Domenico Quirico
Esiste una distanza, talvolta infinita benché infima, tra ciò che
diciamo e ciò che vogliamo dire. Quella separazione la si può definire
ambiguità, ipocrisia, bugia. Prendiamo la manifestazione di ieri per la
pace a Roma. Manifestare per la pace è in sé lodevole, meravigliosa
conferma che non ci rassegniamo alla terra spopolata, alle città vuote e
messe a sacco, ai carri armati enormi e senza sportelli, ciechi come
pesci degli abissi. Ma il dubbio nasce se la manifestazione si riduce
appunto a una ecumenica, inutile manifestazione di ipocrisia: peccato da
cui escluderei, ieri, per la sacrosanta innocenza dei fanciulli solo i
boy scout.
Grazie a questa ipocrisia vi hanno partecipato tutti, preti e
mangiapreti, comunisti e reazionari, liberali e liberisti, le schiere
novelle che hanno ormai sostituito da alcuni mesi lo spirito santo con
la Nato, filorussi cauti come carbonari e orfani inconsolabili di tutte
le terze vie, i multilateralismi, le mondializzazioni salvifiche. Tutti
presenti: dopo aver opportunamente verificato che la parola pace sarebbe
stata scandita, sillabata e scritta all’italiana, ovvero dopo averla
preventivamente svuotata di qualsiasi riferimento concreto, diplomatico,
reale. Riconducendola cioè alla sua esclamazione metafisica, sacrale e
quindi inutile: andate in pace… Invito di cui le vittime della guerra,
in divisa e non, quelli per cui ogni speranza sembra spenta, davvero non
sanno che farsene.
Che cosa significa la magica parola pace? Non sono riuscito a
saperlo: etere, sogno, possibilità in attesa di una forma? Temo sia così
che viene evocata in un Paese dove il libro più importante mai scritto è Della dissimulazione onesta
di Torquato Accetto a cui si abbeverarono le classi dirigenti dell’età
barocca. Non a caso non viene insegnato a scuola: perché nei secoli è
diventato una seconda natura.
Allora che cosa è la pace in riferimento al problema per cui
bruscamente è stata evocata, ovvero la guerra europea in Ucraina,
l’unico frammento della terza guerra mondiale a puntate indicata da Papa
Francesco che davvero ci interessi? Se intesa come il contrario della
guerra, fratellanza, capacità di dimenticare i torti subiti, pentimento
di quelli che li hanno commessi, chi mai potrebbe esser contro un così
impalpabile sogno? Ma se la si intende in senso pratico, come un
processo diplomatico, l’atto politico e tecnico che pone fine alla
guerra allora bisogna specificare, chiarire, aggiungere atti e fatti.
Esattamente quello che nelle enunciazioni auto assolutorie, e nelle
bugie dei politici che la guerra la vogliono, non si fa mai.
Per fare la pace bisogna inevitabilmente sedersi al tavolo con
l’aggressore, ovvero Putin, discutere con lui, accettarlo come
interlocutore, fino ad arrivare, forse, alla definizione di un
equilibrio che ponga fine, temporaneamente (la pace perpetua esiste solo
nella splendida utopia kantiana) al dominio della morte. Sgradevole
necessità, certo, quella di discutere con il colpevole. Ma la pace,
ontologicamente, richiede due soggetti. Altrimenti si chiama resa senza
condizioni, vittoria assoluta. Una distinzione che gli stati uniti ben
conoscono visto che hanno intavolato trattative di pace solo quando
hanno perso la guerra, Corea, Vietnam, Afghanistan. Negli altri casi
hanno accettato infatti la resa senza condizioni. Allarmante
antecedente.