Archive for Gennaio, 2022

Green pass illimitato per i guariti e i vaccinati con tre dosi dal 1° febbraio

giovedì, Gennaio 27th, 2022

di Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini

Niente tamponi per chi arriva dall’estero. Il governo modificherà le regole in vigore dal 1° febbraio. No all’ingresso dei positivi in classe

Il green pass rilasciato a guariti e vaccinati con tre dosi non avrà scadenza. La scelta del governo è fatta, nei prossimi giorni — dopo il parere del Comitato tecnico scientifico — si modificherà il decreto in vigore che prevedeva dal 1° febbraio una validità di sei mesi.

La curva epidemiologica non appare ancora in discesa, il bollettino registra 167.206 nuovi casi, 426 morti e un tasso di positività al 15,2 ma il ministro della Salute Roberto Speranza ha deciso di accogliere le sollecitazioni dei presidenti di Regione e ha firmato l’ordinanza che consente a chi arriva in Italia dai Paesi dell’Unione Europea di entrare senza il tampone ma soltanto esibendo la certificazione verde. Si allarga anche la lista degli Stati dove sarà possibile andare per turismo con il «corridoio Covid free».

Il green pass

Dal 1° febbraio il green pass avrà validità sei mesi dall’ultima somministrazione. Le agenzie regolatorie Ema e Aifa non hanno però autorizzato la quarta dose e dunque chi ha già completato il ciclo vaccinale rimane senza certificazione. Per questo si è deciso di sospendere la scadenza e renderlo illimitato fino a che non sarà stabilito se sia necessario fare un ulteriore richiamo.

Per chi ha una o due dosi rimane dunque la scadenza di sei mesi, per gli altri non sarà previsto un limite, visto che la terza dose era stata autorizzata a metà settembre e già da metà marzo non ci sarebbe copertura. Il Cts dovrà comunque esprimersi per indirizzare le decisioni del governo soprattutto per quanto riguarda i guariti che hanno già ricevuto due dosi, oppure chi aveva fatto il vaccino monodose.

I Paesi Ue

Il ministro Speranza ha firmato l’ordinanza che dal 1 febbraio al 15 marzo consente a chi arriva da uno Stato dell’Unione Europea di non effettuare il tampone. La regola di imporre un test antigenico (valido 48 ore) oppure molecolare (valido 72 ore) associato al green pass per chi arrivava dall’estero — compresa la Ue — era stata introdotta prima delle vacanze di Natale, quando la morsa del Covid-19 aveva fatto esplodere i contagi. Una scelta che aveva provocato uno scontro con Bruxelles ma il presidente del Consiglio Mario Draghi l’aveva difesa sostenendo come fosse «necessaria una precauzione in più per salvaguardare la situazione epidemiologica, decisamente migliore rispetto a quella di tanti altri Paesi vicini».

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Per il Quirinale i fari si spostano su Casellati

mercoledì, Gennaio 26th, 2022

AGI – L’ipotesi che il centrodestra possa puntare sul presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, alla quarta votazione agita i gruppi parlamentari dell’ex fronte rosso-giallo. Gli alleati del Movimento 5 stelle avrebbero ricevuto rassicurazioni da Conte sul fatto che M5s non aprirà sulla (eventuale) candidatura del presidente del Senato che – al pari della rosa di nomi annunciata oggi dal centrodestra – verrebbe considerata divisiva.

Il centrodestra non ha ancora deciso cosa fare, per il momento sarebbe orientata a votare scheda bianca al terzo scrutinio, anche se inizialmente l’intenzione era quella di puntare sulla prova di forza su Nordio. L’alleanza deciderà domani, in un incontro che dovrebbe tenersi prima dell’inizio delle votazioni. L’interrogativo emerso al vertice di ieri, secondo quanto viene riferito da chi ha partecipato, è sulle aperture del Movimento 5 stelle. Sono reali? Ci possiamo fidare?, la domanda che sarebbe stata rivolta a Salvini.

Il segretario del partito di via Bellerio è determinato ad andare avanti su uno schema che, perlomeno per ora, non prevede il presidente del Consiglio. E sulla stessa lunghezza d’onda sarebbe Conte che punta allo stesso tempo a rassicurare i suoi sul fatto che la legislatura continuerà senza intoppi, con Draghi a palazzo Chigi.

Ma sulla eventuale candidatura della Casellati nel Movimento 5 stelle ci si interroga sulla tenuta dei gruppi. In tanti ricordano di aver attaccato la terza carica dello Stato sul tema dei vitalizi e dei voli di Stato, ma tra i leghisti c’è il convincimento che possa ‘attrarre’ consensi anche da parte di un gruppo di pentastellati ed ex. Nel vertice dell’ex fronte rosso-giallo Draghi è stato il ‘convitato di pietra’. Restano le distanze tra il Pd e il Movimento 5 stelle sulla necessità di salvaguardare la figura del presidente del Consiglio. E Speranza sarebbe sulla stessa linea di Letta che intende salvaguardare la figura del premier.

Ma anche il fronte ‘pro Draghi al Colle nel Pd reputa il percorso che porta l’ex numero uno della Bce al Quirinale più difficoltoso. Per Conte, Draghi deve restare al timone, non ci sono alternative. E anche i suoi lo difendono, tanto che la vicepresidente del Movimento 5 stelle Taverna ha rilanciato su facebook gli elogi del conduttore Mentana, in un fuorionda, sulla strategia portata avanti dal presidente M5s. “Sta giocando meglio di tutti”, il ‘refrain’.

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Presidente della Repubblica, se i partiti non si danno una mossa a decidere saranno i mercati

mercoledì, Gennaio 26th, 2022

Franco Bechis

Il centrodestra ha fatto la prima mossa: una terna di candidati tutti rispettabilissimi, come l’ex presidente del Senato Marcello Pera, l’ex presidente della Rai, Letizia Moratti e l’ex magistrato Carlo Nordio per tanti anni in procura a Venezia. Diversissimi fra loro, e tutti “papabili”, con pro e contro che non stiamo qui ad esaminare. Anche perché con toni gentili e il desiderio di non fare muro contro muro la porta nei loro confronti è stata subito chiusa dall’altro schieramento, che si è riunito subito dopo cercando di superare i contrasti che c’erano stati fra il segretario del Pd, Enrico Letta e il leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte. La loro riunione è stata lunga e accesa, perché in questo momento hanno più difficoltà e anche meno numeri dell’altro schieramento, anche se più o meno in tutti e due i fronti alberga un certo sospetto l’uno nei confronti dell’altro.

Letta, Conte & c però hanno sostanzialmente detto agli avversari politici (la dico così, anche se trasversalmente ai due fronti bisognerebbe pure dire “alleati politici”, visto che governano insieme) che la terna è un buon passo avanti, ma che nessuno dei componenti è votabile a sinistra e che bisognerebbe incontrarsi e discuterne. L’atto di cortesia è stato quello di non contrapporre terna a terna, cosa che avrebbe sicuramente portato a una storia infinita. Ma certo dire in pubblico: “scegline quanti vuoi, ma nessuno dei tuoi andrà mai bene a noi”, non è la strada migliore da percorrere per trovare un successore di Sergio Mattarella.

Ognuno fa gli interessi suoi, e in altri momenti lo capirei pure. Fra tante dichiarazioni anodine ieri ne è uscita una chiara di un esponente di centrosinistra anche se atipico come Bruno Tabacci: “abbiamo tenuto il G20 in Italia solo poco tempo fa. Gli altri paesi ci hanno invidiato la qualità della guida che aveva in quel momento l’Italia: Sergio Mattarella al Quirinale e Mario Draghi a palazzo Chigi. E’ quella coppia che ha dato stabilità al paese e che può evitare che vada in default come rischia di accadere con il debito pubblico aumentato in questi due anni e i soldi extra che l’Italia ha preso in prestito dalla Ue come tanti altri paesi hanno scelto di non fare, accettando solo i contributi da non dovere restituire. La migliore soluzione è confermare quella coppia”.

Tabacci ha detto una cosa che pensano in molti dentro il centrosinistra per un solo motivo: mantenere la situazione così come è per evitare decisioni che altrimenti spaccherebbero partiti e schieramenti. Sembra il punto più basso a cui sia mai arrivata la politica in Italia: non ha più il coraggio di nulla, e la sola decisione che sembra in grado di prendere è quella di non prenderne nessuna, manco quella che è richiesta ogni sette anni a un Parlamento degno di questo nome.

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Rabbia 5s su Conte: si muove Di Maio

mercoledì, Gennaio 26th, 2022

Domenico Di Sanzo

Dal vertice di centrosinistra arriva un no felpato ai nomi proposti dal centrodestra. E alla fine della giornata resta il dato politico all’interno del M5s. Dopo l’incontro tra Matteo Salvini e Giuseppe Conte di lunedì in cui si sarebbe discusso della candidatura dell’ex ministro degli Esteri Franco Frattini, sono venute a galla le divisioni. Fratture che si è tentato di tacitare nelle ultime settimane, diventate però palesi di fronte all’attivismo trasversale dell’ex premier. Luigi Di Maio, Beppe Grillo e Roberto Fico lavorano sottotraccia per Draghi al Quirinale, Conte sembra deciso a blindare il presidente del Consiglio a Palazzo Chigi, molti senatori continuano a spingere per un bis di Mattarella. Ieri il presidente uscente ha ottenuto 39 preferenze e «molti di quei voti sono nostri», ragiona con l’Adnkronos un senatore del M5S: «E domani (oggi, ndr) saranno certamente di più».

In mattinata le chat grilline traboccano di rabbia nei confronti del leader. «Che fine che abbiamo fatto a votare Frattini o la Casellati», scrive un parlamentare. La presidente del Senato non entra nel terzetto del centrodestra, ma potrebbe entrare in gioco alla quarta votazione. «Anche qualcuno che è contianissimo la Casellati non la voterebbe mai», dice una deputata del M5s. Emerge che nessun nome di centrodestra è in grado di mettere d’accordo la maggioranza dei grandi elettori pentastellati. «Qualcuno dei nostri non sa nemmeno chi è Frattini», scherza un eletto. L’impressione è che Conte sia un capo che si muove senza mandato, troppi deputati e senatori non rispondono a lui. Dall’area che fa capo a Di Maio si invita a pazientare, in attesa che la soluzione Draghi arrivi per inerzia. Il passaggio al Colle dell’ex capo della Bce – dalle parti di Grillo e dell’ex capo politico – è considerato quasi un esito ineluttabile. Perciò il ministro degli Esteri è preoccupato che alla fine dei giochi il M5s risulti marginale. Il ragionamento di tanti dimaiani, ma non solo, è che dopo un ping pong di nomi si troverà un accordo per spedire Draghi al Quirinale. Nei gruppi c’è la sensazione che Conte sia «caduto nel bluff di Salvini». «Non si può mettere a rischio l’alleanza con il Pd» è il refrain di deputati e senatori. Nella variegata geografia del M5s c’è anche chi pensa che Conte stia alzando la posta su Draghi per avere un posto per sé in un nuovo governo.

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Ucraina, la frenata tedesca: Berlino rallenta sulle sanzioni e non rinuncia al gas

mercoledì, Gennaio 26th, 2022

Uski Audino

La Germania frena, punta i piedi, recalcitra all’idea di un conflitto militare con la Russia alle porte di casa. Finge di ignorare il tintinnar di sciabole e ripete il suo mantra: «Se ci sarà una violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina i costi saranno molto alti». Nel frattempo però, esportare “armi letali” rimane fuori discussione. E per uscire dall’isolamento in cui rischia di finire, dopo che gli alleati europei hanno fatto a gara per offrire sostegno all’Ucraina in termini di sistemi d’arma, Berlino cerca e trova la sponda dell’alleato francese. Il presidente Emmanuel Macron ieri è arrivato nella capitale tedesca per ribadire che sull’Ucraina tra i due Paesi c’è «unità»: «entrambi lavoriamo ad una de-escalation delle tensioni», per un dialogo con Mosca a tutti i livelli e formati possibili. Venerdì si sentirà con Vladimir Putin, mentre stamattina si comincerà a Parigi con il primo incontro del Formato Normandia a livello di consiglieri diplomatici. È la prima volta dal 2019 che tornano a sedersi allo stesso tavolo rappresentanti di Russia e Ucraina, con la mediazione di Francia e Germania. L’intenzione è rimettere in moto un discorso interrotto e provare «a imprimere una dinamica positiva» su temi concreti, ha spiegato Macron in conferenza stampa.

Ma le critiche al governo di Berlino rimbalzano sulla stampa tedesca, soprattutto sulla questione dell’export di armi. Tre giorni fa il ministro degli Esteri di Kiev Dmytro Kuleba si è detto «deluso dal continuo rifiuto della Germania di autorizzare la fornitura di armi difensive», in un’intervista a Welt, e il giorno dopo su Bild il sindaco della capitale ucraina, Vitali Klitschko, ha accusato Berlino di «tradimento» e di «omissione» di soccorso. Sorvolando sul fatto che le critiche maggiori trovano spazio sui quotidiani del gruppo Axel-Springer, come Welt e Bild, che non mancano occasione per rintuzzare il governo a guida socialdemocratica, è vero che la pressione su Berlino aumenta di giorno in giorno da parte degli Stati vicini. Come nella vicenda dei 9 obici di tipo sovietico D-30 dell’ex esercito della Ddr che l’Estonia vorrebbe dare all’Ucraina ma non può. Per farlo servirebbe l’autorizzazione tedesca. Grande imbarazzo a Berlino hanno suscitato poi le dichiarazioni nel fine settimana del vice-ammiraglio della marina militare Kay-Achim Schoenbach. Durante un incontro pubblico in India l’alto ufficiale ha definito il timore di un’aggressione russa in Ucraina un «nonsense», «la Crimea è perduta e non ritornerà mai», l’Europa «ha bisogno della Russia contro la Cina», e Vladimir Putin vuole solo «essere trattato con rispetto». Di fronte allo tsunami suscitato da tanta naiveté, il militare è stato costretto alle dimissioni, accettate a tempo di record dalla titolare della Difesa Christine Lambrecht.

La solidarietà offerta da Berlino all’Ucraina è di tipo diverso, ha ricordato ieri Scholz. Si concretizza nell’assicurare al Paese che rimanga terra di transito del gas russo, garantendo il prolungamento dei suoi contratti, si attua nei rapporti economici e nelle prospettive future di collaborazione su rinnovabili ed energia a idrogeno e sul piano militare, nel sostenere i costi di un ospedale da campo.

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Draghi nelle mani dei partiti: l’ultima speranza per la scalata al Quirinale è Letta

mercoledì, Gennaio 26th, 2022

Ilario Lombardo

ROMA. Ora Mario Draghi è davvero nelle mani dei partiti. Un rompicapo, quello in cui si è infilata l’inedita candidatura del presidente del Consiglio, che non è risolvibile in qualche ora. E lo spiega bene il clima che si respira attorno a lui a Palazzo Chigi. Lo strazio dell’attesa si mescola alla consapevolezza che esistono determinati passaggi da consumare prima di capire se sia davvero finita o se, al contrario, il nome di Draghi spunterà al momento giusto, domani, forse dopodomani, o ancora più avanti.

Molto dipenderà dal vertice comune tra i leader del centrodestra e i giallorossi. Matteo Salvini non ha ancora dato una risposta ufficiale ad Enrico Letta. Era stato il segretario del Pd a preannunciare al presidente del Consiglio, al telefono, che si sarebbe fatto promotore della proposta di far sedere allo stesso tavolo Salvini, Giuseppe Conte del M5S, Antonio Tajani di Forza Italia. Un appuntamento che in qualche modo Draghi si era augurato avvenisse presto. Adesso la speranza dell’ex banchiere è che i leader si chiudano in una stanza e buttino via la chiave fino a quando non troveranno una soluzione per uscire dal pantano parlamentare. Proprio per questo oggi sarà un giorno importante per il capo del governo: perché dall’esito dei colloqui tra i leader si capirà quanto la strada verso il Colle sia agevole. Oppure, se la frana dei veti sia impossibile da sgomberare.

La sponda di Letta è essenziale per Draghi. Come lo è tenere in vita un dialogo con Matteo Salvini. Ha richiamato anche lui ieri, il premier, in una giornata passata molto al telefono. In fondo, a Palazzo Chigi il leader leghista non è quasi mai citato come l’oppositore più duro alla prospettiva di un trasloco del premier al Colle. È stato invece notato un irrigidimento in Conte. I toni, duri, di ieri, e quel riferimento al «timoniere» che non può lasciare la nave hanno aperto grandi interrogativi sul M5S. Gli stessi che agitano Draghi su cosa voglia fare Silvio Berlusconi, ancora ricoverato al San Raffaele di Milano. Da Palazzo Chigi avrebbero provato a telefonargli in ospedale, ma senza successo. Al momento ci sarebbero solo contatti tra i collaboratori, anche per sondare quali siano i veri motivi dello sbarramento azzurro alla candidatura al Quirinale del premier.

A questo punto, a Draghi sembra chiaro che solo un patto tra Pd e Lega possa riaprire una trattativa vera sul governo, la vera posta in palio che sta dietro le tante manovre che complicano la partita del Colle. I margini si stanno stringendo. E più i giorni passano, più la fotografia dell’Italia risulta ammaccata. È l’altro grande timore di Draghi. Il motivo per il quale lo hanno sentito pronunciare: «L’importante è che facciano presto». Presto, perché si attendono mesi duri, e se un governo andrà rifondato la crisi non potrà trascinarsi troppo a lungo. Se è vero che fonti vicine al premier hanno assicurato a Fratelli d’Italia che la Commissione europea avrebbe pronta con una deroga per permettere all’Italia di far slittare, ma di poco, le scadenze sul piano nazionale di ripresa, è anche vero che ieri il Fondo monetario internazionale ha tagliato le stime di crescita dell’Italia e Bruxelles ha manifestato apertamente una preoccupazione per lo stallo istituzionale. Due fatti che non sono passati inosservati ai vertici del governo e che per Draghi sono segnali che non vanno sottovalutati.

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Quirinale, il grande sfascio di Montecitorio e il gioco al massacro dei leader

mercoledì, Gennaio 26th, 2022

Annalisa Cuzzocrea

A dimostrazione che tutto è ancora teatro, mentre Enrico Letta sta parlando ai cronisti – davanti al corridoio sospeso che collega i due palazzi della Camera – passa Giorgia Meloni e lui scandisce forte: «Quelli di centrodestra sono nomi sicuramente di qualità e li valuteremo senza spirito pregiudiziale». La leader di Fratelli d’Italia risponde mimando un applauso: «Bravo, bravo!». E insomma, si è fermi alla commedia. Perché il segretario pd sa che i nomi entrati nella terna sono quelli da bruciare, come lo sa chi li ha proposti. E perché la sua mossa serve a sminare quella che per ripicca hanno fatto gli alleati 5 stelle: «Nessuna pregiudiziale sui nomi di centrodestra», hanno detto Paola Taverna e Giuseppe Conte ancor prima di ascoltarli, ancor prima di consultarsi. Perché «se il Pd non ci segue quando abbiamo un problema, come quello con il premier – spiega un dirigente grillino – allora perché dovremmo seguirlo noi? Abbiamo detto che Draghi deve restare al governo, Letta non può continuare a lavorare per lui come se nulla fosse».

C’è un pericolo, quando i bambini giocano a moscacieca. Che qualcuno perda davvero l’orientamento e finisca per farsi male. In questo caso, a essere bendato è l’intero Parlamento. O meglio, tutti e 1009 i grandi elettori (forse, ma solo forse, esclusi i leader) che non stanno capendo nulla del gioco di rimbalzi tra destra e sinistra e non a caso invocano sempre più forte, seppur nei capannelli a bassa voce, il ritorno di Sergio Mattarella. Non solo da Palermo.

Alcuni 5 stelle fanno sapere che sono stati loro a votarlo, contraddicendo l’indicazione della scheda bianca, per dare un segnale. Ci sono parlamentari pd pronti a un appello. Letta, Conte, Speranza, Salvini, Tajani, Meloni pretendono sia tutto sotto controllo, ma così non è. La paura dello sfascio, ieri, era palpabile: soprattutto quando si è visto che nella terna del centrodestra non sono entrati né Maria Elisabetta Casellati né Franco Frattini (già silurato al mattino da un inedito asse Letta-Renzi, preoccupati da presunte posizioni filorusse nel momento della crisi in Ucraina). C’è stato, a un certo punto, il timore della spallata. Perché Salvini e Meloni non dovrebbero provare davvero a eleggere una presidente di centrodestra come Casellati, magari aiutati da Italia Viva e da un drappello di 5 stelle preoccupati dal voto (e inconsapevoli del fatto che sarebbe a quel punto che il governo cadrebbe di certo)? Gli avvicinamenti ai peones M5S, da parte dei leghisti, ci sono già stati. E anche se ai leader sentiti ancora al telefono Salvini avrebbe fatto capire che non è lì che vuole davvero arrivare, entra in gioco la seconda domanda: davvero Letta e Conte possono fidarsi del segretario della Lega? Che ancora ieri criticava l’operato del ministero dell’Interno e chiedeva apertamente quanto meno un rimpasto di governo?

«La partita ora è tra Draghi e Salvini», dice un ministro che – tra i pochi – crede ancora al trasferimento del presidente del Consiglio al Quirinale. Con un ragionamento contorto: Draghi avrebbe chiarito nel primo colloquio avuto in questi giorni con il segretario leghista che le caselle che andrebbero al suo partito in caso si cambiasse governo sarebbero sempre le stesse. Adesso potrebbe aprire, non dargli gli Interni (il Pd non potrebbe accettare), ma aprire. Favorendo il distacco della Lega da Fratelli d’Italia.

Ipotesi di scuola perché, appunto, sono quasi tutti bendati. A questo portano i colloqui separati: a versioni dei fatti diverse e contrapposte che forse solo il vertice tra tutti i leader di oggi potrebbe superare (supposto si faccia davvero). A timori incontrollati che prendono le vie dei messaggi whatsApp nelle chat dem o in quelle grilline: «Lavorano su Casellati per fare Zanda presidente del Senato e spaccarci!». Oppure: «No, alla guida di Palazzo Madama andrebbe Renzi, emigriamo!». Quel che è certo è che dopo la riunione del pomeriggio tra Conte, Letta, Speranza e i rispettivi capigruppo, il presidente M5S e il capodelegazione al governo Patuanelli sono usciti dicendo a chiunque li fermasse: «Draghi non c’è più. La sua candidatura è saltata e questa è una nostra vittoria, così come lo è aver rimosso l’ostacolo Berlusconi».

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Matteo Berrettini agli Australian Open: gli insulti, la risposta, il dito all’orecchio. «Non sento»

mercoledì, Gennaio 26th, 2022

di Marco Calabresi

Dopo la vittoria su Monfils, durante le interviste sul campo, un tifoso dalle tribune insulta l’italiano che non si scompone: «Non sono veri tifosi di tennis. Ma il rispetto è qualcosa che bisognerebbe avere». Dopo il punto decisivo Matteo aveva esultato portandosi il dito all’orecchio: il pubblico era schierato in maggioranza col francese

C’è un momento in cui l’intervista post partita di Matteo Berrettini sul campo della Rod Laver Arena — dopo la straordinaria vittoria in cinque set su Monfils — si interrompe. Un tifoso — ma sarebbe meglio dire un imbecille — urla «Fuck You» nei confronti di Matteo, non sappiamo quanto influenzato dalla birra che giornalmente sgorga dai punti ristoro di Melbourne Park. Matteo, dopo quasi quattro ore di tennis e una vittoria esaltante, avrebbe potuto dire qualsiasi cosa: invece ha risposto da signore.

La risposta di Matteo

«Qui è pieno di gente e mi piace — dice mantenendo la calma davanti al microfono in mezzo al campo —. Alcuni di loro non sono veri appassionati di tennis, ma non si possono controllare tutti. Il rispetto, però, è qualcosa che bisognerebbe avere, ma alla fine va bene così, ho vinto e sono felice».

Il pubblico per Monfils

Durante il match, il pubblico si era schierato in maggioranza con Monfils, che oltre alle qualità tennistiche ha anche le capacità «teatrali» per portare la gente neutrale dalla sua parte. Ci era riuscito anche stavolta, anche a costo di scatenare qualcuno oltre misura. Il giudice di sedia, nel quinto set e con il francese al servizio, era dovuto intervenire oltre il classico «Seduti per favore» o «I giocatori sono pronti». «If you don’t watch, please leave» («Se non vuoi vedere il match, per favore esci»). Gli steward sono intervenuti e si sono seduti nella fila sopra rispetto allo spettatore-disturbatore.

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False partenze e interessi del Paese

mercoledì, Gennaio 26th, 2022

di Antonio Polito

I mille e passa grandi elettori tanto «grandi» non sono sembrati, visto che si limitano a sfilare davanti all’urna senza votare: non hanno l’aria di aver capito che cosa il Paese si aspetta dalle sue istituzioni

Dopo le bianche, le rose. Anzi, la rosa, visto che il centrosinistra non ha voluto giocare la sua. Con tutto il rispetto per il valore dei nomi che le compongono, si vede che le rose servono solo a preservare chi non vi è stato inserito. Ma intanto certificano il singolare ritardo con cui, a partita già cominciata, si comunica la formazione. Rosa contro rosa sarebbe stata una variabile del muro contro muro, solo più gentile, come dimostra il «fair play» con cui Letta e Conte hanno accolto quella presentata da Salvini e Meloni. Nel frattempo, però, ieri è stata di nuovo la fiera della scheda bianca, un’esplicita ammissione di debolezza delle forze politiche, che non hanno neanche l’ardire di sostenere a viso aperto un candidato di bandiera, nella paura che venga impallinato anche quello. Vedremo se oggi almeno il centrodestra si misurerà finalmente col voto segreto, per capire quanto vale in termini numerici. Certo è che finora i mille e passa grandi elettori tanto «grandi» non sono sembrati, visto che si limitano a sfilare davanti all’urna senza votare : non hanno l’aria di aver capito che cosa il Paese si aspetta dalle sue istituzioni. Sfogliano pigramente la margherita mentre i capi trattano febbrilmente su qualcosa che resta sostanzialmente oscuro agli italiani. Stanno cercando un capo dello Stato di tutti? Oppure stanno tentando di eleggerne uno di parte a scapito dell’altra? Oppure ancora stanno già pensando alla formazione di un nuovo governo dopo l’elezione del presidente, per stabilire in anticipo chi lo guiderà e da chi sarà composto?

Emblematico di questa ambiguità è il loro rapporto con Draghi. Di che discutono con lui nei vari incontri? In tv ricorre la locuzione «hanno chiesto garanzie». Su che? La materia del futuro governo è per definizione indisponibile per il premier in carica. Se il suo esecutivo cadesse, per una ragione o per un’altra, toccherebbe alle forze parlamentari indicare al nuovo capo dello Stato il nome del successore a Palazzo Chigi e la composizione di una compagine governativa che abbia la maggioranza per portare a termine la legislatura. Almeno finché siamo in quella Repubblica parlamentare che i partiti stessi dicono di voler difendere contro ogni tentazione presidenzialista o semi. Ieri la Lega ha ufficialmente smentito che nell’incontro di Salvini con Draghi di questo si sia trattato. Speriamo che non sia solo una precisazione, ma anche un impegno. Draghi non può dire ciò che non può dire; e per indole è portato a non dire anche quello che potrebbe dire. Ci si lamenta che risponda sempre con un «mettetevi d’accordo tra di voi». Ma in realtà è proprio ciò che dovrebbe accadere e non sta accadendo: le forze politiche non riescono a mettersi d’accordo, e non solo tra centrodestra e centrosinistra, qualsiasi cosa questi termini oggi significhino; ma nemmeno tra alleati, e nemmeno all’interno degli stessi partiti. Se questo stato di cose si protrarrà e porterà alla rottura della maggioranza che oggi regge il governo, non solo ne verrà fuori un capo dello Stato eletto solo da una parte, ma anche una crisi di governo e il rischio di elezioni anticipate, con tutte le conseguenze che ciò comporta per la gestione dell’emergenza sanitaria e della ripresa economica. Tutto il contrario di quello che si aspetta un Paese che ha fatto grandi sacrifici in questi due anni, con forte senso di responsabilità e del dovere civico, e che ora merita di essere ripagato della stessa moneta per non mettere a repentaglio i successi ottenuti.

Si dirà: ma è normale che al secondo scrutinio si sia ancora in stallo. È vero. C’è ancora tempo. Ma non tanto. Dalla quarta votazione, prevista per domani, non si potrà più fare melina. E se ci si arriva per tentare la «soluzione riffa», e cioè un’elezione a stretta maggioranza in un Parlamento disossato e scarnificato dalla crisi dei partiti e delle vocazioni, allora si può entrare davvero in un tunnel pericoloso. In tutta la seconda Repubblica non si sono mai superate le Colonne d’Ercole della sesta votazione.

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Quirinale, la cautela di Draghi di fronte a scenari che cambiano in fretta: posso solo assistere

mercoledì, Gennaio 26th, 2022

di Monica Guerzoni

Fermo, apparentemente immobile. Impressionato dalla velocità con cui lo scenario cambia e convinto di non avere più alcun margine di manovra. «Non posso fare nulla, posso solo assistere», è lo stato d’animo con cui Mario Draghi aspetta la terza giornata delle elezioni per il Quirinale, la prima in cui i rispettivi blocchi potrebbero misurare la loro forza numerica. «La strada è irta d’ostacoli, ma ancora lunga», confida nella carta Draghi il ministro Giancarlo Giorgetti , che per primo si è speso in favore del grande «trasloco». Sempre a Montecitorio, alle cinque della sera, il responsabile della Difesa Lorenzo Guerini viene intercettato mentre parla a quattr’occhi (e sottovoce) con Riccardo Fraccaro: «Su Casini ci potreste arrivare voi?». Lo stesso Fraccaro che era stato accusato di aver offerto a Salvini un pacchetto di voti per Tremonti…

Sondaggi come questi, veti, manovre e giravolte spiegano perché Draghi abbia frenato rispetto all’accelerazione di lunedì, ritenuta un mezzo azzardo dalle segreterie politiche. Il premier ieri ha scelto un profilo più cauto, evitando di rendere noti telefonate e incontri. A mezzogiorno si è assentato per due ore, ma era solo andato a pranzo a casa. E se a Palazzo Chigi le luci sono rimaste accese fino a tardi è perché il presidente è stato al lavoro sui dossier, dai 468 morti di Covid alla crisi Ucraina-Russia: «L’azione del governo non può fermarsi».

A sentire grandi elettori e ministri intabarrati nei giacconi in un Transatlantico glaciale, le quotazioni dell’ex presidente della Bce «sono in calo». Al punto che nel Pd si diffonde il timore che Draghi possa tirarsi fuori. Paura infondata, assicurano i collaboratori del premier. Ma l’umore in piazza Colonna non è alle stelle. «È abbastanza chiusa — commenta il dem Matteo Orfini Conte è stato durissimo». Il leader del M5S l’ha giurata a Draghi e il premier, che pure comprende il suo disagio, non si aspettava tanta violenza verbale da parte del predecessore. Sentir dire a Conte che il suo ruolo è difendere l’interesse del Paese e non quello di Draghi lo ha impressionato, almeno quanto la drastica nota di Berlusconi il giorno del ritiro.

E non basta, perché anche a Palazzo Chigi arrivano le voci di chi pensa che «Salvini punta al jackpot, vuole far saltare il banco». Eppure il canale di comunicazione non si è chiuso, segno che dietro le rose di nomi la trattativa continua. «Ci siamo risentiti con Draghi», conferma il segretario leghista e smentisce di aver contrattato «poltrone e ministeri». Eppure, nel confronto che Chigi ha aperto lunedì con i leader di maggioranza la questione del «governo di dopo» è centrale. Salvini avrebbe chiesto un rimpasto corposo e la casella del Viminale e Draghi, concesso che «il nome del premier lo decidono i partiti», ha illustrato una ricetta diversa. Un governo con lo stesso impianto e le stesse caselle e, per ogni forza politica, la libertà di cambiarsi i suoi ministri. La divergenza di posizioni ha complicato il dialogo e fatto risalire le quotazioni di Casini e Amato, due nomi su cui anche il Pd sta seriamente lavorando.

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