Centinaio (27mila euro) e Lucia Borgonzoni, sottosegretaria ai Beni Culturali (31mila 630). 

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Giustizia, Paolo Mieli: “Sì al referendum o niente cambierà”, il giornalista al fianco di Salvini

martedì, Luglio 6th, 2021

Pietro Senaldi

«Ma certo che firmo i referendum sulla magistratura proposti dai Radicali e dalla Lega. E ti dico di più, del loro contenuto non mi importa nulla; anzi, arrivo a dire che non mi convince del tutto. Mi fido però, perché fin dai tempi di Marco Pannella i radicali si sono ritagliati il ruolo di sentinelle sui temi dei diritti umani e della giustizia e vedo chiari di luna che non mi piacciono». Paolo Mieli si dichiara «non esperto» di diritto ma sono mesi che si impegna con costanza mediatica per rafforzare la corrente di pensiero che insiste per una riforma della giustizia. «Mi fido ciecamente della ministra Cartabia e delle sue riforme» spiega il due volte direttore del Corriere della Sera, per tacere delle decine di altri ruoli ricoperti, «ma ancora di più mi fido dei referendum, perché senza la loro spinta temo che il lavoro della Guardasigilli finisca nelle secche». E in effetti, proprio seguendo i lavori dei radicali, numi tutelari di Mieli in materia di giustizia, si scopre che è oltre trent’ anni che Pannella e i suoi eredi denunciano le storture dell’apparato giudiziario, «però anche le toghe che dichiarano di voler cambiare il sistema, poi sotto sotto lavorano perché tutto resti uguale». Né c’è da confidare nella Ue. Bruxelles ha posto come condizione per prestare all’Italia i soldi del Recovery Fund, tra le altre cose, una riforma che renda efficiente la nostra giustizia. Ma il direttore non si fa illusioni: «La Ue non farà esami severi, tira aria di tolleranza, le basteranno dei contentini che velocizzino i processi per promuoverci, mentre servirebbe una riforma radicale che tagli gli appigli delle correnti della magistratura sull’esercizio del potere giudiziario; perciò è necessario un importante contributo dell’opinione pubblica, che produca un effetto positivo verso il cambiamento». E quale strada più diretta se non milioni di firme sul referendum dei radicali e di Salvini? «Perché senza i referendum la Cartabia è perduta; e se aspettiamo i partiti per riformare la giustizia, stiamo freschi».

Pensi che la politica non voglia toccare i giudici per timore di finire poi processata, come al solito?

«Più che la paura può la pigrizia. Finché non gli capita in prima persona, il politico non si cura del problema; anzi, casomai gode quando viene indagato un avversario. Poi, quando alla sbarra ci capita lui, si avvolge nella bandiera e denuncia la magistratura politicizzata, ma a quel punto è grottesco».

Chi più chi meno. Il Pd, per esempio, pare tuttora connivente con lo strapotere giudiziario malato…

«Ogni nuovo segretario del Pd, ormai penso che siamo al quattordicesimo, giura all’insediamento che mai si avvarrà dei giudici per far politica e si spende in nobili dichiarazioni di principio sulla giustizia…».

E poi però?

«Se l’avversario finisce in guai giudiziari, il Pd fa festa e ci marcia sopra. In trent’ anni non ha mai eccepito né detto “questo è troppo”, neppure nel caso di Salvini indagato per sequestro di persona. È chiaro che i dem non metteranno mai mano alla magistratura. Hanno un vantaggio troppo evidente».

Cosa intendi?

«Se rifletti, quando il centrodestra vince le elezioni, succede che prima o poi una sua componente si stacca per spostarsi a sinistra e consentire al Pd di tornare al governo anche se non ha i voti. E questo avviene immancabilmente con un aiutino della magistratura. Mai è accaduto l’inverso».

È colpa però anche del centrodestra, che si rende disponibile ai ribaltoni…

«Questo perché gli manca una classe dirigente adeguata. Fatto sta che dopo trent’ anni possiamo ritenere stabile questa dinamica, tanto che scommetto che potrebbe replicarsi anche se il centrodestra vincerà le prossime elezioni».

C’è un rimedio?

«L’unico è che il centrodestra trovi un suo Ciampi o un Prodi, una personalità autorevole e chiaramente esterna alla quale affidare il ruolo di premier, una sorta di garante. Conte, a suo modo, lo era».

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