Archive for Settembre, 2021

Mancano dosi di vaccino per 6 milioni di italiani

domenica, Settembre 26th, 2021

Franco Bechis

Ci sono poco meno di 6 milioni di italiani – per l’esattezza a ieri sera 5.929.017 – che anche volessero fare le due dosi di vaccino in grado di garantire un duraturo green pass per lavorare, non potrebbero. Mica perché sono no-pass o hanno chissà che grillo per la testa. Non potrebbero vaccinarsi perché le dosi di vaccino per loro non ci sono. È il fianco scoperto di Mario Draghi, del suo governo e del commissario straordinario all’emergenza sanitaria, il generale Francesco Paolo Figliuolo. Perché lo Stato che sta facendo la voce grossa con tutti e ha varato decreti punitivi fino alla sospensione dello stipendio per chi non ottempera al dovere sottinteso- quello di vaccinarsi- è il primo a non avere fatto il suo dovere. Lo so che questi numeri non circolano e non vengono raccontati nei rapporti settimanali sulle vaccinazioni, ma sono facilmente desumibili per sottrazione. Secondo Istat gli italiani sono infatti 59,2 milioni. Quelli che non hanno ancora compiuto i 12 anni (e quindi non possono essere vaccinati) sono 5,87 milioni. Quindi sulla carta quelli vaccinabili sono 53,38 milioni. Considerando che da mesi si distribuiscono solo Moderna e Pfizer che hanno bisogno di due dosi, per essere a posto con la coscienza e potere puntare il dito accusatorio su qualsiasi cittadino lo Stato italiano avrebbe dovuto distribuirne a tutti almeno 106,77 milioni di dosi. Avendole a disposizioni da tempo sarebbe legittimato a dire a chiunque: «Io la dose te l’ho procurata, sei tu che non vuoi vaccinarti». Solo che le dosi distribuite alla data di ieri sera alle Regioni sono molte di meno. Per l’esattezza 94.912.653. Ne mancano quindi ancora 11.858.033, che rendono impossibile mettersi in regola appunto a 5.929.017 italiani.

Le cifre assolute potrebbero essere ballerine, perché da un lato una piccola parte degli italiani ha ricevuto una vaccinazione di Johnson&Johnson che prevedeva una dose unica, e dal lato opposto non poche dosi effettivamente distribuite dal governo sia di J&J che di Astrazeneca da giugno in poi sono state escluse dai piani di vaccinazioni delle Regioni e restituite al governo centrale perché ne facesse donazioni al paese del terzo mondo. Resta il fatto che i vaccini distribuiti fin qui lasciano fuori fra 5 e 6 milioni di italiani dalla possibilità di ricevere le dosi. Quindi non ci sono fiale per tutti, e se pure l’Italia non avesse manco uno contrario o timoroso delle vaccinazioni, in ogni caso non sarebbe possibile avere tutti in regola per una responsabilità esclusiva dello Stato.

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Futura alleanza con la Lega: le paure di Giuseppe Conte per le mosse nell’ombra di Luigi Di Maio

domenica, Settembre 26th, 2021

Dopo l’esperienza del governo Conte I sembrava impossibile un riavvicinamento tra la Lega e il Movimento 5 Stelle, ma all’interno del partito fondato da Beppe Grillo c’è chi si sta muovendo in questa direzione. Mandando in crisi lo stesso Giuseppi, nuovo leader pentastellato. All’interno del Carroccio c’è molto movimento tra le diverse anime politiche e secondo La Stampa si sta formando un asse tra Luigi Di Maio e Giancarlo Giorgetti.  Conte si confronta con i suoi uomini più fedeli ed è visibilmente preoccupato per il rimescolamento di carte del centrodestra, soprattutto per il comportamento tenuto dal ministro degli Esteri. “Nessuno – scrive il quotidiano torinese – mette in dubbio che Di Maio si stia spendendo per costruire l’alleanza con il Pd, ma la preoccupazione condivisa nell’inner circle di Conte è che, parallelamente, non abbia mai smesso di coltivare la possibilità di una futura alleanza con il Carroccio. Così da avere, se le condizioni lo permetteranno, da una parte una Lega del Nord, dall’altra un Movimento del Sud”. Tra Di Maio e Giorgetti c’è un legame molto stretto nell’ultimo periodo, anche perché spesso si trovano insieme nelle riunioni del Tavolo interministeriale per l’Attrazione degli investimenti, che entrambi presiedono.

IL TEMPO

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Stato mafia, la figlia di Borsellino: “Sotto accusa chi aiutò mio padre”. Difende i carabinieri, attacca i pm

domenica, Settembre 26th, 2021

Giovanni M. Jacobazzi

«In questi anni, a proposito del processo trattativa, non ho mai voluto esprimermi anche se ho sempre avuto molti dubbi e perplessità sulle accuse da parte della Procura. E devo dire che i miei sospetti sono stati confermati dalla sentenza della Corte d’appello di Palermo». Lo ha affermato ieri, all’indomani della sentenza che ha assolto gli ufficiali del Ros dei carabinieri e Marcello Dell’Utri, Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato Paolo Borsellino, ucciso il 19 luglio 1992 da una Fiat 126 imbottita di tritolo in via D’Amelio a Palermo.

Signora Fiammetta, sono anni che si batte per la ricerca della verità sulla morte di suo padre. Cosa ha pensato alla notizia dell’assoluzione dei generali Mario Mori e Antonio Subranni?

«Mi chiedevo sempre come fosse possibile che uomini che erano stati al suo fianco potessero essere realmente artefici di una trattativa con gli esponenti di Cosa nostra, che invece avevano sempre combattuto».

Le sembrava assurdo?

«Ma sì. Del resto fu lo stesso Subranni aportare un’informativa all’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco, su un carico di tritolo destinato a mio padre. Ricordo ancora i pugni che mio padre diede sul tavolo quando raccontò a casa che il procuratore non lo aveva neppure avvisato».

Lei e la sua famiglia avete in molte occasioni fatto riferimento ad altre piste investigative che non sono state percorse. Ci può spiegare?

«Sono anni che sto chiedendo di approfondire il clima che mio padre viveva dentro la Procura di Palermo, che seppi aveva definito un “nido di vipere”. Mio padre disse a mia madre che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo ma i suoi colleghi che lo avrebbero permesso».

Ha parlato in diverse occasioni del dossier “mafia appalti”. Cosa c’entra nel procedimento sulla trattativa?

«Pur essendo passati ormai tanti anni, non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce sul perché venne archiviato questo dossier, a cui mio padre aveva manifestato di tenere moltissimo».

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Giorgia Meloni, “centrodestra senza leader”. Senaldi: urne e Quirinale, cosa si nasconde dietro lo sfogo

domenica, Settembre 26th, 2021

Pietro Senaldi

Prendere coscienza del problema è il primo passo, indispensabile, per risolverlo. Quindi in apparenza non ci sarebbe nulla di strano nell’uscita fatta ieri da Giorgia Meloni. La presidente di Fdi ha ammesso candidamente ai microfoni di Telelombardia che «il centrodestra è senza un capo perché, se c’è chi sta al governo e chi all’opposizione, è difficile avere un leader che poi decide per tutti». La politica nostrana però non è così lineare e anche la frase più banale, in bocca al capo del primo partito nei sondaggi, nasconde significati reconditi. Il primo, e più immediato, è il messaggio a Salvini: non ti riconosco più come primus inter pares della coalizione. La ragione non si limita al fatto che in questo momento Matteo sostiene Draghi e Giorgia no, e neppure risiede unicamente nella risicata percentuale di vantaggio che gli istituti demoscopici riconoscono a Fratelli d’Italia. Il dissidio è più profondo. La Meloni rimprovera al Capitano di non essere stato capace di realizzare, ma è più corretto dire di non aver voluto trovare, una sintesi delle posizioni e degli interessi politici, e di poltrone, dal Copasir alla Rai, dei tre partiti della coalizione. Gli rinfaccia, ora che le resistenze dentro Forza Italia rendono più ardua la realizzazione del progetto di federazione verde-azzurra, di aver tentato di prescindere da lei, come ai tempi in cui il leader leghista, ministro forte del governo gialloverde, inseguiva la vocazione maggioritaria del suo partito.

NELLE URNE
Dal canto suo, Salvini si ostina a non rapportarsi da pari a pari con Fdi nei tavoli di trattativa del centrodestra, insensibile al nuovo equilibrio nei rapporti di forza con l’elettorato. Lo infastidiscono le posizioni della Meloni su vaccini, Covid, Europa, e i tranelli parlamentari come la sfiducia a Speranza prima e Lamorgese poi, interpretati in via Bellerio come quotidiane provocazioni figlie di una strategia di guerriglia che Giorgia attuerebbe per mettere in difficoltà l’alleato. Chi dei due abbia ragione, anzi meno torto, è argomento che appassiona solo i militanti dei rispettivi partiti, diverte Berlusconi, il quale osserva perplesso i suoi eredi che considera indegni, e intristisce gli elettori del centrodestra, che vorrebbero vedere quagliare i loro beniamini. Probabilmente tra dieci giorni il centrodestra raccoglierà nelle urne quanto ha seminato, cioè poco, ma la preoccupazione èche, se batosta dovesse essere, la lezione non sarà compresa e anzi darà la stura a nuove polemiche e dispetti. Tra i due litiganti, il terzo gode, e già circolano sondaggi che vedono il Pd prima forza nazionale, con Fdi e Lega scalzati. Salvini e Meloni hanno portato i rispettivi partiti a vette impensabili e mai raggiunte dai loro predecessori. I numeri in politica sono quasi tutto, ma l’abilità di un leader può permettergli di menare il torrone per quindici anni senza mai neppure sfiorare il 20%, come accadde a Craxi, quanto l’irrisolutezza può farlo sparire subito dopo avere incassato il 25%, come accadde a Bersani. È straordinario che Giorgia e Matteo viaggino intorno al 20% e il centrodestra unito sia al 48, ma è inquietante che nessuno sappia cosa fare per ottimizzare tutto questo consenso che, se non verrà impiegato presto e bene, si perderà.

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L’Italia agli ultimi posti per aumento dei salari: costo del lavoro e scarsa produttività frenano la crescita

domenica, Settembre 26th, 2021

SILVIO PUCCIO

L’italia è penultima in Europa per crescita del reddito medio pro capite. Esclusa la Spagna – ultima assoluta – e la Grecia, dove il dato crolla del 34% l’aumento si ferma all’8%. Nel 2019 i lavoratori tedeschi guadagnano 4.500 euro in più rispetto al 2011 (+17%). Le tasche di quelli italiani sono più pesanti di 1.400 euro: 19,5 mila euro il reddito medio, rispetto ai 18 mila di inizio rilevazione.

Il dato sui giovani è sconfortante: tra i 18-24enni il dato medio è cresciuto solo del 2% mentre in Germania sale del 14%. 

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La produttività
La stagnazione dei salari è una questione annosa. In Italia gli stipendi crescono con difficoltà perché gli indicatori che misurano l’efficienza del lavoro sono fermi su cifre analoghe a quelle degli anni ’90. La produttività, in sostanza, non aumenta: «Tra i Paesi sviluppati – spiega Pietro Reichlin, professore di Economia alla Luiss di Roma – l’Italia mostra un tasso di produttività stagnante, con valori a volte inferiori al ventennio precedente. Questo si riflette sui salari. Un loro aumento non accompagnato da una crescita di produttività creerebbe tensioni sul fronte della redditività delle imprese». Si creerebbe, cioè, uno scompenso economico se l’aumento dei salari fosse slegato dalla capacità delle aziende di creare maggior valore aggiunto.

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Uno degli indicatori utilizzati per misurare la produttività di uno Stato è il Pil prodotto per ora lavorata. Un investimento in innovazione tecnologia, in formazione del personale o un ammodernamento delle macchine può avere degli effetti positivi sull’efficienza di un’azienda. Stando ai dati Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, la produttività italiana è rimasta invariata negli ultimi trent’anni. La produttività della Francia è aumentata del 15% negli ultimi vent’anni. Quella della Germania del 16%. In Italia l’incremento è stato di 3,5 punti dal 2000. 
I contratti
Il mancato aumento della produttività è uno degli elementi che frena la crescita dei salari italiani. Come quelli regolati dai contratti nazionali. Degli accordi di lavoro siglati tra le corporazioni aziendali – di solito Confindustria – e i sindacati. Regolano le condizioni occupazionali di 34 categorie professionali e oltre 5 milioni di lavoratori: il 40% del totale. Il cui stipendio è rimasto in sostanza invariato nel tempo.

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“Salario minimo, non serve una legge”: Cisl e Uil respingono l’apertura di Landini

domenica, Settembre 26th, 2021

PAOLO BARONI

ROMA. Rinnovare e rafforzare i contratti, più che pensare al salario minimo. E sì ad una legge sulla rappresentanza, ma che non sia calata dall’alto. Anche Cisl e Uil, come la Cgil, sostengono che questa sia la strada da battere, privilegiando le intese tra le parti sociali. E le leggi, semmai, devono solo servire a rafforzarle.

Riuscire a misurare il peso reale delle rappresentanze sociali, secondo i sindacati confederali, consentirebbe infatti di aggredire alla radice il problema dei bassi salari togliendo di mezzo i tanti contratti «gialli» o «pirata» che dir si voglia senza per forza dover introdurre un minino legale, che poi finirebbe solo per innescare una corsa al ribasso sulle retribuzioni. «Da 900 contratti si passerebbe a 200 contratti e quelli dovrebbero poi valere per tutti» ha spiegato ieri Maurizio Landini. Col numero uno della Cisl Luigi Sbarra il leader della Cisl si è sentito venerdì in vista del confronto di oggi alla kermesse Cgil di Bologna confermando piena identità di vedute su tutti questi temi. Assieme a loro ci sarà anche il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri che a la Stampa ribadisce: «Noi siamo per l’autonomia delle parti sociali».

«Oggi sono oltre 2 milioni i lavoratori che lavorano a 6 euro all’ora lordi. Ci sono riders che corrono e fanno incidenti anche mortali e guadagnano 4 euro all’ora. Questo non è tollerabile in un’economia avanzata» è tornato a ripetere ieri il presidente dell’Inps Pasquale Tridico dopo che la sua intervista al nostro giornale di giovedì scorso ha riacceso il dibattito facendo convergere M5s, Pd e Leu sulla necessità di varare in tempi rapidi una legge.

I sindacati riconoscono l’esistenza del problema di tanti salari tropo bassi, ma propongono un’altra soluzione. «Il tema – ha spiegato ieri Sbarra – non è il salario minimo ma come diamo sostegno e come rafforziamo la contrattazione collettiva». Quindi non una norma di legge – che tra l’altro non darebbe garanzie sugli altri elementi retributivi come maggiorazioni, premi di produttività, scatti di anzianità mensilità aggiuntive, tfr, ecc. ecc – quanto piuttosto incentivi, anche di tipo fiscale, per favorire sia la contrazione nazionale che quella di secondo livello, ed un taglio del cuneo fiscale. Tutte misure che si potrebbero inserire già nella prossima legge di bilancio.

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L’Europa e le ceneri di Angela

domenica, Settembre 26th, 2021

Massimo Giannini

La rimpiangeremo, Mutti, come la chiamavano i conservatori bavaresi che non l’hanno mai amata. Quando si chiuderanno le urne tedesche, questa sera, il destino di Angela Merkel si sarà dunque compiuto. Un destino che è stato suo, ma è stato fatalmente anche nostro. Perché è banale dirlo ma la Kanzlerin, con un dominio assoluto durato sedici anni, ha tracciato un solco profondo nella sua Germania, nell’Europa e nel mondo. Da quel 22 novembre 2005, quando vinse a sorpresa le elezioni anticipate indette da Schroeder e mise in piedi la prima Grosse Koalition dopo quella del 1969, la “Ost Madchen”, la “ragazza” venuta da Amburgo, ha fatto di sé il monumento vivente della “Stabilitaet-Kultur” tedesca. Lei era lì, piantata a Berlino, motore immobile del sistema, mentre intorno tutto girava vorticosamente e le sfilavano davanti quattro presidenti americani, quattro presidenti francesi, cinque premier britannici e otto presidenti del Consiglio italiani di dieci governi diversi.

Solo Von Bismarck e Helmut Kohl hanno guidato la Germania per un tempo più lungo di lei. Bismarck ha creato un impero e inventato il primo modello di Welfare in Occidente. Kohl ha imposto al suo popolo la riunificazione delle due Germanie dopo la caduta del Muro e poi la sostituzione del sacro marco con un euro apocrifo. Il testamento politico che Angela lascia alla Storia è più modesto, ma non è il “caos” che denuncia l’Economist in copertina, con una vena catastrofista largamente esagerata. Nel suo lunghissimo cancellierato ha dovuto affrontare due crisi epocali, quella economica e quella pandemica. Se l’è cavata bene, tutto sommato. È stata rassicurante e affidabile, per la nazione tedesca e l’Unione europea.

Non è stata né visionaria né rivoluzionaria. Più che moderata, è stata equilibrata. Fedele all’insegnamento dei padri, ha fatto sua la lezione di Adenauer: «Niente esperimenti», come ricorda Lucio Caracciolo. La sua dottrina contempla la Germania immersa in un infinito presente, che postula rimozione del passato (troppo doloroso) e sospensione del futuro (troppo avventuroso). Un buon presente, ad ogni modo. Hartmut Rosa, filosofo dell’Università di Iena, scrive su “Le Monde” che la Kanzlerin vede «la potenza economica come unica soluzione ai problemi politici»: contesta la sua eccessiva attenzione alle virtù del mercato e la sua scarsa tensione verso il solidarismo europeo.

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Gli ostacoli al Pnrr: il rilancio ha tempi più stretti

domenica, Settembre 26th, 2021
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di   Maurizio Ferrera |

Il programma Next Generation Eu e le politiche espansive della Banca centrale hanno creato una situazione per molti aspetti speculare rispetto a quella di dieci anni fa, quando l’Europa e l’Italia in particolare erano nel pieno della crisi finanziaria. Non più «lacrime e sangue», ma politiche di spesa pubblica sovvenzionata dall’Unione: una svolta difficile da immaginare persino nei sogni più sfrenati, come dicono gli inglesi.

L’avvio di un nuovo ciclo politico in direzione espansiva consente di superare quella «fatica da austerità» che ha creato forti turbolenze politiche nell’ultimo decennio. La formazione del governo Draghi ha attutito le principali linee di conflitto ideologico, la maggioranza parlamentare comprende oggi tutti i partiti tranne Fratelli d’Italia, i Cinque Stelle hanno abbandonato il populismo delle origini, la Lega è molto meno euro-scettica.

Per ora almeno, il ciclo espansivo sta seguendo una traiettoria ben definita per quanto riguarda obiettivi e metodi. Ciò non dipende solo dalla competenza e dalla serietà di Mario Draghi, ma anche dalla necessità di rispettare i criteri definiti con Bruxelles. Delle 51 «condizioni» da soddisfare entro quest’anno, siamo più o meno in linea con gli impegni previsti. Ora ci aspetta lo sforzo più arduo: altre 42 condizioni entro fine anno, fra cui riforme importanti come il processo civile, il regime delle insolvenze, l’istruzione terziaria, la formazione e le politiche del lavoro, il fisco. Dobbiamo poi ovviamente realizzare gli investimenti pubblici già previsti.

Consapevole dell’urgenza, il governo ha rafforzato il ruolo della cabina di regia per sveltire i provvedimenti e spronare i Ministeri.Un ottimista potrebbe dire: finalmente siamo entrati in un periodo di quiete dopo la tempesta. Vi sono tuttavia segnali di rischio che non vanno sottovalutati. Nel nostro Paese i cicli politici espansivi hanno quasi sempre dato vita a spirali di irresponsabilità collettiva: compromessi spartitori, manipolazioni di natura clientelare, voto di scambio. La montagna del debito pubblico è lì a dimostrarlo. Per fortuna, le risorse del Next Generation Eu devono essere usate per investimenti pubblici. Non si possono creare «posti fissi» né distribuire prebende.

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Gli ultimi sondaggi in Germania: Spd ancora prima (25%), ma la Cdu recupera nelle ultime ore. Testa a testa prima del voto

domenica, Settembre 26th, 2021

di Redazione Esteri

A poche ore dall’elezione per il rinnovo del parlamento tedesco, il Bundestag – che chiude dopo 16 anni l’era di Angela Merkel – i socialdemocratici di Olaf Scholz tengono il primo posto. Migliora la Cdu di Laschet (e della cancelliera), al terzo posto i verdi di Annalena Baerbock. L’andamento dei sondaggi in tutto il 2021: i verdi si erano illusi in primavera, poi la grande rimonta dei socialdemocratici che in due mesi hanno colmato il distacco e scavalcato i cristiano-democratici

Domenica 26 settembre si vota in Germania per il rinnovo del Bundestag, il parlamento nazionale. Finisce l’era di Angela Merkel, la cancelliera che ha guidato il Paese per sedici anni e quattro legislature. In lizza per sostituirla ci sono il candidato socialdemocratico Olaf Scholz, attuale ministro delle Finanze e vicecancelliere, che con la Spd è in testa ai sondaggi con il 25 per cento delle preferenze; il candidato della Cdu/Csu Armin Laschet, secondo al 22 per cento; e quella dei Verdi Annalena Baerbock, che è terza con il 17 per cento. Uno dei tre sarà il prossimo cancelliere tedesco. Scholz è il favorito e ha già escluso di governare con la Cdu, che dopo 16 anni andrà così all’opposizione. Finisce quindi con ogni probabilità l’epoca della grosse Koalition, il governo di larghe intese, che ha dominato nell’era Merkel. Le urne chiudono domenica alle 18 e già la sera tutti i candidati andranno in tv nel tradizionale Elefantenrunde, il «cerchio degli elefanti» in cui si discute l’elezione appena conclusa: Angela Merkel resterà cancelliera fino a quando non sarà formato il nuovo governo.

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L’addio di Angela Merkel, la fine di un’era irripetibile. Il pragmatismo, la sua forza e il suo limite

domenica, Settembre 26th, 2021

di Paolo Valentino, corrispondente da Berlino

In una strada centrale della capitale tedesca, nei giorni scorsi è apparso un grande cartello, di quelli che solo la creatività berlinese può concepire. Si vedono due mani posizionate a rombo, il busto senza testa di una donna stretto in un blazer verde e la scritta «Tschüss Mutti». I tedeschi si congedano dalla madre della nazione, che per quasi due decenni li ha protetti, allontanando pericoli e minacce, garantendo prosperità e sicurezza. E in quel «ciao ciao» un po’ ironico e sbarazzino non c’è solo nostalgia e gratitudine, ma anche il senso che è tempo di guardare avanti, di mettersi alle spalle un’epoca felice, ma non più sostenibile.

Dalla crisi dell’euro alla pandemia

L’età di Merkel è stata forgiata dalle crisi. Quella finanziaria del 2008 e la successiva crisi dell’euro, l’incidente nucleare di Fukushima nel 2011, l’Ucraina nel 2014, il dramma dei rifugiati nel 2015, la crisi dei rapporti transatlantici con l’elezione di Donald Trump, la pandemia e le sue devastanti conseguenze economiche. E i suoi meriti sono inconfutabili: sotto di lei, la Germania si è consolidata come la quarta economia del mondo e terza potenza esportatrice. Merkel ha modernizzato il suo partito, portandolo alla vittoria in quattro elezioni consecutive. Ha tenuto insieme l’Europa, difendendone l’integrità e i valori. Ha negoziato, praticamente da sola, l’unica fragile tregua che impedisce al conflitto tra Mosca e Kiev di degenerare. Ha tenuto testa con coraggio e autorevolezza a Trump, respingendone l’assalto scomposto al progetto europeo, all’Occidente, al multilateralismo. Non ultimo, ha infranto il tetto di cristallo che in Germania relegava le donne in ruoli tradizionali o subalterni.

Il lato oscuro della forza

Eppure, nel bilancio di Angela Merkel il confine tra successo e fallimento è spesso sottile. Non solo e non tanto perché è difficile immortalarne il lascito in un concetto definitivo e caratterizzante, al pari della Westbindung di Konrad Adenauer, della Ostpolitik di Willy Brandt o della Riunificazione di Helmut Kohl. Ma soprattutto, perché tutte le sue scelte, anche le più coraggiose e distintive, hanno sempre avuto un elemento di incompiutezza, una conseguenza negativa certo non voluta ma reale e problematica. Come se ci fosse un lato oscuro nella forza di Merkel, il limite di un pragmatismo che non riesce mai a volare, di una cautela che non vuole e non può farsi visione politica trainante.

I successi tra la Grecia e la Russia

Gli esempi? Partiamo dall’Europa. «Peccati di omissione», li chiama lo storico britannico Timothy Garton Ash. Merkel è stata l’indiscussa leader dell’Unione, che ha saputo guidare attraverso momenti fatali. Ma ogni sua scelta, ha il suo rovescio. Ha tenuto la Grecia nell’euro, salvando la moneta unica, ma lo ha fatto un minuto dopo la mezzanotte, a condizioni punitive e umilianti, che hanno aperto la strada alle forze populiste e lasciato irrisolto il nodo della solidarietà finanziaria e dell’unione monetaria incompleta. Ha accolto generosamente un milione di migranti siriani, ma non ha spiegato e preparato i tedeschi, soprattutto quelli dell’Est, all’impatto con i nuovi arrivati, aprendo il varco alla demagogia bugiarda dell’estrema destra radicale.

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