Archive for Dicembre, 2021

La battaglia sulla stretta, il Governo si divide sui tamponi

martedì, Dicembre 21st, 2021

Paolo Russo

ROMA. Omicron rende nervosa la maggioranza, già alle prese con il rebus del Colle e ora divisa su quali armi affilare per contrastare la variante che minaccia di far dilagare i contagi, mettendo in quarantena mezza Italia da qui a meno di un mese. A tre giorni dalla cabina di regia e dal Consiglio dei ministri che dovrà varare il decreto di Natale è partita la guerra dei veti. Il ministro della Cultura Dario Franceschini alza un muro davanti al collega Roberto Speranza che vorrebbe tamponare anche i vaccinati che vanno al cinema, al teatro, allo stadio e in qualsiasi luogo affollato. Renato Brunetta fa storcere il naso anche ai forzisti quando insiste per estendere l’obbligo del vaccino a tutti i lavoratori e non solo ai travet pubblici. Il ministro dei Trasporti Enrico Giovannini respinge ai mittenti rigoristi la proposta di far scendere, non solo da aerei, navi e treni ad alta velocità, ma anche da bus e metrò i non vaccinati e i ritardatari della terza dose. Mentre Matteo Salvini e il moderato ministro del turismo Massimo Garavaglia tirano su le barricate contro qualsiasi proposta di chiusura. Compresa quella di un lockdown limitato al Capodanno, che darebbe però una bella mazzata a ristoratori, albergatori e discoteche che hanno già iniziato a raccogliere prenotazioni e a fare ordini.

È una maggioranza divisa quella che avanza verso la meta di giovedì, quando il premier scoprirà le carte che più contano: le sue. Che qualcosa si farà lo ha detto a chiare lettere nella conferenza stampa con il cancelliere tedesco Scholz. Ma cosa, dipenderà dai numeri. Prima di tutto quelli della flash survey lanciata oggi dall’Iss e che mercoledì dovrebbe dire quanto è diffusa Omicron nel Paese. Le sequenze del virus depositate ieri alla banca dati internazionale Gisaid dicono che la sua presenza in cinque giorni è salita dallo 0,5 all’1,1%. Ma secondo più di un epidemiologo sarebbe in realtà già vicina ad aver messo la firma in un caso su dieci.

Certo è che se domani la percentuale fosse a doppia cifra Draghi potrebbe essere spinto a scegliere dal mazzo delle misure quelle più drastiche, partendo dall’obbligo vaccinale esteso all’intera popolazione attiva nel mondo del lavoro. Perché se ancora non è chiaro in che misura la Omicron faccia finire in ospedale, è oramai praticamente certa la sua maggiore contagiosità, superiore di due, se non tre volte alla Delta. E questo significa che anche da noi, come Oltremanica, si potrebbero sfiorare i 100 mila positivi al giorno. Che corrisponderebbero a circa un milione di persone da mettere in isolamento ogni giorno, perché in media ogni contagiato ha contatti stretti con almeno 10 persone. Se così fosse è chiaro che il Paese non reggerebbe, venendo a mancare chi fa camminare treni e bus, funzionare gli ospedali, o chi ogni mattina al negozio o al supermercato ci consente di fare la spesa. Senza contare l’impatto sui ricoveri di un aumento vorticoso dei contagi, nel caso non fosse compensato da una minore incidenza di casi gravi.

Rating 3.00 out of 5

“Italia mai cresciuta tanto”. Lo spot della von der Leyen inchioda Draghi al governo

lunedì, Dicembre 20th, 2021

Massimiliano Scafi

E dai Mario, resta. Non glielo dice proprio cosi, anzi lei del premier non parla proprio, non lo cita neanche, non è la sede adatta, ma insomma, il senso politico delle parole della von der Leyen alla Cattolica di Milano è chiaro. «La gestione della pandemia è stata efficace, la vaccinazione va come un treno, l’economia sta crescendo più in fretta che mai, il Pil tornerà ai livelli pre-crisi già entro la metà del prossimo anno». Numeri record. Italia superstar, prima della classe, esempio per i partner. «Gli ordinativi sono in aumento, le imprese sono alla ricerca di personale, negli ultimi anni non ci sono mai state tante offerte di lavoro»: e tutto ciò, secondo la presidente della Commissione europea, è merito di Draghi. Dunque, caro Mario, resta a Palazzo Chigi e completa il lavoro, anche perché, ricorda Ursula, adesso c’è un corposo Pnrr da più di duecento miliardi da far funzionare.

Il Financial Times «preoccupato per la stabilità italiana» se il premier traslocherà al Quirinale, l’Economist che ci ha definito «Paese dell’anno», ora pure gli elogi pubblici della von der Leyen durante la cerimonia per il centenario dell’università del Sacro Cuore. L’Europa e i mercati hanno scelto e vogliono che il presidente del Consiglio rimanga alla guida del governo. E oggi a Roma arriva il nuovo cancelliere tedesco Olaf Scholz per un incontro bilaterale il cui tema principale sarà la revisione delle regole di Maastricht e la fine dell’austerity. Argomenti fondamentali per il futuro dell’Unione, decisioni da prendere, scelte operative per le quali sembra più utile un Draghi a Palazzo Chigi che sul Colle. E alle crescenti spinte internazionali si sommano quelle giunte negli ultimi giorni da diversi partiti, che in varie forme e con diverse strategie gli chiedono la stessa cosa: Mario, resta dove sei.

Ma lui, Mario, che ne pensa? In Parlamento, e pure nel governo, la corrente di pensiero più diffusa sostiene che l’idea di trasferirsi al Quirinale non gli dispiaccia affatto, soprattutto se si accorgerà che dopo la nomina del successore di Sergio Mattarella, in mancanza di un patto e di un accordo ampio, il clima sarà destinato a gustarsi in fretta e i margini di manovra a Palazzo Chigi si ridurranno. Già adesso è difficile governare con questa strana maggioranza, figuriamoci con i partiti in campagna elettorale.

Rating 3.00 out of 5

Un’altra bufala della sinistra sul Colle. “Mattarella e Draghi restino insieme”

lunedì, Dicembre 20th, 2021

Domenico Di Sanzo

Spin, speculazioni, veleni, vere e proprie bufale. L’ultima sul Quirinale, in ordine di tempo, circola da qualche giorno nei corridoi del potere romano. Rilanciata o fatta filtrare da chi spinge per il voto anticipato e da chi, invece, nutre ancora speranze per un bis di Sergio Mattarella. La teoria, abbastanza spericolata, dipinge uno scenario in cui il mandato di Mario Draghi a Palazzo Chigi è strettamente legato alla permanenza di Mattarella sul Colle più alto. In un quadro dove l’assetto delle larghe intese sarebbe garantito soltanto dal tandem formato dall’ex governatore della Bce e dal Capo dello Stato. In ottica scioglimento delle Camere e elezioni politiche nel 2022, lo ha ripetuto anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni in un’intervista a La Stampa. «Sia chiaro per me le elezioni non sarebbero necessarie solo nel caso che Draghi andasse al Quirinale, ma in ogni caso, perché credo che il mandato del premier sia strettamente legato alla figura di Mattarella. Con un nuovo presidente si dovrebbe tornare a elezioni, chiunque sia», ha spiegato Meloni. Ma l’assunto viene fatto circolare, a mo’ di spiffero, pure dal Pd. Con una finalità diversa. Al Nazareno, infatti, sanno benissimo di non avere per la prima volta né un candidato forte per la presidenza della Repubblica, né i numeri necessari per eleggerlo con i voti di un centrosinistra a trazione dem e Cinque Stelle. Da qui l’ipotesi prediletta dallo stato maggiore del Pd. Ovvero un bis di Mattarella, che, nelle intenzioni di chi sostiene la tesi del legame con Draghi al governo, sarebbe l’unica garanzia per tenere il premier a Chigi fino al 2023 con una maggioranza larghissima, quasi di solidarietà nazionale. Insomma, si eviterebbe il voto e si manterrebbe la stabilità auspicata dalle cancellerie internazionali soltanto con una rielezione del Capo dello Stato in carica. Peccato che lo stesso Mattarella abbia fatto intendere piuttosto chiaramente di non volersi prestare a quella che considera alla stregua di una forzatura costituzionale evitabile. «Lo ha sempre escluso, credo che non cambierà idea», ha detto in proposito Matteo Renzi in un’intervista a La Nazione.

Rating 3.00 out of 5

Le toghe rifiutano i giudizi. “Vietato darci pagelle”

lunedì, Dicembre 20th, 2021

Massimo Malpica

Arriva un «no» secco, firmato Anm, all’idea del Guardasigilli Marta Cartabia di introdurre le «pagelle» per i magistrati come misura per rendere più credibili le valutazioni periodiche di professionalità delle toghe. Valutazioni che al momento si traducono, di fatto, in avanzamenti di carriera automatici. Ma la possibile novità, appunto, non è stata accolta affatto con favore dal sindacato delle toghe, che nonostante gli scandali degli ultimi anni alza subito la voce di fronte all’ipotesi, e con un documento approvato ieri dal direttivo Anm sulle proposte di riforma della giustizia della Cartabia mette nero su bianco la propria «ferma contrarietà all’idea di introdurre, in sede di valutazioni periodiche di professionalità, il sistema delle cosiddette pagelle con previsione di un giudizio di graduazione nel merito (sufficiente, discreto, buono e ottimo) con riferimento alle attitudini organizzative». Un «no» non motivato dal timore dei magistrati di sottoporsi a un giudizio sul proprio operato bensì, secondo l’Anm, dal rischio di accentuare «la gerarchizzazione degli uffici giudiziari dilatando il potere dei dirigenti che verrebbe esercitato con criteri la cui discrezionalità non sarebbe agevolmente verificabile». Il problema, insomma, starebbe nella penna che quelle pagelle dovrebbe redigere. Ma il sindacato dei magistrati, nel documento di ieri, critica anche altre ipotesi di riforma, rimarcando in particolare «l’assenza di un espresso richiamo, nei propositi di riforma, della necessità di portare a compimento l’incarico direttivo e semi-direttivo nella sua interezza e fino alla scadenza del termine» e poi «l’attribuzione, ai fini del conferimento degli incarichi, di un ruolo assolutamente residuale al criterio dell’esperienza maturata nella giurisdizione». L’ultima bocciatura l’Anm la riserva al coinvolgimento nelle decisioni dei Consigli giudiziari dell’avvocatura, alla quale verrebbe riconosciuto il diritto di voto nelle delibere sulla valutazione di professionalità e in materia di conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi. Una novità che, per l’Anm, potrebbe «alterare il principio di parità delle partì nel processo e incidere sulla serenità e imparzialità della giurisdizione». E siccome il momento è quello che è, e la popolarità della magistratura non è al suo massimo, ecco che l’Anm dirige le sue critiche verso le paventate riforme come se queste fossero «ispirate a criteri esclusivamente produttivistici», rischiando così di provocare «un abbassamento del livello di qualità del lavoro giudiziario, con lo svilimento e lo scadimento della funzione».

Rating 3.00 out of 5

Varricchio: “Piano Roma-Berlino, un motore a tre tempi per la crescita dell’Ue”

lunedì, Dicembre 20th, 2021

Francesca Sforza

«Con la Germania stiamo lavorando a un piano di azione bilaterale finalizzato a rafforzare il rapporto a tre, con scadenze, processi, azioni concrete per sistematizzare una serie di canali di collaborazione». Il terzo attore è la Francia, e la cornice è quella europea. A dirlo è Armando Varricchio, ambasciatore italiano a Berlino, con una carriera che vede ogni passaggio corrispondere a un pezzo di storia: prima le elezioni americane di Donald Trump, poi il passaggio a Joe Biden, oggi, al di qua dell’Oceano, in Germania, dove ha vissuto gli ultimi mesi dell’era Merkel e adesso di affaccia sulla nuova stagione di Olaf Scholz. Non è un mistero che la Germania abbia oggi grande considerazione per l’Italia di Mario Draghi – lo testimonia la visita del cancelliere a Roma, subito dopo Parigi e Varsavia – e lo consideri un punto di riferimento per la stabilità europea. La congiuntura è ideale e la tempistica anche: «Una partita in tre tempi, quella che si sta giocando in Europa».

Ambasciatore, in che senso tre tempi?

«Il primo tempo è stato quello delle elezioni tedesche, e la Germania ha offerto un risultato che dal punto di vista politico ha creato un movimento destinato a influenzare tutta l’Europa. Il secondo si giocherà in Italia con le elezioni del presidente della Repubblica».

I tedeschi sono interessati?

«C’è grande curiosità, tutti mi chiedono. Nessuno ovviamente ha espresso auspici o pareri, non appartiene alla loro cultura politica».

Il terzo tempo sarà francese?

«Sì, con le elezioni presidenziali, seguitissime in Germania anche perché la presidenza europea francese ne sarà condizionata, dal momento che un mese prima del voto non possono avviare attività che possano essere interpretate come mosse di campagna elettorale».

E’ vero che i tedeschi sono rimasti sorpresi dalla firma del Trattato del Quirinale?

«C’è stata grande attenzione e curiosità, soprattutto perché ha rafforzato l’idea di un triangolo europeo, non rigido, non esclusivo ma in grado di stabilizzare l’Europa. Ci sono già una serie di fori in cui questo si discute, a livello di associazioni industriali e bancarie; se riusciamo a rafforzare la componente istituzionale, governativa, può essere solo positivo».

Sarà l’oggetto della visita romana di Scholz?

«Sì, sarà un’occasione importante perché inquadrerà l’intesa bilaterale sull’agenda europea, anche per sostenere insieme la presidenza francese».

Crede che l’approccio di Scholz sull’economia rafforzerà il ruolo dello Stato?

«La decisione sul salario minimo è stata il segno di come questo nuovo blocco politico e sociale voglia portare avanti la politica sociale. Quindi sì, più Stato, conformemente all’accordo di maggioranza, perché per governare la globalizzazione, per riequilibrarla, ci vuole più intervento pubblico. E la cosa non potrà non avere effetti su tutta l’Europa».

Ad esempio con un allentamento dei parametri di Maastricht?

«Il Next Generation Eu è stato un Game Changer, adesso ci sono margini per lavorare».

Rating 3.00 out of 5

Povertà, le mille ombre dell’Italia: gli indigenti aumentati del 22% rispetto all’anno scorso

lunedì, Dicembre 20th, 2021

Francesca Mannocchi

Marina ha lasciato la provincia romana vent’anni fa per scappare da un uomo violento che minacciava lei e suo figlio. Oggi Marina vive a Baggio, periferia occidentale di Milano, in una casa di quaranta metri quadri appena. Il figlio dorme sul divano letto e non vuole che la madre lo chiuda al mattino «perché è la sua stanza – dice Marina – se ogni giorno lo ripiego e lo rimetto a posto dice che si sente un ospite». La sua stanza è quel divano aperto tra la tv e l’angolo cottura.

Alle tre del pomeriggio, la casa profuma di sugo. L’acqua è sul fuoco da un po’, Marina aspetta che torni il ragazzo che ha da poco ripreso a lavorare come autista per le mense scolastiche. È stato fermo, senza stipendio, durante tutti i mesi di lockdown e di scuole chiuse. Anche lei è rimasta a casa, lavorava come cameriera ai piani in un hotel del centro. Dice: «Lo sai quanto costa la tessera mensile dei mezzi pubblici? Quaranta euro». Alla fine delle prime chiusure, con la cassa integrazione che non arrivava, non aveva risparmi neanche per comprare un biglietto giornaliero della metro per raggiungere il centro città: quattro euro. Marina ha un contratto a tempo indeterminato, «pensi che questo mi renda più fortunata di altri, ma è un’illusione». Nonostante le garanzie previste dal suo contratto, l’anno scorso per i sussidi ha aspettato mesi e ha dovuto chiedere un aiuto per mangiare, diventando, come migliaia di altri a Milano, beneficiaria di un pacco alimentare settimanale.

Tentenna Marina, omette, menziona la sua storia come una storia comune, il destino di molti: «Ho visto tante facce che conosco in coda per il pacco. Non sono mica la sola«. Non lo è, ma ribadirlo le serve a sottolineare quanto diffusa sia la povertà alimentare a Milano, certo, ma anche a condividere un imbarazzo. Ho bisogno d’aiuto, dice il suo volto, ma almeno non sono sola, «anche la Alessia ha bisogno, me l’ha detto lei che al parco il sabato mattina distribuiscono le scatole, non ho problemi solo io».

Mal comune, mezzo gaudio.

Ora ha ripreso a lavorare, ma al pacco alimentare non rinuncia perché ha debiti da ripagare, eredità del 2020, e «perché non si sa cosa succederà domani».

Intanto la pentola a bollire sul fuoco è il solo angolo caldo di casa. Marina ha due maglioni, la felpa e la sciarpa. I pantaloni della tuta sono lisi all’altezza delle ginocchia e il colore sbiadito di un capo lavato troppe volte.

Nel 2016, gli economisti e ricercatori Keti Lelo, Salvatore Monni e Federico Tomassi hanno mappato alcune città metropolitane italiane, mettendo a confronto Roma, Milano, Napoli e Torino. Nel libro Le mappe della disuguaglianza (Donzelli), analizzano i dati e le conclusioni che propongono, riflettono le realtà di grandi centri urbani caratterizzati da una comune natura multi dimensionale delle disuguaglianze: elevati differenziali nei livelli di istruzione, nella dotazione di servizi, delle attività culturale, dunque di opportunità economiche. Disuguaglianze che non solo coesistono le une con le altre, ma si alimentano a vicenda.

Milano ha una popolazione residente di un milione e trecentomila abitanti, la metà di Roma. È sette volte più piccola della capitale, ed è la città più ricca d’Italia, con una dichiarazione reddituale media di 36 mila euro, otto mila euro più di Roma «eppure mantiene i medesimi problemi di disuguaglianze strutturali – spiega uno degli autori, Salvatore Monni, economista dello sviluppo – paradossalmente la presenza di redditi molto elevati a volte impedisce di vedere. Nelle città più povere è più facile immaginarci queste disuguaglianze, in città con più benessere, proprio in virtù della loro ricchezza, siamo portati a vedere le luci splendenti. Questo è il periodo dell’anno in cui le luci sono più splendenti: forse è la ragione per cui non ci accorgiamo di queste differenze».

Differenze che continuano a crescere. Estremità che continuano ad allontanarsi.

Secondo il rapporto Censis-Tendercapital Inclusione ed esclusione sociale: cosa ci lascerà la pandemia, pubblicato pochi giorni fa, più si protrae l’emergenza da pandemia, più tutte le persone che vedono drasticamente ridurre i propri risparmi saranno esposte al rischio di finire in povertà assoluta. Nel 2005 viveva in povertà assoluta il 3,3 per cento della popolazione residente in Italia. Oggi, sedici anni dopo si trova nelle medesime condizioni il 9,4 per cento della popolazione. Cinque milioni e mezzo di persone, il 22 per cento più dell’anno scorso. Tra loro un milione e trecentomila bambini. «La maggioranza delle persone che aiutiamo è composta da giovani, tante sono donne. Molte di loro sole con bambini», dice Francesca Agnello, la responsabile del progetto Nessuno Escluso, un programma di supporto alimentare che va avanti da giugno del 2020.

All’inizio della pandemia, i volontari di Emergency si erano messi a disposizione per andare a fare la spesa alle famiglie e soprattutto agli anziani che non uscivano di casa per paura del contagio. Prendevano le liste della spesa, i loro soldi e tornavano a casa con le buste e il resto del denaro.

Rating 3.00 out of 5

L’idea presidenzialista figlia della palude

lunedì, Dicembre 20th, 2021

Marco Follini

Caro direttore, lo scivolamento verso la repubblica presidenziale non è solo il sogno di Giorgia Meloni, né solo l’incubo (o, almeno, l’apprensione) di molti di noi, antichi fautori di una repubblica parlamentare. E’ una tendenza, uno scivolamento appunto, che avviene per il progressivo smottamento del terreno su cui poggia da anni e anni l’equilibrio dei nostri poteri e delle nostre consuetudini.

Già il fatto che l’elezione del prossimo capo dello Stato – metà fiction, metà beauty contest – sia diventata l’argomento quasi ossessivo del nostro discorso pubblico, e che ne venga fatta discendere ogni conseguenza per il nostro futuro politico, dovrebbe mettere in allarme. È vero, fino ad ora i capi dello Stato da cui ci si aspettava lo scioglimento dei nostri nodi più intricati hanno avuto cura di mantenersi nell’ambito più stretto e rigoroso delle loro prerogative. Ma lo spazio della discrezionalità che le attuali regole delimitano tende semmai ad espandersi, e la crisi dei partiti finirà a lungo andare per lasciare all’arbitro la potestà di giocare in prima persona. Relegando i giocatori titolari alla irrilevanza della panchina. Non è un caso dunque che in questo contesto tanta parte dell’opinione pubblica si dichiari a favore del presidenzialismo. Votare il capo dello Stato infatti sembra essere una freccia in più all’arco del cittadino. Nonché una semplificazione di giochi politici che abbiamo avuto il (pessimo) gusto di rendere più oscuri e complicati anche quando invece potevano essere limpidi e raccontati con limpidezza.

Ora però ci si mette di mezzo il prossimo Quirinal game. Che sembra svolgersi secondo modalità e strategie fatte apposta per spingere ancora più l’opinione pubblica verso la deriva del presidenzialismo. Infatti, da un lato la corsa al Colle viene descritta come la madre di tutte le battaglie, più di quanto non sia. Dall’altro i combattenti di quelle battaglie si comportano o come gladiatori scesi nell’arena a combattere i leoni oppure come agenti segreti in missione coperta. E proprio la combinazione tra l’opacità dei loro disegni e il fragore delle loro manovre finisce per indurre gli elettori a diffidare di ogni forma di delega.

Rating 3.00 out of 5

Recovery Plan, missione compiuta. Per ora

lunedì, Dicembre 20th, 2021

ALESSANDRO BARBERA , FABRIZIO GORIA

Nonostante le tensioni, un’italianissima struttura burocratica, nonostante la corsa contro il tempo per raggiungere l’obiettivo, il governo di Mario Draghi riuscirà a centrare gli impegni fissati con l’Europa nel 2021 per il piano nazionale di riforme. O meglio, il 22 dicembre, nella conferenza stampa (anticipata) di fine anno, rivendicherà di averli raggiunti. Lo farà con l’approvazione di una relazione, che verrà subito dopo votata dal Parlamento e trasmessa agli uffici competenti della Commissione europea. Se non ci saranno obiezioni, verrà riconosciuta la seconda tranche degli aiuti previsti dall’accordo firmato lo scorso luglio: sono circa ventuno miliardi di euro fra contributi a fondo perduto e prestiti. È solo il primo traguardo di una maratona che finirà nel 2026. La parte più difficile della corsa sarà l’anno prossimo, in particolare fra aprile e giugno. Il piano sottoscritto con l’Unione prevede l’approvazione di tutta la riforma della concorrenza, dell’amministrazione fiscale, nuove assunzioni nei tribunali civili, penali e amministrativi, una vera infrastruttura statale per l’archivio e la protezione dei dati digitali, nuove norme per rendere più efficiente la macchina degli appalti pubblici. La somma di tutti questi impegni nel 2022 vale quaranta miliardi di euro, da suddividere più o meno equamente in due rate, una per semestre. Se il voto sul Quirinale dovesse produrre una crisi di governo e il voto anticipato, sarà improbabile sperare di raggiungere gli obiettivi. Per chi l’avesse dimenticato, di qui al 2026 il piano vale per l’Italia più di 190 miliardi di euro. Detta diversamente, la Banca d’Italia stima una crescita aggiuntiva del cinque per cento sul Pil di qui al 2024. È per questo che qui mercati e in molte cancellerie europee c’è allarme sull’ipotesi Draghi al Quirinale: se si andasse al voto, addio crescita aggiuntiva e addio alla tenuta del debito italiano nel lungo periodo, quando verranno meno gli acquisti straordinari di titoli pubblici della Banca centrale europea.

La scorsa settimana, in lunghe e faticose sedute notturne, la Commissione Bilancio della Camera ha approvato decine di emendamenti per centrare intanto gli obiettivi del 2021. Molte norme sono state approvate, su altre la struttura tecnica di Palazzo Chigi e Tesoro troverà soluzioni creative, soprattutto in materia di appalti. Il calendario è deciso: una cabina di regia, quasi certamente domani, approverà la relazione, in tempo per essere esposta in conferenza stampa. Il voto del Parlamento, già oberato dalle scadenze della Finanziaria (in gravissimo ritardo) dovrebbe avvenire entro il 27. Nel frattempo, sempre domani, l’aula della Camera voterà la fiducia sul decreto 152 di attuazione del Recovery Plan. Al Senato ci sarà giusto il tempo per il voto, senza nessuna discussione. Entrare nel dettaglio di quanto fatto è a dir poco complicato. Per capire quanto il processo è faticoso e certosino, basterà qui elencare alcune delle norme approvate: sulla gestione delle risorse idriche, il turismo, la transizione digitale, la distribuzione delle risorse ai Comuni del Sud per la messa in sicurezza degli edifici e del territorio.

Rating 3.00 out of 5

Nucleare: la Sogin doveva smantellare le centrali, ma dopo 21 anni i rifiuti radioattivi sono ancora lì

lunedì, Dicembre 20th, 2021

di Milena Gabanelli

Nemmeno con la Salerno-Reggio Calabria si era arrivati a tanto. Ci sono voluti dieci anni per costruirla e quaranta per ammodernarla. Il caso in questione ha un’aggravante pericolosa: si tratta di scorie e rifiuti nucleari. È il 1987 e con un referendum popolare l’Italia chiude le centrali nucleari. Nel 1999 nasce la Società di Stato «Sogin», incaricata di chiudere il ciclo delle centrali di Caorso, Trino Vercellese, Garigliano, Latina.

Nemmeno con la Salerno-Reggio Calabria si era arrivati a tanto. (…) Il caso in questione ha un’aggravante pericolosa: si tratta di scorie e rifiuti nucleari. I decreti Bersani (2001) e Marzano (2004) definiscono la tabella di marcia: entro il 2014 Sogin deve mettere in sicurezza i rifiuti nucleari di tutti gli impianti, inclusi quelli dell’ex-Enea, ed entro il 2019 smantellare le centrali. I materiali ottenuti vanno custoditi sui siti in depositi dedicati e, a fine lavori, conferiti in un unico deposito nazionale che, nel frattempo, sarà individuato e che Sogin costruirà e gestirà (lasciando le aree completamente decontaminate). I costi previsti per l’intera operazione ammontano a 3,7 miliardi di euro, caricati sulla bolletta elettrica secondo un sistema regolatorio fissato dall’autorità per l’Energia (Arera) nella voce «oneri di sistema».

Le attività previste e quelle realizzate

I primi dieci anni passano a definire gli interventi per la disattivazione delle centrali, la sistemazione del combustibile irraggiato, la valutazione della possibilità di esportarlo temporaneamente per il riprocessamento, richieste delle autorizzazioni ecc. In breve: inerzia. Nel 2010 vengono richiesti i «piani a vita intera», cioè il programma di attività previsto anno per anno, fino al completamento dei lavori (il cosiddetto decommissioning). L’amministratore delegato è Giuseppe Nucci, che dichiara: «ll nuovo piano industriale intende migliorare l’efficienza e l’efficacia delle nostre attività con l’obiettivo di ottimizzare tempi e costi, consapevoli che Sogin è allineata alle migliori esperienze internazionali». Il costo totale sale a 5,71 miliardi e la fine lavori spostata al 2025. Il piano a vita intera prevede attività per 790 milioni entro il 2016. Ne sono state effettuate per 239 milioni (circa 30%). Luglio 2013 Nucci aggiorna il piano: il costo totale cresce a 6,48 miliardi. Previsti per i sei anni successivi lavori per 890 milioni. Lo stesso anno cambia il governo e il nuovo amministratore delegato è Riccardo Casale, ex ad di Geam, società di raccolta e smaltimento rifiuti urbani del porto di Genova. Nel 2018 attività effettivamente eseguite per 380 milioni, invece degli 890 (circa il 43%). A novembre 2017 il nuovo amministratore delegato è Luca Desiata: il costo totale sale a 7,25 miliardi di euro e la fine lavori spostata al 2036. Nei primi 6 anni previsto decommissioning per 966 milioni. Il documento consegnato alla Commissione Industria del Senato a dicembre 2018 riporta che l’azienda ha avviato l’efficientamento degli iter di gara, internalizzato attività, rafforzato la direzione dei lavori e dell’ingegneria. Tuttavia, dopo i primi 3 anni, invece dei 385 milioni di lavori previsti sono state eseguite attività per 176 milioni (il 46%). Nel 2019 viene nominato amministratore delegato Emanuele Fontani, dirigente Sogin da 12 anni, che presenta il suo piano: il costo totale cresce a 7,9 miliardi.

Rating 3.00 out of 5

Italia vicina all’arancione, il Natale degli italiani è in bilico

lunedì, Dicembre 20th, 2021

L’Italia vicina all’arancione? “Temo di sì. Sta continuando a salire l’occupazione dei posti ospedalieri”. Lo ha affermato a “Mezz’ora in più” Guido Rasi, già direttore dell’agenzia europea dei medicinali e oggi consulente del commissario per l’emergenza Covid-19. “Resta da capire se è solo la progressione della Delta”, sottolinea Rasi riguardo al possibile effetto della variante Omicron. Secondo Rasi è importante la corsa per la “terza dose” mentre si registra “un buon numero di prime dosi”. Poi Rasi ha affrontato il tema green pass e la sua validità in era di variante omicron. «Prima di arrivare al lockdown in senso stretto, sicuramente mascherine all’aperto, evitare assembramenti, distanziamento, finalmente c’è un inizio di cultura di gestione dei flussi delle persone nelle strade. Se la Omicron buca il vaccino è praticamente un altro virus e allora tutto può cambiare, anche questo green pass potrebbe non bastare più».

IL TEMPO

Rating 3.00 out of 5
Marquee Powered By Know How Media.