Carlo Lucarelli
Provate ad immaginare un movimento di trecento, trecentocinquantamila persone, nella stragrande maggioranza giovanissimi. Accomunati da un impegno, attivo e concreto, molto appassionato, su tematiche altrettanto attive, concrete e appassionanti, e non tanto da una posizione ideologica preconcetta, quando proprio dalla concreta -appunto- urgenza, di certi argomenti. Difesa dell’ambiente, nuovi modelli di produzione ecosostenibile, politiche energetiche diverse, concezioni alternative del lavoro, diritti umani e civili, la pace, le migrazioni con tutte le opportunità e i problemi che si stavano ancora profilando all’orizzonte. Greta Thunberg, la Green Economy e Aboubakar Soumahoro, per dirla un tanto al chilo, ma vent’anni prima. Trecento, trecentocinquantamila persone, per lo più giovani, in gran parte delusi dai partiti.
Provate ad immaginare un movimento di trecento, trecentocinquantamila persone, nella stragrande maggioranza giovanissimi. Accomunati da un impegno, attivo e concreto, molto appassionato, su tematiche altrettanto attive, concrete e appassionanti, e non tanto da una posizione ideologica preconcetta, quando proprio dalla concreta -appunto- urgenza, di certi argomenti. Difesa dell’ambiente, nuovi modelli di produzione ecosostenibile, politiche energetiche diverse, concezioni alternative del lavoro, diritti umani e civili, la pace, le migrazioni con tutte le opportunità e i problemi che si stavano ancora profilando all’orizzonte. Greta Thunberg, la Green Economy e Aboubakar Soumahoro, per dirla un tanto al chilo, ma vent’anni prima. Trecento, trecentocinquantamila persone, per lo più giovani, in gran parte delusi dai partiti.
Non dalla politica, anzi, disposti
proprio a metterla in pratica e in campo, quella politica, che, per
dirla assieme a Giorgio Gaber quando parlava di libertà ma è lo stesso,
non è star sopra un albero, come stavano facendo alcuni partiti, e
neppure il volo di un moscone, come sembrava la intendessero altri, ma
partecipazione.
Un
movimento, aggiungiamo, che aveva grandi possibilità di diventare
trasversale, e in parte già lo era. Perché certi argomenti e certe
istanze, quando perdono le etichette del gioco politico, fanno paura e
interessano tutti quelli che hanno voglia di ragionarci sopra.
Ecco,
il momento e il luogo per riunirsi, definirsi e, appunto, ragionare di
certe cose, il punto da cui dove cominciare un percorso che anche
fisicamente partiva con una marcia, era Genova. Dove nel luglio del 2001
gli stati membri del G8 andavano a discutere e a rappresentare un altro
modo di immaginare e gestire il mondo. Due universi a confronto,
totalmente contrapposti. Benissimo. Sappiamo come è finita. Nel sangue.
Era
cominciato qualche mese prima, con una crescita della tensione che
avevamo già conosciuto in altre occasioni, più indietro nel tempo.
Notizie allarmanti che preparavano al peggio nell’ottica di uno scontro
annunciato. Frutta farcita di lamette e palloncini con sangue infetto da
lanciare sulle forze dell’ordine, più di duecento body bag – i sacchi
che si vedevano nei telegiornali riportare in patria i soldati uccisi
nelle guerre del Golfo – ordinati dal governo per far fronte ad
eventuali, nel senso di quasi sicure, vittime. Fake news, si direbbero
oggi, disinformazione, si diceva una volta.
E
poi le immagini trasmesse dai tg, con i black block che marciano
inquadrati a metà tra le SS e i ninja della squadra giapponese di Rollerball,
quello del ’75 con James Caan, che come loro fanno paura. Anarchici,
per la stampa, forse no per chi era abituato a considerare l’Anarchia
un’altra cosa, provocatori, eterodiretti o anche solo tollerati, per
chi, come me, è abituato a pensar male. Una città blindata da migliaia
di uomini delle forze dell’ordine, alcuni dei quali scelti appositamente
tra quelli, diciamo così, particolarmente motivati e decisi ad usare la
forza, e proprio in questo senso armati e preparati. La Zona Rossa come
Fort Apache.
E poi le bombe. Non si ricordano spesso, e furono
poco citate anche allora, ma ce ne sono quattro, due che esplodono e
feriscono un carabiniere e una segretaria di redazione del Tg4, e due
che non scoppiano, per fortuna, perché avrebbero ammazzato un sacco di
gente. E anche questa – le bombe – è una cosa che abbiamo già visto.
Il primo
sangue arriva venerdì 20 luglio. Dopo che gruppi di black block hanno
devastato praticamente indisturbati parte della città, attaccando
perfino il carcere Marassi, una colonna di carabinieri contrattacca, ma
sbaglia i tempi e si scarica su piazza Manin, dove ci sono i
manifestanti impegnati a discutere degli argomenti di cui sopra.
Sessanta feriti, alcuni anche abbastanza gravi, tra gli insegnati, i
medici, i pacifisti e i boy scout della Rete Lilliputh.