Archive for Gennaio 25th, 2022

Lufthansa e Msc vogliono Ita. “Pronti a rilevare il controllo”

martedì, Gennaio 25th, 2022

Paolo Stefanato

Lufthansa e il gruppo Msc hanno presentato una manifestazione di interesse per acquistare la maggioranza di Ita Airways, la compagnia appena nata sulle ceneri di Alitalia. Entrambi i proponenti chiedono che il governo mantenga una quota di minoranza nella società e hanno richiesto 90 giorni di esclusiva per lavorare all’offerta. Nel darne l’annuncio, Ita si è detta «soddisfatta che il lavoro svolto in questi mesi stia cominciando ad avere i risultati attesi». Ora la palla passa al governo, azionista al 100% tramite il Tesoro, che dovrà decidere se e come procedere, dopodiché il cda di Ita esaminerà i dettagli della manifestazione d’interesse; un cda sul piano industriale è già in programma lunedì prossimo, ma non è da escludere che prima o dopo quella data sia convocata una riunione straordinaria.

Che Lufthansa, primo gruppo aeronautico in Europa, fosse interessato alla nuova compagnia italiana per farla entrare nella sua strategia commerciale non è un mistero; del gruppo fanno già parte, ben integrati, vari soggetti europei: Austrian, Brussels, Eurowings e Swiss, in una logica multihub. La vera sorpresa è l’interesse del gruppo Msc, la più grande compagnia di trasporto merci marittimo a livello mondiale, con una flotta di 600 navi portacontainer, per il 40% di proprietà, alla quale si aggiunge una importante attività crocieristica. Lufthansa e Msc si sono uniti nell’interesse per Ita grazie alla tessitura del presidente di questa, Alfredo Altavilla, su specifico incarico del governo.

Se Ita diventerà proprietà di due soggetti di queste dimensioni, ne trarrà vantaggio il suo sviluppo: oltre alle sinergie con Lufthansa, leader dei cieli europei, se ne possono immaginare anche con il mondo crocieristico (che da sempre è alleato del trasporto aereo per le tratte di avvicinamento ai porti d’imbarco e sbarco) e con l’attività cargo (nave più aereo), con ulteriori ricadute sulla Cargo city di Malpensa. Benefici sono prevedibili sui costi, per possibili centrali d’acquisto comuni (specie con Lufthansa).

Come detto, Msc è la vera sorpresa di ieri. Il gruppo – cargo più crociere nel 2020 ha raggiunto un fatturato di 38 miliardi di dollari, con una forza lavoro stimata in 100mila persone. Nelle ultime settimane Msc – Mediterranean shipping company ha avanzato una proposta per rilevare le attività di trasporto e logistica del gruppo Bolloré in Africa, mettendo sul piatto 5,7 miliardi di euro. Si tratta di un colosso la cui proprietà è tuttora familiare: appartiene alla famiglia di Gianluigi Aponte, 81 anni, sorrentino, fondatore dell’impero nel 1970, uno degli uomini più ricchi del mondo con un patrimonio stimato in 1,7 miliardi di dollari.

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Due passi avanti e uno indietro

martedì, Gennaio 25th, 2022

MARCELLO SORGI

Draghi due passi avanti e uno indietro. È questo l’esito della giornata di ieri, svolta su due piani. Nell’aula e nel parcheggio della Camera (in questo secondo caso per elettori positivi al virus), la prima votazione conclusa con una valanga di schede bianche. Alle spalle di Montecitorio, nei palazzi della cittadella politica, in una serie di incontri che hanno dato un’accelerata alla ricerca di una soluzione per il Quirinale. Il più importante dei quali, tra Draghi e Salvini, ha dato la sensazione, ridimensionata in serata, che la candidatura del premier sia in cammino. Sensazione riflessa anche dagli incontri di Salvini con Letta e poi con Conte, accompagnati da dichiarazioni e comunicati positivi e dalle promesse di riprendere velocemente il negoziato per portarlo a uno sbocco. Il problema irrisolto è che se davvero Draghi fosse eletto tra due giorni, alla quarta votazione, Presidente della Repubblica, ci sarebbe subito da formare un nuovo governo. Ed è questo il secondo argomento che sarebbe stato affrontato ieri, con Draghi disposto per la prima volta a discuterne con Salvini e i leader della sua maggioranza.

Ma indisponibile a entrare nei dettagli della composizione dell’esecutivo, né come premier uscente e men che meno come futuro Capo dello Stato. Affrontare la crisi avendo la soluzione in tasca ed evitando una vacatio che il Paese non può permettersi, nell’attuale situazione di emergenza sanitaria e con il quadro internazionale che a causa dell’Ucraina va complicandosi di ora in ora, sarebbe certamente quel che ci vuole. Ma Draghi ha spiegato che al momento è materia che non lo riguarda. E questo ha spinto Salvini, in serata, ad annunciare che proporrà una nuova rosa di candidature del centrodestra.

Secondo Renzi, che ha seguito la trattativa, pur non essendo coinvolto in prima linea, Draghi è solo uno dei candidati. Potrebbe farcela a condizione che per sostenerlo si realizzi un accordo politico, che Salvini sia capace di costruirlo insieme con tutti i partiti della maggioranza e che quella del premier non sia l’unica soluzione sul tappeto. Draghi insomma dovrebbe accostarsi alla trattativa sapendo che lo sbocco finale potrebbe riguardarlo, ma anche no. E dopo aver riaperto i canali di comunicazione con i partiti della maggioranza, il premier dovrebbe abbandonare le sue resistenze. Smettere in sostanza di sentirsi un tecnico e trasformarsi in politico. Ma è esattamente questo che il presidente del Consiglio non vuole.

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Ucraina, l’America si mobilita

martedì, Gennaio 25th, 2022

Alberto Simoni

DAL CORRISPONDENTE A WASHINGTON. Soldati in stato di allerta, armi agli ucraini e ritiro del personale non necessario dall’ambasciata a Kiev. Il presidente americano Joe Biden imprime un’accelerazione drammatica nella gestione della vicenda ucraina e poi parla con gli alleati europei – fra cui il premier italiano Mario Draghi – in una videoconferenza durata 1 ora e 20 per fare il punto sulla situazione e ribadire la compattezza alleata.

La Casa Bianca ha sottolineato «l’unanimità» di vedute con gli europei sia sui «preparativi per imporre gravi costi economici alla Russia» sia su come «rafforzare la sicurezza sul fianco orientale». Biden ha enfatizzato la totale unanimità anche per dissipare i dubbi sulla tenuta occidentale e fare chiarezza su alcune divergenze emerse negli ultimi giorni con Berlino sulla consegna di armi a Kiev. «In febbraio il neo cancelliere tedesco Olaf Scholz sarà alla Casa Bianca» aveva annunciato pochi minuti prima della videoconferenza la portavoce di Biden Jen Psaki in un ulteriore gesto distensivo.

Fonti di Palazzo Chigi hanno riassunto l’incontro sottolineando «l’esigenza di una risposta comune» e «il sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina». La diplomazia internazionale ha rilanciato la necessità di tenere «aperto un canale di dialogo con la Russia» chiarendo nel contempo «le gravi conseguenze che un ulteriore deterioramento della situazione potrebbe comportare».

Ben prima della conference call gli europei erano rimasti sorpresi dalla rapidità con cui Usa, Regno Unito e Australia avevano deciso l’evacuazione del personale diplomatico dalle ambasciate a Kiev definendo l’azione – parole di Josep Borrell, capo della diplomazia Ue – «un’eccessiva drammatizzazione».

Il fatto è che a Washington sembrano convinti che il ventaglio delle misure di deterrenza non può reggersi interamente sulla minaccia delle sanzioni, pur se pesantissime e destinate a colpire non solo il comparto finanziario ed energetico ma anche – secondo un’anticipazione del Washington Post – la capacità russa di procurarsi all’estero semiconduttori e altre materie chiave per le tecnologie. La via maestra resta la diplomazia e Washington continuerà a perseguirla con determinazione. Ma nessuno scarta ormai apertamente l’ipotesi che non possa fallire tanto da far dire a Linda Thomas Greenfield, ambasciatrice Usa all’Onu: «Siamo pronti a ogni opzione se la soluzione diplomatica non funzionasse». Questra strada sembra più stretta di qualche giorno fa: i rapporti che sono arrivati a Biden nel weekend a Camp David hanno convinto la Casa Bianca ad ampliare il ventaglio delle opzioni delle deterrenza.

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Il gran ballo del Transatlantico

martedì, Gennaio 25th, 2022

Francesca Schianchi

Come quelle vecchie, maestose ville di campagna, che restano chiuse serrate per due anni e poi i padroni di casa finalmente tornano, danno aria alle stanze, spolverano gli antichi lampadari. Sembrava così ieri pomeriggio il Transatlantico della Camera dopo due lunghi anni di pandemia, bastava andarci al mattino per ritrovarlo spettrale e deserto e poi voilà, alle 15 in punto quando parte il trillo della campanella che dà il via alle votazioni il ritorno alla vita: i capannelli, le chiacchiere, il deputato che prende tutti sottobraccio e Matteo Salvini con mascherina tricolore che svicola l’assedio dei giornalisti, «incontri molto positivi». Il gran ballo della democrazia nel suo giorno di festa.

Nella giornata in cui le trattative vere, gli incontri importanti si giocano altrove – a Palazzo Chigi, nel faccia a faccia Draghi- Salvini, o anche a Montecitorio, nei vertici tra leader di partito, ma ai piani di sopra – lì dove invece si riversano a gruppi contingentati gli oltre mille grandi elettori chiamati a imbucare una scheda bianca è una giornata di attesa senza pathos, di impegno senza responsabilità, tante chiacchiere e tutt’al più lo sfizio di giocare nell’urna con qualche nome da lasciare agli atti: Amadeus, Bruno Vespa, Dino Zoff. A colpo d’occhio, sembra quasi di essere tornati a prima della pandemia, non fosse per le mascherine ben calzate da tutti, uno stuolo di Ffp2, quasi tutte bianche, il forzista Elio Vito la indossa rosa (la sera prima su Twitter aveva interrogato i follower: «per la prima votazione, rosa o viola?»), qualcuno ne mette anche due, una sopra l’altra, non si sa mai. La presidenza ha deciso che possono sostare non oltre 550 persone e sono tante, sembrano quasi i vecchi tempi ma poi a ricordare dove siamo c’è il controllo del Green Pass all’ingresso e ogni volta che si accede alla buvette, una piccola fila ordinata per un caffè che viene passato sotto uno schermo di plexiglass come regole anti-pandemia comandano; ci sono le porte-finestre lasciate volutamente spalancate che appena tramonta il sole trasformano l’ambiente in una gigantesca cella frigorifera.

«Era tanto tempo che non venivo qui, è bello vedere il Transatlantico pieno», sospira Luigi Di Maio, là in fondo, vicino alla sala del governo, dove sosta a lungo ed è tutta una sfilata di amici e meno amici ad omaggiarlo, sembra ieri il giovane e inesperto vicepresidente della Camera e ora dispensa suggestioni e consigli dall’alto della sua terza elezione di un capo dello Stato. Sui telefonini dei grandi elettori arrivano i beep delle agenzie e dei whatsapp, «Draghi ha incontrato Salvini», «ora deve vedere Letta», «no ma guarda che incontra anche Conte», ed è tutto un chiedersi cosa vuol dire, dove si sta andando. «Si invitano i deputati della fascia oraria dalle ore 16.27 alle ore 16.30 a prendere posto in Aula», il richiamo al voto sovrasta il volume di analisi e battute.

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Draghi in campo, ora tratta con i leader ma frena sul rimpasto: “Non resto a ogni costo”

martedì, Gennaio 25th, 2022

Ilario Lombardo

«Siete voi partiti a dovermi dire cosa volete che io faccia». La sintesi apparirà anche brutale, ma il senso di quello che Mario Draghi ha detto a Matteo Salvini, e che il leghista ha riportato ai parlamentari più fidati, è contenuto in questa frase. Siano le forze politiche a dire cosa hanno in mente per lui ma, aggiunge, al governo non resterà a ogni costo: «Lo farò se avrò la possibilità di lavorare per raggiungere gli obiettivi prefissati». È il Draghi del whatever it takes, descritto così dalle fonti di Palazzo Chigi: deciso a fare qualunque cosa per realizzare le riforme previste, se dovesse essere costretto a rinunciare al Colle. Lo farebbe senza più usare il bilancino tra i partiti, come invece ha fatto in questi mesi, per le pensioni, per il fisco, per la concorrenza. È ovvio che il presidente del Consiglio non sta semplicemente mettendo il proprio destino nelle mani dei partiti, ma sta sfruttando le regole del gioco costituzionale sapendo di avere lui la responsabilità di liberare se stesso da una condizione del tutto inedita e paradossale. Un premier in carica che diventa il principale candidato a diventare presidente della Repubblica – già solo questa unanovità – nonostante i partiti pubblicamente lo scoraggino.

Attorno a lui dicevano che non lo avrebbe fatto, e invece lo ha fatto: Draghi si è seduto a trattare con i partiti. In prima persona. Senza più sherpa, delegati, collaboratori, ministri amici: è stato direttamente lui a incontrare Salvini, a sentire al telefono il segretario del Pd Enrico Letta e il presidente del M5S Giuseppe Conte.

Il dialogo con il leghista inevitabilmente diventa il più significativo perché fissa la cornice della trattativa. Draghi pone i suoi paletti. Salvini alza il sipario sui desideri suoi e della Lega. Ribadisce di temere «l’apertura di una crisi al buio» e invita il premier a riflettere sul «rischio altissimo» di «elezioni anticipate». In realtà il capo del Carroccio ha un obiettivo preciso. Parlare di governo, dei ritocchi da fare alla squadra. Arriva con due richieste: cambiare i ministri tecnici, a partire dalle Infrastrutture e dall’Interno. I leghisti vogliono licenziare Enrico Giovannini e Luciana Lamorgese. Sono due posti considerati strategici. Il primo, perché è luogo di spesa per eccellenza, dove nei prossimi mesi arriveranno altri soldi del piano nazionale di ripresa. Il secondo, perché Salvini lo considera casa sua. Vorrebbe rientrarci lui al Viminale, ma sa che, a un anno dal voto, il Pd non gli lascerebbe mai più trasformare il ministero dell’Interno in una piattaforma elettorale, anche se dovesse indicare una figura d’area come il prefetto Matteo Piantedosi, suo ex capo di gabinetto.

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Un passo ma piccolo

martedì, Gennaio 25th, 2022

di Massimo Franco

D’istinto verrebbe da dire che il bianco delle schede espresse lundì nella prima votazione per il Quirinale è il colore del vuoto e dell’impotenza. In realtà, il bianco contiene e nasconde tutto. Potrebbe perfino diventare il velo che scherma e protegge il nome destinato a emergere nei prossimi giorni. La trattativa iniziatasi ieri rappresenta almeno simbolicamente un passo in avanti, ma piccolo. Sempre che non sia fine a se stessa o nasconda la tentazione di nuove forzature.
Per ora, dalle «rose» dei partiti sono spuntati fiori un po’ artificiali. La definizione di «candidature di bandiera» sovrespone persone più che degne alla prospettiva di una probabile bocciatura, nonostante la gratificazione di vedere il proprio nome sulla scheda. La giostra dei colloqui delle ultime ore non legittima ancora l’ottimismo. Si è perso tempo inseguendo velleità personali e proclami ideologici, spesso assecondati per debolezza e mancanza di alternative.

Il risultato è stato di presentarsi all’appuntamento in ordine sparso e con idee confuse; e, se non confuse, mimetizzate nel terrore di vederle annientate dagli avversari o, peggio, dagli alleati. Il nulla di fatto di ieri non è preoccupante in sé: era previsto. A renderlo tale è piuttosto la sensazione che non sia figlio di una strategia ma della sua assenza. Si tratta al massimo della conseguenza di un esasperato tatticismo al quale nessuno è riuscito a conferire dignità.

Forse era impossibile, mancando un baricentro e leader in grado di tenere uniti almeno i propri partiti. Il tema delle prossime ore sarà costruire un profilo partendo da consensi atomizzati e «liquidi»; e sforzandosi di conciliare la voglia di protagonismo della politica e l’idiosincrasia per i «tecnici» con l’esigenza di garantire la credibilità e l’affidabilità dell’Italia. È un gioco a incastro complesso perché implica un abbozzo di soluzione per il governo; ma già questo toccherebbe i poteri del capo dello Stato.

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Ucraina, lungo la linea rossa tra i tunnel e le valigie di chi scappa

martedì, Gennaio 25th, 2022

di Francesco Battistini

DAL NOSTRO INVIATO
KHARKIV- Più rete, forza, più rete per chiudere il confine! «Due terzi della frontiera con la Russia sono ancora una pianura aperta…». E più terra, avanti, più terra per nascondere la rete! «Non si può dare ai russi nessun vantaggio…». E più neve, sbrigarsi, più neve per coprire la terra! «Il nostro argine di difesa dev’essere invisibile…». Più invisibile di così, è difficile: i soldati, i blindati, i missili ci sono, ma dove sono? La prima linea che attraversa l’ultimo villaggio ucraino prima della Russia, Zvyazkov, sprofonda sottoterra e nel gelo invernale d’una guerra che più bianca e invisibile non si può. Sopra c’è l’immobilità, un silenzio da fantasmi: casette coi comignoli che fumano placidi, tre macchine ghiacciate, un cane che abbaia. Sotto brulica di tutto, uomini come topi: forze speciali e riservisti, armi dall’America e batterie di missili . A Ginevra e a Bruxelles, a Washington e a Mosca discutano finché serve: qui, ci si porta avanti. Lungo la frontiera, qualche torretta s’alza d’una cinquantina di metri, sul tetto telecamere-spia h24 e a 360 gradi. Ogni tanto, il colonnello Trubachov organizza brevi tour a uso propaganda, per mostrare come l’esercito ucraino non sia lo stesso che nel 2014 si fece rubare la Crimea senza sparare. Niente video, però. Niente domande: «Questa è un’emergenza nazionale», dice il colonnello. Ed è per i campi innevati di Zvyazkov, sopra le trincee scavate di fretta, lungo i 280 chilometri d’un confine che confine non è mai stato davvero — «lo sapete che una volta andavamo dall’altra parte, a Belgorod, a comprare le trebbiatrici russe che costano meno?» —, è di qui che passa la vera linea rossa tra Putin e l’Occidente.

Più rete, più terra, più neve. La cortina di ferro del Duemila è questo profondo est dell’acciaio e del carbone. Estremo — perché le trincee sono solo a 40 km dalla seconda città dell’Ucraina, Kharkiv —, ma non estremista come un tempo. Russofono — perché soltanto il 15 per cento non usa il cirillico — ma meno russofilo, perché otto anni di guerra civile nel Donbass hanno spaventato tutti. «Io sono sempre stato vicino ai russi — dice Igor Trekhov, 55 anni, il sindaco —, eppure mi sento ucraino. Vogliamo avere buoni rapporti con loro, però non possiamo accettare un’occupazione militare. Kharkiv è pronta a combattere, se serve».

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Covid, Figliuolo: «Il contagio da Omicron scende». E apre alle modifiche chieste dalle Regioni

martedì, Gennaio 25th, 2022

di Adriana Logroscino

Il commissario: «Il tavolo tecnico è al lavoro. Terrà conto del nuovo quadro e aggiornerà le strategie di contrasto al virus». Minaccia di sciopero dei tabaccai

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Il virus sembra mollare un po’ la presa. «Siamo al plateau di Omicron, inizia la discesa. I vaccini hanno fornito una buona barriera contro la variante», dice il commissario per l’emergenza, Francesco Paolo Figliuolo, in visita all’hub pediatrico allestito a Gallarate. La frenata dei contagi rianima le richieste di revisione delle misure in vigore da parte dei presidenti di Regione. E ora i tabaccai minacciano proteste.

Il commissario: «Tavolo tecnico al lavoro per snellire la burocrazia»

Figliuolo apre, quando parla del tavolo tecnico governo-Regioni-struttura commissariale «al lavoro per snellire la burocrazia». Tre in sintesi le richieste dei governatori all’esame del governo: il superamento del sistema dei colori, il prolungamento della durata del green pass uniformandosi al resto d’Europa, e la cancellazione del tampone all’ingresso in Italia per i turisti provvisti di certificato verde.

I tabaccai sul piede di guerra

Poi ci sono le richieste di presidi e famiglie per rivedere le regole della quarantena. E infine la minaccia di sciopero dei tabaccai contro l’obbligo di green pass base, dal primo febbraio, per accedere nelle loro rivendite.

Il bollettino

Anche i numeri di ieri, attestano un rallentamento della circolazione del virus. Nonostante sia sempre alto il numero delle vittime, 352, i positivi rilevati sono stati poco meno di 78 mila, la metà rispetto al giorno precedente. Il calo, sia pure fisiologico nei giorni festivi, è confermato anche in confronto a sette giorni fa, quando erano stati 83 mila. E soprattutto ieri, per la prima volta da fine ottobre, è sceso il numero complessivo di positivi nel Paese: 25 mila in meno. Ormai più di dieci milioni gli italiani, uno su sei, è venuto in contatto con il Covid.

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Equivoci pericolosi

martedì, Gennaio 25th, 2022

di Aldo Cazzullo

Un Paese che ha il terzo debito pubblico del mondo, 200 miliardi di freschi prestiti europei di cui 122 da restituire, 350 morti al giorno di Covid e una ripresa tutta da consolidare, un Paese così non può permettersi il lusso di un lunedì surreale come quello di ieri. Pareva che gli oltre mille grandi elettori, compresi i capi partito, avessero scoperto all’ultimo momento che c’era da eleggere il presidente della Repubblica per i prossimi sette anni.

È abbastanza incredibile che i leader non si siano ancora riuniti, nonostante siano tutti (tranne la Meloni) nella maggioranza di governo. E la candidatura di Berlusconi, per quanto improbabile, ha rappresentato più un alibi che un ostacolo. Ieri, finalmente, sono incominciati se non altro gli incontri bilaterali, in un’atmosfera sospesa, quasi incantata, che è parsa a tutti i presidenti di Regione catapultati a Palazzo – da Zaia a De Luca, da Fontana a Bonaccini – quanto di più distante dalla vita reale, dagli ospedali, dai centri vaccinazione, dalle attività a rischio chiusura. Certo, la politica ha la sua tecnicalità e i suoi tempi. Ma qui c’è un equivoco di fondo.

Il nuovo presidente della Repubblica è già stato individuato, di fatto, a febbraio. Nel febbraio scorso, però. È evidente che, quando Mattarella ha chiamato l’ex presidente della Banca centrale europea a guidare il governo di responsabilità nazionale, sullo sfondo si intravedeva uno schema di successione sul Colle. È altrettanto evidente che i partiti (con qualche eccezione) Draghi non lo vogliono. Eppure in queste settimane non hanno cercato seriamente una personalità in grado di tenere insieme l’attuale maggioranza, e neppure una che possa eventualmente succedere a Draghi a Palazzo Chigi.

Mai ci si era avventurati così al buio in un’elezione presidenziale. Se le soluzioni alla prima chiama sono state rare, se i Cossiga e i Ciampi non si trovano dietro l’angolo, le altre volte almeno erano in campo i candidati: nel 1992 fu bruciato Forlani, nel 2013 Marini (e poi Prodi); ma nel 2006 si sapeva che alla quarta votazione sarebbe stato eletto Napolitano, e nel 2015 Mattarella. Questa volta gli arcana imperii e i tempi dilatati appaiono particolarmente incomprensibili, visto il momento che vive il Paese. Tanto più che, in realtà, la situazione è abbastanza semplice.

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Quirinale, manovre e doppi giochi sulla strada della presidenza della Repubblica. Ma Giorgetti scommette: «Andrà tutto bene»

martedì, Gennaio 25th, 2022

di Francesco Verderami

Salvini deve tenere saldo il rapporto con Berlusconi. E Casini inneggia alla «centralità» del Parlamento. L’elezione da costruire un «passo alla volta». Guerini dà i tempi: ci vorrà una settimana

«Andrà tutto bene», dice Giorgetti. E visto che da mesi il ministro leghista teorizza l’ascesa di Draghi al Colle, è chiaro a chi e a cosa si riferisca. Il suo ottimismo pare una volta ancora in contrasto con la linea di Salvini. In realtà la situazione è più complessa, perché la strada verso il Quirinale è tortuosa oltre che piena di trappole. L’atteggiamento del leader leghista, il modo in cui ripete che il premier dovrebbe restare a palazzo Chigi, è dettata (anche) dalla necessità di tenere saldo il rapporto con Berlusconi. E la spiegazione della sua prudenza emerge da un colloquio tra esponenti dem con parigrado azzurri, secondo i quali non dovrà essere Salvini a intestarsi la candidatura di Draghi per non sconfessare il Cavaliere. In questa fase il capo del Carroccio non solo deve garantirsi la tenuta di Forza Italia — dove sta facendo breccia il nome di Casini — ma deve inoltre capire quanto è forte il fronte del dissenso nel Pd e nel Movimento e quali mosse gli avversari hanno in serbo.

La corsa sta per entrare nella fase più insidiosa: nei prossimi due giorni — all’ombra delle schede bianche — inizieranno manovre e doppi giochi, con i quirinabili al centro del mirino. Un passo falso e salta tutto. Perciò, in attesa di arrivare all’atto conclusivo, andranno consumati una serie di passaggi: il centrodestra dovrà prima celebrare il rito della rosa e nel centrosinistra andrà chiarito il punto di caduta comune, per quanto sarà possibile. Ieri Draghi ha visto e sentito tutti, nelle stesse ore in cui Casini stava a Montecitorio per votare (e in prospettiva farsi votare). Con un tocco degno della tradizione democristiana, l’ex presidente della Camera aveva rilasciato il giorno prima una dichiarazione alla cronaca locale del Resto del Carlino, nella quale inneggiava alla «centralità» del Parlamento «troppe volte mortificato». Un modo per sottolineare come siano solo lui e la Casellati gli unici candidati «politici» per il Colle, in mezzo a tanti «tecnici».

Un chiaro riferimento a Draghi, che è il più esposto e su cui si concentra la maggior pressione. Da giorni Renzi lo continua a chiamare in causa, tenendo un piede nel campo di Casini. Chi lo conosce, come il democratico Delrio, pensa che stia «preparando una sorpresa». Ma non sembra esserci spazio per terze soluzioni, per quanto ieri il capogruppo di M5S alla Camera provasse ad aggrapparsi a uno scoglio che non c’è: «Insistete su Mattarella», ha implorato agli alleati del Pd. Il fatto è che anche il Nazareno non ha molti margini di manovra, anche Letta deve districarsi tra quanti fanno muro contro Draghi (come Franceschini) e quanti sono pronti a boicottare l’accordo su Casini (come i riformisti). Per questo l’altra sera il leader democrat si è espresso per un «bis» dell’attuale capo dello Stato: una sortita a sorpresa che ha suscitato dubbi anche tra i membri della sua segreteria.

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