Archive for Gennaio, 2022

Una buona notizia per l’Italia

domenica, Gennaio 30th, 2022

di MICHELE BRAMBILLA

Con poche parole Matteo Renzi (il quale può piacere o non piacere: ma non difetta di intelligenza) ha fotografato alla perfezione quanto accaduto: la rielezione di Sergio Mattarella è una sconfitta per i leader dei partiti ma una buona notizia per il Paese.
Sette anni fa, Mattarella sembrò un ripiego dopo il fallimento di altre candidature. Pochi italiani lo conoscevano. Dopo sette anni, molti lo amano. Non è stato rieletto per mancanza di meglio: è stato rieletto perché è un grande presidente.

Ha riportato la centralità della politica in anni di avvelenata antipolitica. Ha riportato la buona educazione in anni di volgarità. Ha riportato il senso dello Stato in anni di becero populismo. Ha riportato il dialogo in anni di risse continue; il rispetto dell’altro in anni di odio, di rancore, di livore, di cattiverie. È stato il garante della Costituzione e del parlamento in anni di una follia spacciata per democrazia diretta. È stato, per tutti gli italiani, una presenza rassicurante. Non serviva un tribuno, serviva una persona perbene con cultura politica.

E non è caso che una persona così venga dalla Prima Repubblica. Dalla Democrazia Cristiana ma più in generale da quel mondo dei vecchi partiti – anche il Pci, il Psi e gli altri – frettolosamente spazzati via da una furia iconoclasta in una stagione in cui ipocriti moralisti hanno preteso di dividere il Paese – ma più in generale l’umanità – in onesti e disonesti, naturalmente autoproclamandosi appartenenti alla prima categoria. E non è un caso che la sua unica alternativa rimasta fino a ieri mattina, il bolognese Pier Ferdinando Casini – ritiratosi da gran signore e da politico che ha a cuore il bene dell’Italia – venga anch’egli dalla stessa storia e dalla stessa scuola.

La rielezione di un presidente è certamente un’anomalia, ma quella di Mattarella è una buona notizia anche perché di tutto aveva bisogno, l’Italia, fuorché di instabilità. Un presidente di parte – ostinatamente cercato da qualcuno che rivendicava un diritto di prelazione inesistente nei numeri – avrebbe provocato l’immediata caduta del governo e il ricorso ad elezioni anticipate. Che sarebbero state utili solo a coloro che irresponsabilmente speculano sul malcontento di tanti italiani: ma un disastro per il Paese e per quegli stessi italiani malcontenti, perché i loro problemi sarebbero diventati ancor più gravi.

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La Corte costituzionale elegge Giuliano Amato: è il nuovo presidente

domenica, Gennaio 30th, 2022

È Giuliano Amato il nuovo presidente della Corte Costituzionale. Torinese, 83 anni, professore emerito di diritto pubblico comparato, più volte ministro, ha all’attivo due mandati da presidente del Consiglio nel 1992-1993 e nel 2000-2001. Nominato da Giorgio Napolitano il 12 settembre 2013, è il giudice costituzionale con maggiore anzianità, rimarrà in carica circa 8 mesi prima del termine del suo mandato di nove anni.

Giuliano Amato è stato eletto all’unanimità. L’esito è stato comunicato dal segretario generale della Consulta Umberto Zingales. Giudice con maggiore anzianità, Amato è stato vicepresidente della Corte Costituzionale dal settembre 2020 sotto le presidenze di Morelli e Coraggio.

Come primo atto, il presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato ha nominato vicepresidenti le giudici Silvana Sciarra e Daria de Pretis e il giudice Nicolò Zanon.

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Rivoluzione Imu: non si paga se l’immobile è occupato

domenica, Gennaio 30th, 2022

Gian Maria De Francesco

Sentenza rivoluzionaria nel frastagliato panorama dell’Imu: se l’immobile è occupato, l’imposta non è dovuta. A far esplodere la bomba è stata la Commissione tributaria della Toscana in una sentenza del 13 dicembre scorso riportata ieri da Italia Oggi. È stato, infatti, respinto un ricorso del Comune di Livorno contro la P.I. Sgr nel quale l’ente locale contestava la sentenza della Commissione tributaria provinciale sull’indebita percezione dell’imposta municipale unica dal 2015 al 2017 su un edificio composto da otto immobili e occupato abusivamente da soggetti in stato di emergenza abitativa e che non era mai stato sgomberato dalla forza pubblica.

Il cuore della sentenza, a fronte di controversi pronunciamenti della Cassazione (la Suprema Corte spesso si è espressa a favore delle amministrazioni pubbliche ancorché il concetto di possesso dell’immobile fosse labile; ndr), è il riferimento all’articolo 1140 del Codice Civile secondo il quale «il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà». Pertanto, «se gli organi di polizia si astengono dal difendere il diritto di proprietà di colui cui il Comune richiede il pagamento dell’Imu, questi è privo di tutela senza possesso poiché in mancanza di possibilità di attivare i diritti possessori». Viene, pertanto, sancito il principio in base al quale «il titolare di un immobile occupato non trae nessun utile dal suo diritto di proprietà né quello di un godimento diretto del bene né di un godimento mediato attraverso il conseguimento di un corrispettivo per il suo utilizzo ed è anzi costretto a subire un deterioramento del bene con conseguente diminuzione patrimoniale». Di qui il rimborso sull’imposta già pagata dalla Sgr per evitare di incorrere nel pagamento di sanzioni e interessi.

Molto soddisfatta Confedilizia che da anni denuncia l’illegittimità dell’imposizione cui sono soggetti i proprietari di immobili occupati abusivamente: spossessati del bene e obbligati a pagare l’Imu oltreché l’Irpef. «La Commissione tributaria regionale della Toscana è stata costretta a forzare un po’ il dettato normativo», ha dichiarato il presidente Giorgio Spaziani Testa interrogandosi sull’opportunità di «stabilire per legge questo principio sia per la situazione in esame sia per altri casi eclatanti di vera e propria vessazione fiscale».

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Anatomia di una coalizione sfasciata dal voto per il Colle. Meloni strappa: va rifondata

domenica, Gennaio 30th, 2022

Fabrizio De Feo

Roma. «Il presidente l’abbiamo fatto, adesso bisogna rifare il centrodestra». I Grandi Elettori di Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e Coraggio Italia si avvicinano all’ultima votazione con umori differenti. La giornata è stata lunga, ha seminato tensioni, allargato solchi e distanze. «Il futuro del centrodestra? Quale centrodestra?» polemizza Ignazio La Russa. E in Transatlantico gli eletti di Giorgia Meloni si rivolgono ai leghisti lasciando cadere qualche provocazione: «Dai, fai uno scatto d’orgoglio, vota per Nordio…».

Le scorie da smaltire sono molte e si sono accumulate velocemente, in meno di 24 ore. La prima scossa tellurica è arrivata con il flop della candidatura Casellati e con le accuse rivolte dagli alleati verso Forza Italia e le formazioni di Centro. Una votazione seguita da un vertice acceso nei toni in cui i vari partiti hanno messo in fila le loro preferenze. Se Forza Italia puntava su Pier Ferdinando Casini e in seconda battuta su Sergio Mattarella, la Lega riteneva a quel punto che la continuità rappresentata dal presidente in carica potesse rappresentare una soluzione. Giovanni Toti era schierato per Casini, Mattarella o Mario Draghi, Giorgia Meloni invece aveva detto chiaramente di non essere disposta a votare il Capo dello Stato uscente, «piuttosto andate su Draghi che io comunque non voterò». Un quadro complesso da comporre che porta in serata al lancio delle ipotesi rosa, Belloni e Cartabia. Una fuga in avanti che fa scattare la reazione di Forza Italia e di Silvio Berlusconi che inizia a trattare direttamente con Enrico Letta.

«L’unica cosa su cui eravamo tutti d’accordo nell’ultima riunione del centrodestra era il no a Mattarella: ci avevamo anche scherzato e invece oggi scopro che le posizioni sono cambiate», commenta Giorgia Meloni. «Mi aspettavo che il centrodestra avesse molto più coraggio per eleggere un presidente distonico rispetto agli ultimi». La svolta arriva mentre è in corso il settimo voto, quando Matteo Salvini, dopo una telefonata con Mario Draghi dà il via libera al Mattarella bis. Berlusconi chiama l’inquilino del Colle: «Gli ho assicurato il sostegno di Forza Italia». La Meloni punta il dito contro Salvini: «Non voglio crederci, Salvini chiede a tutti di pregare Mattarella di tornare». Antonio Tajani individua una nota positiva nel «forte coordinamento dimostrato dall’area popolare, mi auguro che possa andare avanti», dice riferendosi all’asse con Udc, Coraggio Italia e Cambiamo, da cui nelle ultime ore ha ricevuto la delega a trattare. Nella Lega invece si cerca di stemperare le tensioni, «con gli alleati ci sarà modo di tornare a dialogare. Giorgetti? Le sue perplessità sono un modo per condividere la sconfitta e ripartire insieme, la fiducia dal segretario l’ha già ricevuta».

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Draghi sconfitto rilancia il governo: non vuole toccare la squadra e stoppa il pressing della Lega

domenica, Gennaio 30th, 2022

Ilario Lombardo

Certamente non è uno che è abituato a perdere. E in fondo Mario Draghi pensa che gli sia andata bene così, come lui stesso in qualche modo ha ammesso tra le righe con Sergio Mattarella, durante il loro colloquio, quando gli ha chiesto di restare: «È un bene per la stabilità dell’Italia e anche per il mio governo».

Per Draghi, Mattarella è il miglior epilogo possibile di questa furiosa partita quirinalizia dopo la certificazione che lui in persona non ce l’avrebbe mai fatta. Ed è per questo che ieri mattina, dopo il confronto con il capo dello Stato a margine del giuramento di Filippo Patroni Griffi a giudice della Corte costituzionale, Draghi è tornato a Palazzo Chigi e ha chiamato uno per uno i leader per assicurarsi che stessero convergendo su Mattarella. Non li ha convinti: lo erano già. Perché l’onda era partita, e tutto stava già portando lì. Le forze politiche in Parlamento avevano già scelto, mentre i leader si azzuffavano ostaggio delle loro stesse tattiche.

Ora Draghi ha bisogno e voglia di ripartire. Da oggi, giura, ci sarà più governo di prima. Ieri ha raggiunto la moglie a Città della Pieve ma lavora a due Consigli dei ministri già per questa settimana. «Dobbiamo salvare quello che è stato fatto e accelerare», dice. Dal Pnrr alla digitalizzazione, dal fisco e alle pensioni: la promessa è di raggiungere gli obiettivi evitando i tentennamenti e le infinite mediazioni dei mesi scorsi, i mesi in cui il premier ha dovuto anche misurare sui partiti la fattibilità dei propri piani per il Quirinale. Dal punto di vista di Draghi, «questo risultato rafforza l’azione di governo». La debolezza delle leadership, uscite frantumate da sette fumate nere e sei giorni di capriole e di finte, potrebbe essere un’occasione per dare slancio alla missione dell’esecutivo, ma può rivelarsi anche un problema per gli equilibri del governo.

La reazione alle voglie immediate di rimpasto della Lega è quasi stizzita, racconta chi ha parlato con Draghi, dopo che in una dichiarazione, non a caso congiunta, Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti avevano avvertito: «Serve una nuova fase». Il segretario del Carroccio, in serata, lo ribadirà più esplicitamente. Intende rimettere in discussione alcuni ministeri, e nel mirino ci sono innanzitutto l’Interno, la Transizione ecologica e le Infrastrutture. Potrebbe puntare al rimpasto di sponda con Giuseppe Conte, furibondo con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che gli ha sbarrato la strada dell’elezione di Elisabetta Belloni. Conte e Salvini chiedono un colloquio urgente con il premier e già domani potrebbero incontrarlo. Ma è il caso di Giorgetti a preoccupare soprattutto Palazzo Chigi. Il ministro dello Sviluppo economico potrebbe lasciare il governo. Ieri lo ha evocato con una battuta, poi in parte rientrata, ma parlamentari leghisti che ne hanno raccolto gli sfoghi credono che si dimetterà alla prima occasione utile.

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L’applauso e il rifugio dei partiti fragili: grazie Presidente

domenica, Gennaio 30th, 2022

ANNALISA CUZZOCREA, FRANCESCA SCHIANCHI

Quando lo spoglio sta per iniziare, Luigi Di Maio entra in Transatlantico come fosse un saloon e un gruppetto di parlamentari del Movimento 5 stelle comincia ad applaudire. Appena un antipasto di quello che succederà di lì a poco, alle 20.20, alla fatidica soglia dei 505 voti che certificano l’elezione: abbracci, vai Luigi, pollici alzati, un pugile che ha vinto il suo incontro. In un corridoio vicino, uno dei fedelissimi di Giuseppe Conte commenta: «Patetico». Mentre il presidente M5S spiega meglio quel che ha detto prima in conferenza stampa: «È andato contro la linea del Movimento, sono in moltissimi a dirmi che così non va bene, è una questione che dovremo affrontare». Al sesto giorno di votazioni per il presidente della Repubblica, al sospiro di sollievo del mattino – quando Matteo Salvini apre sul bis di Sergio Mattarella, seguito da una nota del presidente del Consiglio Mario Draghi che va nella stessa direzione – seguono, subito, i veleni, le veline, le dichiarazioni di chi corre veloce davanti a qualsiasi telecamera per poter dire: «Ho vinto io». O per aprire la resa dei conti: «Alcune leadership hanno fallito, creato divisioni», denuncia il ministro degli Esteri, onnipresente alla Camera in questi giorni, «nel Movimento serve aprire una riflessione politica interna». Si sente vincitore, vuole riscuotere il suo premio.

Hanno perso tutti, in realtà. Anche se davanti a quel «Mattarella» ripetuto 759 volte di seguito – il secondo presidente più votato della storia, dopo Sandro Pertini – scattano tutti in piedi dalle poltroncine di pelle amaranto. Chi è potuto restare in aula, come Letta, guarda con sollievo il suo gruppo. Più tardi, in Transatlantico, abbraccia Conte: «Che fatica, comunque una grandissima cosa». Il pericolo è scampato e nonostante tutto «il campo largo», come il segretario dem ha ribadito poco prima, ha tenuto. Ha frenato la spallata del centrodestra sul nome di Maria Elisabetta Casellati quando ha dovuto, lasciando che si vedesse plasticamente come a una candidatura istituzionale mancassero i voti degli stessi partiti che la proponevano. Ha lavorato per far crescere progressivamente il nome di Mattarella a ogni votazione, come un richiamo. Non troppo per non spaventare e vanificare ogni altra ipotesi, ma abbastanza perché si potesse arrivare al risultato di ieri. Con Matteo Renzi c’è stata un’intesa sui fondamentali, bloccare un candidato di destra, non su tutto però. Perché ancora ieri mattina il leader di Italia Viva aveva messo sul tavolo il nome di Pier Ferdinando Casini. Per tutta risposta, il segretario Pd si era alzato ed era uscito dalla stanza: niente contro il nome del senatore di Bologna – eletto sotto il simbolo del suo partito e poi passato al gruppo misto – ma quella scelta «preludeva a un disegno centrista che non è il mio», spiega più tardi. In testa Letta ha il centrosinistra. Anzi, l’Ulivo. Casini si fa da parte da solo non appena capisce che tocca, ancora, a Mattarella. «È la persona che invidio meno al mondo – confida a un amico – questi sono pazzi da legare».

E in effetti, la giornata che doveva essere quella della ricomposizione di un quadro politico, con i capigruppo di maggioranza che vanno in processione dal presidente della Repubblica per rappresentagli la volontà del Parlamento e ringraziarlo a mani giunte, come fa Loredana De Petris, e sentirsi dire con umiltà – lo racconta Debora Serracchiani – «farò del mio meglio», con i presidenti di Regione che fanno lo stesso, continua con una serie di ricostruzioni e accuse incrociate degne della settimana appena trascorsa. Fatta di piccole trame e grandi interessi: quello di Matteo Salvini di tenere in mano il centrodestra, fallito miseramente per i continui cambi di asse, i nomi bruciati, le intemperanze poco adatte a un rito che ha bisogno di 505 sì e cui in questo momento serviva molto di più: un voto che non spaccasse la maggioranza di governo. Quello di Giorgia Meloni, che sperava in Mario Draghi perché tutto saltasse e arrivassero finalmente le urne, visto che i sondaggi premiano il suo partito più di ogni altro a destra. L’interesse di Conte di non mandare Mario Draghi al Colle, diventato giorno dopo giorno, ora dopo ora, quasi un’ossessione. Quello di Luigi Di Maio di fare il contrario, come avviene ormai praticamente su tutto.

Racconta il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini che il capo dello Stato ha confermato, è vero, aveva altri piani, ma, come ripete a sera, nel suo breve messaggio tv, ci sono condizioni che «impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati e naturalmente devono prevalere su altre considerazioni e prospettive personali differenti». Una lezione che in questa storia pochi leader sembrano aver appreso. Mattarella davanti ai governatori ricorda l’importanza della collaborazione istituzionale in questi due terribili anni di pandemia. Poi, si ferma con ognuno di loro. Compresi Marco Marsilio e Francesco Acquaroli, presidenti di Abruzzo e Marche di Fratelli d’Italia, a cui dedica tempo per parlare del post-terremoto. Loro, lì, sono andati per una forma di cortesia istituzionale, ma fanno presente al capo dello Stato che non lo voteranno: «Avevo preso molto sul serio la sua lezione di diritto costituzionale sulla non rielezione», lo rimbrotta educatamente Marsilio. «Eh, speriamo che il Parlamento faccia chiarezza», la risposta del presidente rieletto, come a intendere la speranza di una legge costituzionale che intervenga sull’argomento.

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La bancarotta della politica e i costruttori della democrazia

domenica, Gennaio 30th, 2022

MASSIMO GIANNINI

Tra le rovine fumanti di un sistema politico distrutto dalla sua inconcludenza, il tempo dei “costruttori” non poteva essere finito. E infatti restano lì, al loro posto, i due uomini di buona volontà che hanno guidato il Paese nella crisi più devastante del dopoguerra. Non abbiamo sbagliato, quando abbiamo riassunto la partita doppia che incrociava i destini del Capo dello Stato e quelli del capo del governo con la formula rituale: “Simul stabunt, simul cadent”. Non abbiamo sbagliato, quando nell’ora più buia di questa ennesima notte repubblicana abbiamo ripetuto più volte un elementare principio di buon senso istituzionale ed esistenziale: nel caos, si torna sempre ai fondamentali. E i fondamentali, nell’Italia di oggi, sono due: Sergio Mattarella e Mario Draghi. I “costruttori”, appunto: un’immagine che il primo evocò un anno fa, quando conferì al secondo l’incarico di formare “un governo di alto profilo e senza nessun colore politico”. 

La conferma di Mattarella è un fattore irrinunciabile per la stabilità delle istituzioni. Conosciamo bene, e le abbiamo condivise, le ragioni che il Presidente aveva opposto di fronte all’ipotesi di un bis. La nostra è pur sempre una repubblica parlamentare, e un doppio mandato di quattordici anni la trasformerebbe in una monarchia costituzionale. È dunque il Parlamento che deve scegliere, senza pretendere alcuna forma di supplenza. Ma siamo alle solite: questo principio funziona in un Paese normale. E noi non lo siamo. Per questo, anche stavolta, i partiti allo sbando salgono sul Colle col cappello in mano, pregando il Presidente di restare al suo posto. Come già successe nell’aprile 2013 a Giorgio Napolitano.

E per questo, anche stavolta, il Presidente non si può tirare indietro, se non al prezzo di lasciare che collassi l’intero Sistema-Paese. Un lusso che nessun servitore della Patria si può permettere.

Perché questa, con tutta evidenza, è l’altra faccia della rielezione: Mattarella costretto a raddoppiare il settennato sancisce la bancarotta dei partiti. A lui siamo tornati dopo lunghe giornate e intere nottate di liturgie negoziali, a metà tra la carboneria e il reality show. Dove la cortina fumogena della retorica politichese (dalle “figure di alto profilo” alle “personalità di standing elevato”) ha nascosto il vuoto pneumatico delle idee e delle identità. E dove candidati verosimili, improbabili o incredibili sono stati macinati nello stesso tritacarne. Una vera e propria cerimonia cannibale, consumata tra la sgangherata ridiscesa in campo del Caimano, la posticcia rosa destrorsa Pera-Moratti-Nordio, il sacrificio insensato della scoiattola Casellati, e infine la scandalosa scommessa finale del tris di donne Belloni-Cartabia-Severino, eccellenze italiane che non meritavano di essere usate in un gioco al massacro cinico e baro.

L’epilogo non poteva essere che questo. I partiti paralizzati in quello che è stato ribattezzato lo “stallo messicano”. I tanto vituperati “peones” che in un imprevisto sussulto di coraggio mettono in mora i loro leader, lasciando che il voto spontaneo per Mattarella venga a galla nella palude melmosa delle schede bianche. Infine la politica costretta a portare i libri in tribunale e ad affidarsi al Presidente della Repubblica uscente perché resti a fare da commissario liquidatore di uno Stato quasi fallito. Altro che ansia di rivincita della Politica sulla Tecnica. Altro che voglia di riconquista della sovranità perduta, anche a costo di rimandare a casa l’ex banchiere centrale. Di cotanta speme, resta quello che c’era prima. Mattarella al Quirinale, Draghi a Palazzo Chigi. Una democrazia fiaccata dall’impotenza dei partiti senza popolo e inchiodata a due sole figure indispensabili, purtroppo le uniche capaci di assicurare l’agibilità del sistema e la credibilità del Paese.

Finché c’è e finché regge, questo asse è una polizza vita per la nazione. Nel tragicomico Quirinal Game appena concluso abbiamo rischiato grosso. Una mossa dissennata sul nuovo inquilino del Colle sarebbe stata sufficiente a spedire ai giardinetti “Nonno Mario”. E solo una nomenklatura mediocre e provinciale può non rendersi conto di quanto valga ovunque nel mondo il “dividendo Draghi”. Per questo avevamo detto e scritto che sarebbe stato di vitale importanza non rinunciare a questa risorsa, qualunque fosse l’incarico che gli si fosse voluto affidare. Almeno da questo punto di vista, l’esito finale è positivo.

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La fine delle coalizioni e della «nuova» politica

domenica, Gennaio 30th, 2022

di Antonio Polito

La grande sconfitta di questa settimana è quella che ha dimostrato di essere solo una specie deteriore di politica, persino più bizantina, misteriosa e opaca della precedente

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Illustrazione di Doriano Solinas

Ora che tutti i reduci si issano sulle trincee, laceri e contusi, per sventolare la bandiera e cantare vittoria, ci sono due modi più intelligenti di festeggiare lo scampato pericolo. I l primo è alzare gli occhi al cielo e ringraziare ancora una volta il santo protettore dell’Italia; il secondo è abbassare lo sguardo sulle macerie fumanti della battaglia che hanno ingaggiato, e fare il conto dei morti e dei feriti, per cominciare a capire come si possa ricostruire un edificio politico bruciato fino alle fondamenta, un sistema ormai patologicamente non più in grado di prendere decisioni.

Il paesaggio è irriconoscibile. Il centrodestra non c’è più. E stavolta non è una metafora, è una constatazione. Per molto tempo non vedremo più su un palco insieme Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Il tweet della leader di Fratelli d’Italia delle 11.38 di ieri mattina, «Non voglio crederci», con cui ha salutato la decisione di Salvini di pregare Mattarella per un altro mandato, rimarrà a ricordarci data e ora del divorzio nella destra. L’immagine di Elisabetta Casellati che esce piegata e scossa dall’Aula del Senato, inseguita dall’ingiuria di una settantina di franchi tiratori, segna il momento fatale della ritirata. Il comunicato della sera di venerdì con cui Forza Italia annunciava che di lì in poi avrebbe trattato per sé, sanciva che non c’è più un Capitano. Salvini non è più il capo di niente, se non della Lega. E non è nemmeno chiaro fino a quando, dopo una tale sconfitta sul campo.

Azzardiamo un pronostico: se continua così, una riforma elettorale in senso proporzionale diventa paradossalmente una necessità per Salvini e per Meloni: insieme non possono più stare.

Ma pure il paesaggio del «campo largo» è devastato. Il surrogato di centrosinistra che Letta sperava di mettere in piedi per le prossime elezioni ha perso una delle due ruote del carro: Giuseppe Conte. L’ex avvocato del popolo, al momento culminante, ha sentito il richiamo della foresta, e ha tentato il colpo con Salvini e Meloni, in un’inedita alleanza verde-nero-gialla. L’incolpevole Elisabetta Belloni, capo dei servizi segreti candidata a capo dello Stato, è stata a un passo dall’essere usata per spaccare la maggioranza di governo e il Parlamento. Si deve alla prontezza di riflessi democratici di Matteo Renzi e Luigi Di Maio (ormai capo indiscusso della fetta più grossa dei Cinque Stelle), e anche alla resistenza nella notte della Repubblica di politici più sottotraccia, da Speranza a Franceschini, da Quagliariello a De Pretis, da Toti a Tajani, se ieri mattina l’Italia non si è svegliata senza più un governo e senza ancora un capo dello Stato. Enrico Letta è riuscito a tenere insieme il Pd, e questo è già un miracolo; e soprattutto a salvare Draghi, anche se al governo e non al Quirinale come avrebbe voluto, evitando l’avventura. Il suo è stato un efficace gioco di rimessa, con una sola defaillance: l’esitazione di un paio di ore con cui ha aperto la strada all’ultima manovra Salvini-Meloni-Conte, offrendo loro nella lista il nome della Belloni.

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La giornata dell’elezione di Mattarella: la svolta, i leader confusi, l’applauso liberatorio

domenica, Gennaio 30th, 2022

di Aldo Cazzullo

Le parole di Salvini, il tweet furioso di Meloni, il catenaccio di Letta, la gioia dei peones, la processione dei capigruppo, il caso-Giorgetti. Fino all’applauso finale, che fa calare il sipario su una settimana surreale

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La svolta della settimana che – per la seconda volta nella storia – ha visto la rielezione del capo dello Stato è alle undici del mattino del sabato. Matteo Salvini ha appena annunciato il sì alla rielezione di Sergio Mattarella. Si ferma un attimo in un angolo, al secondo piano di Montecitorio: «Io il grande sconfitto? Ho fatto diciotto riunioni, tutte inutili. Ho proposto nomi importanti, tutti bruciati. Ho detto alla sinistra: fateli voi, i nomi. Hanno risposto: Belloni, e poi se la sono bruciata loro. Basta. Mattarella resta al Quirinale, Draghi a Palazzo Chigi, i ministri e i parlamentari al loro posto»; e che cominci la campagna elettorale, l’unico contesto in cui Salvini dopo i disastri di questi giorni si sente davvero a proprio agio.



Giorgia Meloni twitta: «Salvini propone di andare tutti a pregare Mattarella di fare un altro mandato. Non voglio crederci». Parole quasi sprezzanti per sancire che il centrodestra non esiste più, a questo punto ognuno per sé; e la Lega potrebbe prenderla in parola e lanciare la riforma proporzionale, graditissima ai democristiani del Pd, ai 5 Stelle e a Forza Italia. Dal suo letto d’ospedale, Berlusconi fa sapere che va bene così: se il capo dello Stato non può essere lui, meglio che non sia nessun altro; si va avanti con quello che c’era già.

In Transatlantico, Enrico Letta ha rimesso gli occhiali, che alle maratone tv si toglie perché la mascherina li appanna. Ha adottato la tecnica del Padova di Rocco, il catenaccio; è rimasto fermo, lasciando che gli altri andassero a sbattere. Ora dice: «Il Mattarella bis era il nostro sogno. È diventato realtà». Draghi però avrebbe garantito il Paese per sette anni; se nel 2023 la destra avrà la maggioranza in Parlamento, cosa accadrà? «Cercheremo di evitare che la destra abbia la maggioranza in Parlamento». Il ministro Andrea Orlando: «Aspettiamo a esultare, Salvini sarebbe capace di bruciare pure Mattarella». «Sergio è ignifugo» lo rassicura un peone. I peones, loro, sono decisamente allegri: sentono di aver sconfitto i tecnici e soprattutto di aver salvato lo stipendio, e pure la pensione.


Oltre a quelli del Pd, anche i grillini votano in massa Mattarella già nell’inutile rito del mattino: alla fine sono 387 le schede per il presidente. Dieci irriducibili votano Pierferdinando Casini, che si fa vivo rinunciando fuori tempo massimo a una candidatura a cui nessuno ha mai messo il veto, ma che non ha mai convinto davvero nessuno. Mario Draghi ha due voti, gli stessi di Emilio Scalzo, leader No-Tav finito in galera per aver picchiato un gendarme francese («se avesse picchiato uno dei nostri non gli sarebbe successo niente» mormora il questore della Camera Edmondo Cirielli, Fratelli d’Italia, ex carabiniere). La rielezione di Mattarella evita al premier l’umiliazione pubblica, ma pure la sua figura esce un po’ appannata: non aveva nascosto di tenere al Quirinale, e quasi tutti i partiti hanno fatto di tutto per non mandarcelo.

Alle tre di pomeriggio la penosa processione dei capigruppo – tra cui molte donne: Boschi, Bernini, Malpezzi, Serracchiani, Unterberger… – sale al Colle per implorare Mattarella di accettare la rielezione. Subito dopo arrivano al Quirinale pure i presidenti di Regione, sollevati: «I nostri elettori si lamentavano, i voti per Terence Hill e Nino Frassica li facevano molto arrabbiare». Giani (Toscana) racconta che Mattarella non appariva poi così affranto, anzi, «mi è parso soddisfatto, pronto ad andare avanti. I suoi collaboratori, Zampetti, Guerrini, erano felicissimi».

Al di là dell’enfasi mediatica su scatoloni, traslochi e caparra della nuova casa , che alla lunga potrebbe non avergli giovato, il presidente era sincero quando sperava di avere un successore. Ha preso un Paese gonfio di risentimenti antieuropei e antisistema, e si apprestava a lasciarlo con il più europeista dei governi, sostenuto dalle forze un tempo antisistema. Nei mesi più duri della pandemia ha rappresentato lo spirito di resistenza degli italiani. Dalla rielezione, per quanto storica, ha tutto da perdere. C’è un unico precedente: nel 2013 Napolitano maltrattò i grandi elettori che lo acclamavano, chiedendo riforme costituzionali che non hanno fatto una bella fine, mentre lui si dimetteva dopo due anni. Mattarella è stato chiaro su questo punto: non esiste l’istituto della rielezione a tempo; il presidente è arbitro del proprio destino.

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Omicron 2 è arrivata in Italia: già presente in nove regioni. Ecco dove

sabato, Gennaio 29th, 2022

Genova- La nuova variante del Covid Omicron 2 è in Italia. La ‘sorella’ di Omicron è già stata segnalata in nove regioni, come ha spiegato il presidente dell’Istituto superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, ma caratteristiche e sintomi non dovrebbero essere tanto diversi dal ceppo originale. Tra le regioni colpite c’è sicuramente la Liguria che ha sequenziato due casi all’ospedale San Martino di Genova: uno dopo il sequenziamento di routine nel nosocomio, il secondo invece e’ emerso dal sequenziamento di un campione derivante dal monitoraggio nazionale, che coinvolge il Laboratorio. Casi di Omicron 2 sono stati segnalati anche in Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sicilia e Toscana.

Il bollettino del 28 gennaio: casi, morti e ricoveri

Omicron e le ‘varianti sorelle’ 

La variante dominante di Sars-CoV-2  cioè Omicron in realtà comprende più ‘varianti sorelle’ ( la base B.1.1.529 e BA.1, BA.2 e BA.3). Ora si sta facendo strada la Omicron 2, cioè la BA.2. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): “Un certo numero di Paesi ha segnalato recenti aumenti nella quota di sequenze attribuite a BA.2”. Ma al momento la Omicron BA.1 resta la predominante, con una presenza all’interno della famiglia Omicron del 98,8% delle sequenze presentate alla piattaforma Gisaid al 25 gennaio 2022. La variante Omicron BA.2 si distingue da quella predominante, la B.1.1.529, per alcune mutazioni sulla proteina Spike con il quale il virus aggancia le cellule.

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