di Sabino Cassese
Non è un fatto nuovo: la tendenza
dei nostri esecutivi è da un po’ quella di non considerare centrale il
rapporto con le Camere, ma quello diretto con i cittadini (tramite i
sondaggi)
Da che cosa dipende la confusione
dei giorni scorsi, nel corso dell’approvazione parlamentare del bilancio
di previsione dello Stato per il 2023? I motivi contingenti sono noti. Il
governo ha avuto solo due mesi per preparare il bilancio. La compagine
esecutiva è fondata su una coalizione instabile, la cui coesione va
verificata giorno per giorno. La spesa è in larga misura
destinata a compensare il rincaro delle fonti di energia, e quindi si
tratta di decidere sulle restanti somme, di ammontare limitato.
In Parlamento e nel governo vi sono «homines novi», con scarsa esperienza delle complesse procedure e poca competenza sulla intricata materia della finanza.
Infine, il Parlamento, quando approva il bilancio, è alle prese con la
decisione di gran lunga più difficile, sulla quale si misura il suo
rapporto con il governo (per la Costituzione, solo il governo può
presentare il progetto di legge di bilancio) e si determina la vita
dello Stato (la finanza condiziona l’amministrazione, e quindi
l’attuazione delle leggi, grazie al «potere della borsa»).
Ma è sulle cause strutturali e permanenti,
che riguardano le modalità di raccordo tra governo e Parlamento e la
maniera in cui la maggioranza dialoga con le opposizioni, che vorrei
soffermarmi.
La confusione che ha regnato nel corso dell’esame parlamentare del bilancio è frutto di un indebolimento del rapporto governo-maggioranza parlamentare, che non riguarda solo l’esecutivo in carica, perché è una tendenza di lungo periodo, che si è accentuata in questa fine anno.
Il raccordo esecutivo-legislativo,
nel modello classico, è definito dalla formula di origine ottocentesca,
ripresa da Leopoldo Elia a metà del secolo scorso, per cui il governo è
il «comitato direttivo della maggioranza parlamentare». Però, il
governo, e più in generale la politica, sono più interessati,
quotidianamente, ai rapporti con il Paese, rappresentati dai sondaggi,
dalle reazioni sui «social», dalle frequenti elezioni parziali
(regionali e locali) o europee, e dai mutamenti di un elettorato molto
volatile che questi segnalano. Affidano i
rapporti con il Parlamento a un apposito ministro senza portafoglio,
introdotto nella compagine esecutiva alla metà del secolo scorso, ma la
cui presenza è stata discontinua fino a venti anni fa. Una volta,
di un apposito ministro non vi era bisogno perché tutto il governo
dialogava quotidianamente con il Parlamento. Ora questo non accade più,
sia a causa dei frequenti impegni internazionali dei ministri, sia a
causa della prevalenza di una mentalità populistica, che mette l’enfasi
sul Paese, piuttosto che sul Parlamento. Si tratta di una tendenza
profonda, di una vena populistica che percorre la politica
contemporanea, che porta in primo piano il dialogo con il Paese,
piuttosto che con i suoi rappresentanti nelle Camere.