Annalisa Chirico
Venti percento della popolazione globale, 3 percento del Pil, 1 percento di immunizzazioni effettuate. Sono questi i numeri del continente Africa su cui il politologo americano Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group, si concentra in questa conversazione con Libero. «L’Africa è l’unico posto al mondo dove si prevede una crescita demografica esplosiva: la popolazione raddoppierà entro il 2050, il che vuol dire che un quarto dell’umanità sarà africano. La Nigeria da sola, con i suoi 400 milioni di cittadini, diventerà il terzo paese più popoloso del mondo, dopo India e Cina».
L’Economist ha parlato di “Secolo africano”: l’Africa sarà il campo di battaglia della competizione tra Stati Uniti e Cina?
«Per Pechino l’Africa rappresenta un pezzo importante della Nuova Via
della seta, da diversi anni la Cina investe massicciamente, con risorse
pubbliche e private, nella costruzione di infrastrutture materiali e
digitali, nell’elettronica, nelle attività estrattive, nella tecnologia.
Tuttavia i paesi che possono essere considerati “filocinesi”,
nell’orbita d’influenza di Pechino, sono pochi: Angola, Etiopia, Zambia e
Zimbabwe. Si tratta di realtà estremamente povere, rette da regimi
autoritari. Quasi nessuno è schierato con gli Usa. Le tre economie più
importanti (Kenya, Nigeria e Sud Africa) non si espongono né con Pechino
né con Washington».
La nuova Guerra fredda si combatte in Africa?
«Non parlerei di competizione diretta ma di aree di influenza
differenziate. Gli Usa sono impegnati sul fronte della cooperazione per
la sicurezza, il finanziamento (attraverso l’Fmi e la Banca mondiale),
la salute e la società civile. I cinesi investono sopratutto
nell’economia attraverso prestiti, infrastrutture e relazioni
commerciali. La situazione potrebbe cambiare se, per esempio, Pechino
decidesse di realizzare altre basi militari come quella di Gibuti. Al
momento però l’Africa non è una priorità per l’amministrazione Biden.
Per il presidente le priorità sono la Cina e il clima».
Insomma, in Africa gli americani puntano sul soft power.
«Esatto, l’America fa leva sul settore privato, sulle Ong, su finanziatori individuali, senza ricorrere a mezzi statali».
Lei accennava alla bomba demografica africana, questione
sensibile per l’Italia a causa delle ripercussioni in materia di
immigrazione.
«Il futuro non promette nulla di buono. L’Africa è la regione più duramente colpita dal cambiamento climatico. L’università di Notre Dame elabora un indice di adattamento che stima la vulnerabilità ai rischi climatici: nove dei dieci paesi più esposti sono africani. Ciò rischia di rafforzare processi di radicalizzazione e migrazione. L’Africa è il luogo dove centinaia di milioni di persone non saranno più in grado di restare a vivere nelle proprie abitazioni per via del surriscaldamento; queste persone hanno inoltre la minore capacità di reddito per sostenere i costi di trasferimento in un paese vicino».
A rendere l’Africa fonte di instabilità contribuisce la proliferazione di tecnologie insidiose.
«È una minaccia concreta che le istituzioni locali non sono in grado
di fronteggiare. La popolazione più giovane su scala mondiale, in larga
parte privata del diritto di voto, sta diventando quella più capace di
generare instabilità. Il phishing di matrice nigeriana che punta a
infiltrarsi nel tuo conto corrente è un problema fastidioso, al pari dei
rapimenti compiuti dai pirati in mare e degli attacchi cyber, sempre
più sofisticati, contro le infrastrutture sensibili».
Una nota positiva in questo quadro fosco?
«Probabilmente il Covid. A livello di contagi, il continente ha affrontato il virus meglio di altre parti del mondo, favorito da una popolazione più giovane, meno esposta alle forme gravi di malattia, e ai collegamenti ridotti con le aree di crisi. L’esplosione della variante Delta però complica tutto: il progetto Covax è una delusione totale e gli africani si ritrovano, di fatto, senza vaccino. L’Africa sarà l’ultima regione del mondo a potersi definire “post pandemica”, e questo è un male per i cittadini africani impossibilitati a viaggiare per lavorare».
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