In un moto di sincerità Matteo Salvini fa sapere che il “nome per il Colle” si saprà tra “quindici giorni”, che non è un modo di dire per prendere tempo, ma una data, cioè mercoledì 26 gennaio, dopo che saranno andate a vuoto le prime tre votazioni, in cui serve la maggioranza qualificata. E non ci vuole Frate indovino per ricondurre quel nome a Silvio Berlusconi, di fronte alla cui determinazione i baldi giovanotti del centrodestra nostrano, pur pensando che trattasi di un testardo capriccio, non hanno il coraggio, la forza o l’animo di dire di no, per ora. Perché, in questa confusione, tante volte si andasse al voto, pur sempre in coalizione col Cavaliere si devono presentare per competere con questo sistema elettorale.
E dunque, come in un deja vu –
ricordate i vertici a palazzo Grazioli, i giornalisti assiepati sul
marciapiede, i vertici a pranzo e le pennette tricolori – venerdì tutti a
Villa Grande con i giornalisti sull’Appia antica, il pranzo e il
Quirinale come menù. Nell’anno del Signore 2022 (sic!). Senza neanche
aspettare la direzione del Pd, segno che c’è non la ricerca di
condivisione, come pure richiederebbe lo spirito con cui si elegge un
capo dello Stato, il contesto di un governo di larghe intese da non
terremotare, un paese da tenere unito in questa situazione. Ma c’è in
campo uno scherma predefinito e rigido, fino al momento in cui salterà.
In questa gara di furbizia però già si intuisce dalle dichiarazioni di
Riccardo Molinari, capogruppo leghista alla Camera, sulla necessità di
“piano b” cosa pensi Salvini. E cioè che, pagato lo scotto di fedeltà al
Cavaliere, dalla quinta votazione sarà lui il king maker, con
l’obiettivo di un nome di centrodestra “meno divisivo”. Per la serie: ti
abbiamo accontentato, ora tocca a noi la proposta e a te adeguarti.
Come
ogni volpe, parafrasando i classici, anche Salvini rischia di finire in
pellicceria perché non è scritto da nessuna parte che, a quel punto,
Berlusconi, ferito nell’orgoglio, non giochi a impallinare la Moratti o
il Frattini di turno proposto da Salvini o chissà chi, secondo la nota
linea del “muoia Sansone con tutti i filistei”. Si sa, l’uomo che pensa
di essere l’incarnazione del centrodestra, difficilmente può incoronare
qualcun altro all’infuori di sé, a meno di non trarne un clamoroso
vantaggio. E infatti nell’inner circle più stretto sussurrano che in
questo momento lui un “piano b” non lo prende neanche in considerazione
ma, se proprio lo dovesse prendere, le sue preferenze andrebbero su
Giuliano Amato ma ancor di più sulla presidente del Senato, Elisabetta
Casellati perché è l’unica che potrebbe nominarlo senatore a vita. E c’è
infatti tutto un chiacchiericcio attorno alla presidente del Senato,
con qualche altra volpe che pensa di sedurre il Pd offrendo a Luigi
Zanda la presidenza del Senato, o meglio di sedurre Zanda in modo che
sua volta seduca il Pd, ingolosito dall’idea.
E
pure il Pd, come noto, aspetta che si consumi fino in fondo il
tentativo di Berlusconi perché vani sembrano anche gli sforzi di Gianni
Letta, tesi a favorire un suo passo indietro, proponendo Mario Draghi,
favorendone l’elezione nei panni del vero padre della Patria. Non
sapendo a che santi appellarsi, il Pd invoca Mattarella in buona fede,
rischiando però di produrre una singolare eterogenesi dei fini perché se
il capo dello Stato uscente diventa la bandiera di una parte è più
difficile che poi diventi un elemento di convergenza di tutti. Insomma,
si brucia pure Mattarella. Il che potrebbe essere un elemento
involontario o, ad essere maliziosi, un modo per arrivare, quando e se
mai finirà questa fase di propaganda, al vero candidato di Enrico Letta,
ovvero Mario Draghi.
In fondo al
segretario del Pd non dispiacerebbe andare a votare, sia perché pensa di
potersela giocare sia perché, in ogni caso, rinnoverebbe i gruppi
sancendo che il Pd è il primo partito. Nessuno può dirlo perché si
spaventano gli attuali parlamentari ma, nel Pd c’è una robusta corrente
di pensiero di chi pensa che convenga votare in pandemia perché (come si
è visto alle amministrative) è un contesto che penalizza la destra:
vuoi mettere ora una campagna elettorale all’insegna dei vaccini
rispetto a quando, tra un anno, si parlerà di ripresa imponente
dell’immigrazione o di un’Europa meno generosa in tema di debito
pubblico.