Si fa sempre più intricata la vicenda dello stupro di Capodanno a Roma. Al centro delle indagini il festino in via del Podere Fiume a Primavalle, in cui una ragazza minorenne, figlia di un diplomatico spagnolo, ha denunciato una violenza sessuale di gruppo. Tra i testimoni ascoltati dai magistrati ci sarebbe anche – scrive Repubblica – Simone Maria Ceresani, nipote dell’ex presidente del Consiglio Ciriaco De Mita. Attualmente sono cinque gli indagati, tre i ragazzi sottoposti a misure cautelari. Ceresani è figlio di Cristiano e di Simona De Mita, figlia dell’ex premier. Il padre è stato capo di gabinetto del leghista Lorenzo Fontana. Fonti legali, comunque, smentiscono ogni suo coinvolgimento nella vicenda. Ceresani – secondo l’edizione romana di Repubblica – avrebbe raccontato che qualcuno gli ha puntato una pistola contro durante la festa. Anche se la circostanza sarebbe stata smentita dall’interessato, che ha detto di non aver avuto armi con sé quella sera. Stando ad altre testimonianze riportate dal quotidiano diretto da Maurizio Molinari, alla festa Ceresani avrebbe portato parte degli stupefacenti consumati durante la serata. Nelle carte dell’inchiesta si legge che lui avrebbe ammesso di aver “fatto uso di cocaina”, ma solo dopo averla chiesta a uno degli altri ragazzi alla festa.
Per evitare nuove truffe tramite il Superbonus, il governo ha ipotizzato di limitare la cessione dei crediti: si potrà fare soltanto una volta.
Ecco l’ipotesi
È
ancora soltanto un’ipotesi ma i costruttori sono molto preoccupati:
l’Ance e le organizzazioni artigiane gridano in coro “basta modifiche”.
La bozza del decreto Sostegni, infatti, contiene la possibilità di
modificare il capitolo che riguarda le frodi sui bonus edilizi,
Superbonus compreso. I crediti che, al 7 febbraio, saranno già oggetto
di cessione potranno procedere con un’altra. Come scrive l’Ansa, i contratti che violeranno le nuove norme saranno considerati nulli.
“Basta con i cambiamenti”
“L’ennesima
modifica alle misure in corso, con il limite alla cessione dei crediti,
rischia di bloccare le imprese e penalizzare le famiglie più bisognose.
Non è così che si fermano le frodi”, commentano dall’Ance. “Basta
con i continui cambiamenti. L’incertezza delle regole, anche con
provvedimenti retroattivi, scoraggia il mercato e le imprese più serie”, afferma il presidente, Gabriele Buia. “Giusto l’obiettivo di contrastare le frodi”, sottolinea Buia, “ma
non si possono colpire continuamente migliaia di cittadini e di imprese
corrette impegnate in interventi di riqualificazione energetica e
sismica, che ora dovranno necessariamente rivedere le condizioni
contrattuali con i proprietari, generando migliaia di contenziosi e un
blocco del mercato”.
“Incertezza sul mercato”
Dello stesso parere anche Marco Granelli, presidente di Confartigianato, il quale sottolinea infatti come “le
continue modifiche creano incertezza sul mercato con l’effetto di
bloccare le operazioni, anche quelle che non presentano profili
patologici”. Limitare ad una sola cessione il trasferimento dei
crediti, potrebbe provocare un rallentamento delle operazioni di
acquisto anche da parte degli operatori finanziari ormai prossimi “al raggiungimento della loro capacità di ‘assorbimentò in compensazione dei crediti stessi”.
Come cambia il Superbonus 2022
Come ci siamo occupati sul Giornale.it, l’agevolazione è stata prorogata per altri due anni e sarà in vigore fino al 2023: dopodiché, come riporta il Corriere,
nel 2024 l’aliquota scenderà al 70% e nel 2025 al 65%. Quel che più
importa, comunque, riguarda l’agevolazione per chi decide di eseguire
coibentazioni (cappotti termici), rinnovare gli impianti di
riscaldamento e intervenire sulle parti strutturali. In tutti questi
casi, si può tentare utilizzare il Superbonus per il miglioramento
energetico o antisismico prorogato al 110% fino alla fine del 2023.
Da queste colonne – i lettori lo sanno bene – abbiamo sempre difeso i
vaccini e continueremo a farlo senza alcuna esitazione. E abbiamo
sostenuto che il green pass potesse essere il volano per convincere i
cittadini più restii a sottoporsi alla vaccinazione, passaggio
fondamentale per portare il Paese fuori dall’incubo della pandemia. E i
numeri delle terapie intensive dimostrano, a chiunque non sia stolto o
in malafede, quanto sia stato importante il lavoro di Figliuolo. Ma
l’ultimo dpcm (e speriamo di liberarci e dimenticarci presto di questo
orribile acronimo) raggiunge soglie di confusione al limite del delirio.
E sappiamo bene che complicare le regole è il miglior modo per renderle
inapplicabili e per aprire la strada a quei furbi che nelle giungle
legislative piantano le tende delle loro illegalità. Dunque, dal primo
febbraio occorrerà il green pass per entrare nella maggior parte dei
negozi e degli esercizi commerciali. Ci sono alcune eccezioni: tra le
quali i supermercati, le farmacie, gli ottici e i negozi che vendono il
cibo per gli animali. Pare scontato (ma non lo è) precisare che si potrà
entrare senza passaporto verde anche negli uffici di polizia e in
quelli giudiziari per «attività istituzionali indifferibili». Volevamo
anche vedere che una vecchietta scippata non potesse andare in Questura a
denunciare il ladro perché non ha il green pass e che il ladro stesso,
per il medesimo motivo, non potesse essere convocato per le indagini.
Saremmo in quella terra di confine in cui la legislazione tracima nella
psichiatria. Ma, badate bene, siamo a un passo. Perché senza green pass
base non si potrà andare alle poste per ritirare la pensione. Come se
non fosse un «servizio essenziale». Quindi, facciamo un caso estremo, un
pensionato senza pass può andare a fare la spesa al supermercato e
comprare quello che gli pare, ma non si sa con quale denaro,
probabilmente con i risparmi di una vita, sicuramente non con i soldi
della pensione che non ha potuto ritirare alle poste. Continuando
sull’orlo del paradosso: lo Stato dà ai pensionati la possibilità di
spendere soldi che non hanno più il diritto di ritirare.
Le sfilate del Carnevale di Rio de Janeiro e di San
Paolo in Brasile sono state rinviate a causa della pandemia di Covid. Le
autorità cercano di salvare il tradizionale carnevale, annullato a
causa dei contagi lo scorso anno. Le sfilate dei carri previste dal 25
febbraio al primo marzo non saranno cancellate, ma solo rinviate al 21
aprile.
Rio de Janeiro e San Paolo, le due città più grandi del Brasile,
avevano già annunciato la sospensione quest’anno del cosiddetto
“carnevale di ru’a”, animato da comparse e bande che sfilano
gratuitamente davanti a milioni di persone per le strade. Ora hanno
scelto posticipare i festeggiamenti a un periodo in cui saranno
«possibili migliori condizioni sanitari». Ora, si legge in un
comunicato, «i comuni di Rio e di San Paolo hanno deciso di rinviare le
sfilate delle scuole di samba» a causa «della situazione attuale della
pandemia in Brasile e della necessità di preservare vite». Secondo le
stime, nel 2020 ai festeggiamenti, che richiamano anche turisti europei e
nordamericani, parteciparono almeno 7 milioni di persone. Lo scorso
anno il Sambodromo, anziché ospitare carri e sfilate, fu utilizzato come
centro vaccinazioni.
Il Brasile, uno dei Paesi più colpiti dalla pandemia di Covid-19, ha
registrato 166.539 nuovi contagi da coronavirus nelle ultime 24 ore.
Numero che porta il numero medio di casi nell’ultima settimana al record
di 117.797 al giorno. Si tratta della media giornaliera di contagi da
Covid più alta dall’inizio della pandemia, 38 volte superiore a quella
registrata meno di un mese fa, lo scorso 23 dicembre, quando, prima
dell’arrivo della variante Omicron, il Brasile aveva visto i contagi
scendere ai minimi da 20 mesi.
Il virus dilaga nel Pacifico, lockdown a Samoa e Kiribati Le isole di Kiribati e Samoa sono entrate in lockdown oggi dopo una impennata di contagi da Covid dovuta ad arrivi dall’estero che hanno interrotto due anni quasi indenni dalla pandemia. Fino all’inizio di questo mese, Kiribati non aveva segnalato neanche un solo caso di Covid, mentre Samoa ne aveva registrati solo due dall’inizio della pandemia, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità. Ora le autorità di entrambi i Paesi sono state costrette a mettere in atto una serie di misure restrittive dopo che decine di passeggeri su un volo per Kiribati dalle Fiji, i primi ad arrivare nella nazione dalla riapertura dei confini, sono risultati positivi al virus. E a Samoa le restrizioni sono scattate dopo che i casi legati a un volo di rimpatrio da Brisbane sono saliti a 15, ha detto il primo ministro Fiame Naomi Mata’afa. Le restrizioni aumenteranno a partire da domani e tutti i contagiati, ritenuti affetti dalla variante Omicron, sono stati messi in quarantena, ha aggiunto.
“Quirinal game”, nel mercato del lavoro italiano si aggira un
pericoloso spettro che si chiama inflazione e che quasi nessuno osa
menzionare. L’Istat ha da poco certificato che a dicembre 2021 su base
annuale (quindi rispetto al dicembre 2020) i prezzi sono aumentati di
quasi il quattro per cento, un aumento che in Italia non si registrava
da circa 25 anni, addirittura prima dell’introduzione dell’euro.
L’aumento generalizzato dei prezzi- trainato da un’esplosione dei
prodotti energetici – colpisce in prima battuta imprese e consumatori
attraverso il caro bollette. Non a caso il governo sta preparando un
provvedimento fiscale straordinario di due o tre miliardi per
alleggerire le famiglie dagli effetti della stangata energetica. Se però
l’aumento dei prezzi continuerà nei prossimi mesi, l’aumento
generalizzato dei prezzi si estenderà a tutto il mercato del lavoro.
Il meccanismo e il problema che affronteremo sono semplici da
descrivere mentre sono terribilmente difficili da risolvere. Per quel
che riguarda le imprese, nel breve periodo l’aumento dei prezzi
energetici si trasforma in un aumento dei costi di produzione e in una
riduzione dei margini di profitto. Tuttavia, le imprese alla lunga hanno
anche la possibilità di scaricare parte dell’aumento dei costi
sull’aumento dei prezzi. Ovviamente l’aumento dei prezzi dei prodotti
rischia di diminuire la domanda, ma rimane un meccanismo di
aggiustamento disponibile. Nel caso dei lavoratori, invece, la stessa
possibilità di auto-difesa non esiste. Per almeno 20 milioni di
lavoratori italiani, l’aumento dei prezzi nel medio periodo finirà
inevitabilmente per ridurre il potere d’acquisto di salari e stipendi.
Per un dato contratto di lavoro, il lavoratore non ha infatti
possibilità di chiedere alla propria impresa un risarcimento per il
fatto che il potere d’acquisto del salario pattuito è stato eroso dal
caro prezzi. Il silenzio dei sindacati su questi temi fa abbastanza
rumore. E’ probabilmente un misto di silenzio e imbarazzo legati alla
storia economica del nostro Paese.
Negli anni Settanta dopo le crisi petrolifere, in Italia fu introdotto un aggiustamento automatico dei salari ai prezzi che prese il nome di scala mobile. La storia ci insegna che il rischio di quell’aggiustamento automatico è la spirale “prezzi salari”. L’aumento dei salari necessario a restituire il potere d’acquisto dei lavoratori finisce per spingere le imprese ad aumentare nuovamente i prezzi, generando ulteriore inflazione e creando una rincorsa perversa tra prezzi e salari. Invece che controllare l’inflazione, l’indicizzazione finirebbe per sostenerla. Scartando quindi un meccanismo automatico, dobbiamo comunque porci il problema di come difendere i lavoratori da un’inflazione che – lo scongiuriamo tutti – potrebbe rimanere con noi nel medio periodo.
La corsa al Quirinale assomiglia ogni giorno di più a House of cards,
la celebre serie tv sugli intrighi alla Casa Bianca, ma in salsa
romana. L’ultima avvincente puntata la offre il Movimento 5 stelle con
l’ex ministro e sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo
Fraccaro che, come ha raccontato ieri La Stampa, avrebbe offerto a
Matteo Salvini un pacchetto di voti di parlamentari per sostenere Giulio
Tremonti. Non voti qualsiasi, ma quelli delle due correnti interne
organizzate del Movimento: Parole guerriere di Dalila Nesci e Italia
2050 di Carlo Sibilia.
Il leader della Lega lo ha raccontato a Giuseppe Conte: un modo per
apparire leale, da una parte. Ma anche per mostrargli che non ha il
controllo dei gruppi parlamentari. E per quanto ora i due sottosegretari
grillini si lamentino di essere stati tirati in ballo a loro insaputa e
smentiscano le trame segrete, molti alla Camera non hanno fiducia in
loro. «Per il Quirinale sosterrò il candidato espresso dal M5s, siamo
compatti intorno al presidente Conte e alla sua linea», spiega Nesci.
«Per me esistono solo le trattative portate avanti dal Movimento e da
Conte», aggiunge Sibilia. Quanto a Fraccaro, non nega il vertice, ma
spiega che la conversazione avrebbe riguardato «alcune ipotesi rispetto
alle quali ho consigliato a Salvini di aprire un dialogo con Conte». Poi
però aggiunge, dimostrando poco rispetto per le possibili decisioni del
presidente M5S: «Draghi al Quirinale non lo voterò mai».
Salvini prova ad andargli incontro: «Con Fraccaro non ho mai parlato
di numeri, voti o cose simili». Eppure, secondo più fonti, a Conte
avrebbe riferito altro. Tanto che già giovedì sera, dopo il loro
incontro, all’assemblea dei deputati, il capogruppo M5S Davide Crippa
era intervenuto svelando il peccato, ma non il peccatore: «Sono
arrabbiato per l’iniziativa di alcuni colleghi che senza mandato hanno
preso contatti con altri».
ROMA. È sul fattore tempo che Mario Draghi vorrebbe giocarsi
le proprie chance per il Quirinale e, contemporaneamente, costruire il
percorso che porterà i partiti a definire il governo che sarà. La
scommessa sarebbe stata la prima votazione. Lunedì. Cioè tra poco più di
48 ore. Un traguardo ideale che a Palazzo Chigi sognavano di tagliare
come prova dell’unità del Parlamento attorno al nome del premier. Ma il
rischio di far finire l’ex banchiere incenerito dai franchi tiratori è
troppo alto: faticare a raggiungere i 673 grandi elettori vorrebbe dire
mettere la parola fine anche al governo. Tanto più che per chiudere
presto sul nome di Draghi serve il via libera del centrodestra. E,
ancora prima, quello di Silvio Berlusconi. L’attesa di cosa farà e cosa
dirà il presidente di Fi rende il clima a Palazzo Chigi un po’ meno
sereno del solito. Il fedelissimo del leader azzurro Gianni Letta ancora
ieri ha provato a convincerlo a convergere su Draghi. L’ira funesta del
presidente di FI è tutta nella categoricità sospetta con la quale il
cerchio magico fino a tarda sera bocciava l’ipotesi Draghi. Siamo nei
preamboli della tattica, nulla di preoccupante, ma potrebbe essere
abbastanza per far evaporare il progetto di elezione immediata.
Ancora manca la mano che indicherà per prima il nome dell’attuale
premier. Per questo serve qualche giorno in più. Anche solo uno,
martedì. Per far maturare le trattative, curare le ferite all’ego di
Berlusconi e convincere gli scettici, i tanti, troppi deputati e
senatori che in cambio del sì a Draghi vogliono una chiara prospettiva
di governo, che scacci l’incubo delle elezioni anticipate.
A Palazzo Chigi, però, avvertono anche un altro rischio. Quello di
andare troppo in là. Secondo le regole di prevenzione anti-Covid,
infatti, è previsto un solo voto al giorno. E più sono i giorni che
passano più è probabile che risentimento e ripensamenti riprendano a
lievitare. Bisogna chiudere entro la quarta, cioè giovedì, ragionano
nell’entourage del presidente del Consiglio, quando i numeri diverranno
più favorevoli e la maggioranza necessaria scenderà a 505 grandi
elettori. Ancora meglio, sperano, sarebbe entro la terza, mercoledì:
vorrebbe dire aver strappato simbolicamente il traguardo della scelta
più condivisa possibile dai partiti.
Draghi tace e aspetta. Ma dà segnali precisi, che i leader cercano di
interpretare. Le rassicurazioni arrivano dagli sherpa del premier, che
raccolgono i timori, propongono schemi, si mostrano attenti. Ai ministri
del Pd, come Andrea Orlando e Lorenzo Guerini, al segretario Enrico
Letta e a Luigi Di Maio, che invece ha avuto occasione di confrontarsi
con il presidente del Consiglio, è arrivata chiara l’impressione che i
ritocchi alla squadra dovrebbero essere pochi. Anche perché «servirà un
governo immediatamente operativo», spiegano gli uomini di fiducia del
premier, che dovrà pianificare i progetti sul Piano nazionale di ripresa
e resilienza che l’Europa attende entro giugno.
Si tratta di individuare l’erede di
Sergio Mattarella, e non è lavoro da tutti. Ci vuole un «cursus
honorum». Ci vuole uno standing internazionale, ci vuole prestigio e
autorevolezza. Si tratta di eleggere il successore di Mattarella senza
dare il solito spettacolo di agguati, sgambetti, tradimenti
E leggete chi volete, ma non disperdete il piccolo capitale di serietà, credibilità, fiducia in sé stessa, che questa nazione ha accumulato negli ultimi due terribili anni. Verrebbe voglia di spedire una letterina ai
1009 elettori del prossimo capo dello Stato. Perché sì, è politica, è
manovra, è potere, e non c’è niente di male, in fin dei conti il governo
della «polis» è da sempre anche questo. Ma poi, alla fine, cari grandi
elettori, dovrete innanzitutto e soprattutto scegliere chi «rappresenta
l’unità nazionale», come dice l’articolo 87 della Costituzione. E lì non c’è manovra che tenga.
Il dettato costituzionale non significa infatti soltanto che sarebbe
meglio eleggere il presidente a grande maggioranza, così che nessun
cittadino, o quasi, possa sentirsi escluso o penalizzato, e tutti
possano fidarsi. Quella frase significa anche che la donna o l’uomo
prescelti rappresenteranno di fronte al mondo l’Italia. L’Italia come è
oggi. E, per la prima volta dopo tanto tempo, l’Italia è oggi vista nel
mondo come un Paese che sta mostrando il suo valore, una «success
story», se non addirittura un esempio da seguire: quasi un prodigio per
chi da troppo tempo era considerato il «malato d’Europa».
L’asticella su cui verrà misurata la prova che attende il Parlamento è dunque posta più in alto che in passato:
bisognerà che sia al livello di quella che sta offrendo il Paese.
L’altissimo prezzo di vite umane e di dolore che abbiamo pagato quando
la falce della pandemia ci ha colpito a sorpresa non è stato invano. Ci
ha insegnato a reagire, e a muoverci velocemente. La campagna vaccinale
prosegue con la speditezza e l’efficienza che siamo abituati a invidiare
ai Paesi nordici. Così la quarta ondata, seppure micidiale, non ci ha
sommerso come la prima e la seconda, e stavolta non abbiamo chiuso
praticamente niente. Con tutte le polemiche che ha provocato, e qualche
indiscutibile bizantinismo, il green pass è di gran lunga il miglior
surrogato all’obbligo vaccinale finora sperimentato in Europa. Di
conseguenza l’economia è in crescita. Il nostro prodotto interno lordo è
aumentato nel 2021 del 6,3%, cifra record in Europa. Non è ancora una
ripresa in grado di rassicurarci sul futuro occupazionale dei nostri
figli, ma non è neanche «jobless»: nell’ultimo trimestre rilevato gli
occupati sono aumentati di più di mezzo milione rispetto all’anno
precedente.
Abbiamo finora fatto tutti i
compiti a casa necessari per aver diritto all’erogazione dei fondi
europei, e per quanto un’inflazione importata dall’aumento del costo
dell’energia penda come una spada di Damocle sulle nostre speranze,
sperare è di nuovo possibile. Sperare innanzitutto di curare le tante
piaghe sociali, le sacche crescenti di povertà, l’assottigliarsi dei
risparmi, gli effetti di troppi mesi di economia di guerra. Così
i giornalisti stranieri che affluiscono in queste ore a Roma per
l’elezione del capo dello Stato per una volta non ci chiedono come sia
possibile avviare una svolta che inverta la marcia dell’Italia, ma piuttosto come evitarla, per proseguire sulla strada intrapresa.
I partiti cercano di riguadagnare lo
spazio perso negli anni ed evitare il definitivo commissariamento della
politica: Casini come alternativa a Draghi
Un tecnico al Quirinale e un altro a Palazzo Chigi sono
una combinazione che i partiti non intendono accettare, perché
sancirebbe il definitivo commissariamento della politica. È attorno a
questo nodo che s’ingarbuglia la corsa al Colle
ancor prima di iniziare. Il problema non è Berlusconi
, che non è più in campo anche se rimane in mezzo al campo, e con la sua scelta potrebbe indirizzare la sfida.
Il punto è che i partiti vorrebbero riguadagnare lo spazio e il ruolo
persi negli ultimi anni, vedono nell’elezione del presidente della
Repubblica l’estrema occasione per rilanciarsi, ma temono quella che l’ex ministro Lupi definisce
«la teoria del flipper»: «Nel flipper, la pallina prima o poi scende. E
Draghi è come un flipper». Indubbiamente l’ex presidente della Bce è
oggi il nome più accreditato per il Quirinale, «la soluzione verso la
quale — secondo Renzi
— finiremmo per scivolare per l’incapacità della politica di fare politica».
In effetti, se il premier dovesse traslocare sul Colle, nessuna forza potrebbe rivendicare la guida di un governo di larghe intese a un anno dalla scadenza elettorale: di conseguenza anche Palazzo Chigi finirebbe a un tecnico. E sarebbe
«game over». Per sfuggire a un simile scenario, sta prendendo corpo
l’idea (bipartisan) di tentare una difficile convergenza, da costruire
per di più in extremis, quando le urne per il Quirinale stanno per
aprirsi. Il gioco del «candidato di blocco» non regge:
centrodestra e centrosinistra l’hanno constatato, bruciando tempo e
nomi. Fino all’altro ieri ognuno si è presentato agli appuntamenti con
rose già sfiorite: Salvini con Pera, Casellati e Moratti; Conte con Riccardi e Severino. Solo Letta ha evitato la lista, visto che quella del Pd sarebbe stata troppo lunga. Mentre Di Maio
— pur di restare alla Farnesina — si è promesso a tutti, affiancando addirittura un proprio sherpa ad ogni candidato.
Essendo operazioni a somma zero, alla fine di ogni incontro si è tornati sempre a Draghi, criticato dai leader di maggioranza perché «non è disposto a fare accordi politici, di cui ci sarebbe invece bisogno». Ma se il premier non si espone per sollecitare intese, è perché non vuole restare incastrato in manovre di parte. Dunque l’alibi dei partiti non regge: tocca a loro dirimere la vertenza. E se riescono, a evitare il paradosso descritto da una vecchia volpe come Mastella: «Il Consiglio di Stato è presieduto da Frattini, che è un politico. La Consulta sta per essere presieduta da Amato, che è un altro politico. Possibile che al governo e alla presidenza della Repubblica debbano starci due tecnici? È il mondo alla rovescia».
Vertice con gli azzurri ad Arcore,
ancora in dubbio la sua presenza di persona e non in remoto al summit
del centrodestra di oggi. Resta la freddezza sull’ipotesi di Draghi,
dubbi su Casini, speranza per un Mattarella bis o un nome di area
Su un punto, almeno, ha ceduto: pressato dagli alleati, che non ne possono più di restare appesi a un filo, consigliato anche dai suoi perché «qualunque cosa tu decida, è bene che torni sulla scena o rischi di lasciarla agli altri», Silvio Berlusconi ha detto sì alla richiesta di vertice che si sarebbe dovuto tenere già giovedì scorso ma che poi era scomparso dai radar.
Si terrà oggi, alle 16 a Roma, come annunciato dalla nota diffusa nel tardo pomeriggio a nome dei tre leader, ma il Cavaliere potrebbe partecipare in presenza (ad alcuni lo avrebbe promesso) come collegarsi da remoto (i
suoi lasciano aperta la possibilità). E a quel punto non è detto che
non facciano altrettanto tutti gli altri leader, che pure potrebbero
riunirsi in chat.
Se questo è lo stato dell’arte, figuriamoci se è prevedibile l’esito del vertice: dopo una riunione con tutto il suo stato maggiore ad Arcore — Tajani, Ronzulli, Bernini, Barelli e anche Fedele Confalonieri —, la previsione è che «sì, quasi certamente Berlusconi scioglierà la riserva».
Perché, gli è stato detto nel vertice, deve fare attenzione: se non si
muove, e vuole scendere in campo, rischia di perdere anche i voti che si
ritengono conquistati, visto che gli avversari non resteranno fermi. E
se deciderà di non gettarsi nella mischia, bisognerà lavorare al famoso
piano B con logica, non allo sbaraglio, pena l’esplosione del
centrodestra.
Berlusconi ha ascoltato tutti, sa che la via del no alla candidatura è la più logica. E ci pensa molto seriamente. Ma a sentire chi ha parlato con lui non
si può ancora dare per scontata la sua scelta. «Mi prendo altre ore per
pensare. Da solo, in pace», ha detto ai suoi salutandoli nel tardo
pomeriggio.
E così, nessuno dei fedelissimi si sbilancia. Raccontano che si siano state messe le carte in tavola: quanti sono i voti considerati sicuri, quanti abbastanza sicuri, quanti ballerini. In teoria, se tutto andasse per il verso giusto, i fatidici 505 voti necessari per essere eletto ci sarebbero, ma «il rischio è enorme», gli hanno spiegato gli amici di una vita. Perché «non ci sono accordi con gruppi politici, ma solo rassicurazioni da parte di singoli». Che «oggi ti dicono che ti votano, domani chissà?».
Insomma, l’impresa appare quasi disperata, ma «Berlusconi è Berlusconi. E dire che è pronto a cedere sarebbe un errore. Può ancora scegliere di andare avanti.
Sapendo che gli alleati sarebbero costretti a seguirlo». Un suicidio?
Così sembrerebbe, ma mai fare i conti senza i colpi di scena del
Cavaliere. Anche se il borsino della sua candidatura, ieri sera, secondo
fonti non azzurre ma di massimo rilievo, puntava sul pollice verso: le possibilità che Berlusconi scenda in campo, a questo punto, sono «molto poche». E se non è un annuncio, è qualcosa che ci si avvicina parecchio.