Archive for Gennaio, 2022

Pastorelli e vecchie volpi

sabato, Gennaio 29th, 2022

Augusto Minzolini

Agnelli, vecchie volpi e pastorelli inesperti. Questa edizione dei giochi quirinalizi andrebbe raccontata così. Gli agnelli sono quel 70% di parlamentari alla prima esperienza che spesso si trovano a dover seguire indicazioni insensate.

Immaginare che Elisabetta Belloni – grande servitrice dello Stato, con tanti anni nella burocrazia ad alto livello, persona stimabilissima – possa passare al di là dei tanti meriti direttamente dal ruolo di capo dei servizi segreti alla presidenza della Repubblica in un grande democrazia occidentale, vuol dire che si è completamente a digiuno di un minimo di sensibilità istituzionale. L’unico precedente che si ricordi di primo acchito è in un Paese molto particolare sul piano della democrazia: la Russia in cui Vladimir Putin diventò presidente passando per il Kgb. Ma almeno lui è stato legittimato da un’elezione diretta: differenza non da poco.

Ecco perché si ha l’idea che le vecchie volpi indichino dei candidati ben sapendo che alla fine saranno bocciati. E che dei pastorelli sbadati seguano le loro tracce perché hanno smarrito la strada. Per cui le vecchie volpi sfogliano la rosa, petalo dopo petalo, per arrivare al nome che è nei loro piani. E i pastorelli vanno loro dietro pensando che quei candidati siano veri e non specchietti per le allodole.

Il problema è che per scoprire le vecchie volpi devi disboscare il bosco dell’ipocrisia. Solo a quel punto si rivelano i loro giochi e la loro strategia. La vecchia volpe Enrico Letta, ad esempio, punta a Mario Draghi per andare alle elezioni. In questo giocando a distanza con una giovane volpe come Giorgia Meloni, che per avere le urne farebbe anche un patto con il diavolo, manderebbe sul Colle chiunque, pure Belzebù. I pastorelli sono Giuseppe Conte e Matteo Salvini, che non si accorgono come gli altri due seguano tattiche speculari.

Ecco perché sull’ipotesi di un nuovo governo che dovrebbe sostituire l’attuale non si fa un passo avanti. È impossibile: se è già difficile trovare un nome, un solo nome, per il Quirinale, immaginate quanto possa essere complesso individuare un nuovo premier, un’intera squadra di ministri e sottosegretari e, magari, anche un programma aggiornato su energia e inflazione. Il tutto senza l’autorevolezza di Draghi. Non prendiamoci in giro: il Financial Times e l’Economist lo hanno capito, i nostri giornali no.

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Belloni si prende la pole ma Casini resta in gioco

sabato, Gennaio 29th, 2022

Pasquale Napolitano

Si restringe il campo dei nomi per il Quirinale. Fuori il presidente del Senato Elisabetta Casellati, impallinata dai franchi tiratori (71 solo del centrodestra), si accelera su Elisabetta Belloni: il capo del Dis sarebbe il punto di caduta in un accordo tra Conte, Salvini e Letta. È il leader della Lega che annuncia la svolta rosa: «Sto lavorando per una donna in gamba».

Ecco l’identikit che porta al nome di Belloni. La mossa di Salvini fa schizzare, nel borsino del toto-Quirinale, le quotazioni del numero uno dei Servizi Segreti che in una corsa a ostacoli, nel tratto finale, supera il premier Mario Draghi e l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini. Matteo Renzi si sfila: «Diremo no a Belloni». Il no arriva anche da Fi. Nel vertice di centrodestra si studiano le opzioni: Fi punta su Casini ma la Lega dice no. Giovanni Toti è per Draghi o Casini. Ma da Fdi le ipotesi vengono cassate. Altra donna su cui si ragiona è l’ex ministro della Giustizia Paola Severino. Resta in pista il Guardasigilli in carica Marta Cartabia che anche nelle ultime due votazione raccoglie consensi. Nome gradito a una parte di Forza Italia. Ma c’è chi avanza dubbi sull’uscita di Salvini – «una mossa per alzare il prezzo nella trattativa con Draghi», rivela al Giornale un parlamentare di Fi.

Quella di Draghi resta un’opzione ancora molto forte sul tavolo. Però c’è un ostacolo: la partita va chiusa entro oggi. Più si allungano i tempi e più si riducono le chance di un trasloco dal capo del governo da Palazzo Chigi al Colle. Ieri sera, dopo il vertice Letta-Salvini-Conte, rimbalza per alcune ore un altro schema: Casini a Palazzo Chigi, Draghi al Colle. Un’operazione che non avrebbe avuto il via libera da parte del futuro inquilino (Draghi) del Colle. E il mancato accordo sul futuro assetto di governo avrebbe spinto il segretario del Carroccio a virare su Belloni. Sono le ultime fiammate tattiche, per portare a casa un accordo con il maggior vantaggio politico. Casini resta in corsa. Sia per Chigi (per il dopo Draghi) che per il Colle. La strada che porta all’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini al Quirinale è stretta. E serve del tempo – spiega un senatore della Lega – a Matteo Salvini per far digerire la decisione al partito. Su Casini c’è un via libera quasi unanime da parte dei centristi e di Forza Italia. Casini potrebbe essere l’ultima carta da giocare prima che i leader vadano in processione al Colle per convincere il presidente della Repubblica al bis. Mattarella è la prima scelta di Silvio Berlusconi e della pattuglia azzurra vicina al ministro del Sud Mara Carfagna.

Sull’ipotesi del bis del capo dello Stato uscente iniziano a muoversi anche nel fronte del centrosinistra. Il secondo bis negli ultimi 10 anni sarebbe un precedente pericoloso, nonostante la valanga di voti per il capo dello Stato nella sesta votazione. E dunque la carta Mattarella viene considerata come ultima soluzione. Si forzerà fino alla fine su Draghi, Belloni o Casini. Nel Pd c’è l’area dei franceschiniani che lavora per Casini. La corrente Base riformista che fa capo al ministro della Difesa Lorenzo Guerini è in campo per Draghi. Dal fronte di Forza Italia fanno trapelare che «Salvini e Letta vogliono Draghi».

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Jens Stoltenberg: “La Nato è pronta a reagire a ogni tipo di aggressione in Ucraina”

sabato, Gennaio 29th, 2022

Marco Bresolin

DALL’INVIATO A BRUXELLES. La Nato continua a cercare la via del dialogo con la Russia, ma «è preparata al peggio» e si tiene pronta a scatenare la sua risposta che «farà pagare a Mosca un prezzo altissimo». Sono giorni di massima tensione per Jens Stoltenberg, segretario generale dell’Alleanza atlantica. Nel quartier generale di Bruxelles, l’ex primo ministro norvegese delinea i punti della strategia per affrontare la crisi ucraina. E in questa intervista a «La Stampa» assicura che la Nato non vede ambiguità nella posizione italiana perché il premier Mario Draghi gli ha garantito che anche Roma, se necessario, «è pronta a imporre sanzioni».

Durante la telefonata con Macron è emersa l’insoddisfazione di Putin per le risposte che avete inviato: si aspettava questa reazione?
«Siamo pronti ad avviare un dialogo con la Russia. Nessuno ha interesse ad avere un conflitto armato. Con una soluzione politica ci guadagneremmo tutti. L’abbiamo invitata al Consiglio Nato-Russia e poi abbiamo inviato proposte scritte insieme con gli Usa. Ho capito che hanno bisogno di più tempo per valutarle. Noi siamo pronti a incontrarli quando loro saranno pronti, a sederci e a discutere per parlare di tutte le questioni che sono sul tavolo».

È fiducioso oppure teme il peggio?
«Stiamo lavorando duramente per la migliore soluzione politica, ma siamo preparati al peggio. Il nostro messaggio è che se la Russia userà ancora una volta la forza contro l’Ucraina, dovrà pagare un prezzo alto, con sanzioni economiche e politiche. Forniremo supporto all’Ucraina per sostenere il suo diritto all’autodifesa e ovviamente siamo anche pronti a proteggere e a difendere tutti gli alleati, se necessario».

Come si concretizzerà la vostra risposta in caso di attacco?
«Abbiamo chiarito che ci saranno sanzioni. Inoltre il supporto fornito dagli alleati all’Ucraina, le attrezzature e l’addestramento, costerà caro alla Russia perché l’esercito ucraino è molto più preparato, addestrato ed equipaggiato rispetto al 2014. E se l’obiettivo della Russia è avere meno Nato ai suoi confini, otterrà il contrario. In caso di aggressione, anche questa volta invieremo più forze».

Che tipo di “attacco” potrebbe scatenare una vostra reazione? Un’invasione militare o anche altro?
«Potrebbe trattarsi di un’invasione a tutti gli effetti con decine di migliaia di truppe, artiglieria, missili. Ma potrebbe anche trattarsi di aggressioni di altro tipo. Operazioni sotto copertura, sabotaggi, colpi di Stato e gravi attacchi informatici. Siamo pronti a reagire anche a questo. Vedo anche che la Russia ha già molti ufficiali dell’intelligence che operano all’interno del Paese».

È sicuro che tutti gli alleati saranno pienamente allineati sulla risposta da dare alla Russia?
«Sì, sono fiducioso perché l’abbiamo già dimostrato. Nel 2014, contrariamente alle previsioni di alcuni analisti, gli alleati europei e il Nord America sono stati capaci di imporre sanzioni e di sostenerle per otto anni. E ora hanno dichiarato di essere pronti a farlo di nuovo».

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Giannini: “La sconfitta della Casellati è il fallimento di Salvini, adesso siamo al bivio: Draghi o Mattarella”

sabato, Gennaio 29th, 2022

Il direttore de La Stampa, Massimo Giannini, ha fatto il punto della situazione sull’elezione del capo dello Stato durante Quirinal Game: “Chi aveva ancora un barlume di speranza che Salvini fosse lucido nel pensare che la sua ‘cerimonia cannibale’ riflettesse un metodo, ha capito che non è stato così. La speranza con la candidatura della Casellati era quella di trovare un candidato che potesse far breccia dall’altra parte, cioè nel ventre molle dei 5stelle, i post-grillini che non si riconoscono nella linea di Conte nè forse in quella di Di Maio. Non è andata così. Ora o spunta il nome di Casini, il candidato sommergibile che potrebbe risalire a quota periscopica, o non resta che tornare da Draghi e Mattarella”

LA STAMPA

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Le condizioni di Mattarella

sabato, Gennaio 29th, 2022

Ugo Magri

ROMA. Intorno a Sergio Mattarella il cerchio, pericolosamente, si è ristretto. Tutte le terne e quaterne di candidati che circolavano nei giorni scorsi sono state spazzate via insieme con la pretesa del centrodestra di intestarsi la scelta del Quirinale. Cosicché adesso rimangono in campo una manciata di nomi, tra i quali figura suo malgrado quello del presidente uscente. Anzi il suo sarebbe davanti agli altri, se l’umore dei «grandi elettori» avesse un peso e si volesse dar retta ai 336 che ieri sera lo hanno indicato nero su bianco nella scheda. Dopo il trionfo dei tecnici, e le mille geremiadi sulla fine della politica, è a dir poco straordinario che il Parlamento stia tentando in queste ore di riappropriarsi del suo destino. Ma nonostante la valanga di voti resta ancora uno scoglio, forse il più difficile da superare: occorre che ci sia la disponibilità del diretto interessato.

Tanto per cominciare, qualcuno dovrebbe recarsi da Mattarella e chiedergliela. Non questo o quel leader in ordine sparso, perché l’uomo si è chiamato fuori, evitando qualunque tipo di contatti e di incontri. Ha trascorso la giornata di ieri tra il suo studio presidenziale e l’appartamento in affitto ai Parioli dove sta traslocando, e ci sono ancora gli arredi da sistemare. Nessuna «unità di crisi» con i più stretti collaboratori, che continuano a tenere la bocca cucita come si conviene nei passaggi chiave della storia repubblicana. Dai pochi spifferi di palazzo risulta che il presidente è ben saldo nei convincimenti noti; ai suoi occhi l’eventuale «bis» rimane una forzatura della Costituzione che si potrebbe giustificare soltanto alla luce di un’emergenza, per scongiurare un gioco al massacro, e in totale mancanza di soluzioni più praticabili. Ma davvero non ci sarebbero alternative a un suo secondo mandato? Com’è possibile che siamo precipitati così in basso?

Se stamane si presentassero al Quirinale i rappresentanti di tutti i partiti, o perlomeno di quelli più rappresentativi, e da Enrico Letta a Giuseppe Conte, da Antonio Tajani a Matteo Salvini di comune accordo lo pregassero di restare, Mattarella solleciterebbe risposte chiare a queste domande. Chiunque al suo posto vorrebbe anzitutto capire di cosa si tratta, come diavolo siamo finiti in questa impasse, quali perverse logiche l’hanno determinato, per quale motivo toccherebbe proprio a lui farsene carico e non, per esempio, ad altre figure delle istituzioni che hanno generosamente offerto la loro disponibilità, a cominciare dal premier Mario Draghi. Oltre alle spiegazioni del caso, è lecito immaginarsi che dalle varie forze politiche Mattarella pretenderebbe garanzie di totale rispetto del suo ruolo e delle sue prerogative costituzionali. Troppo facile chiedergli, anzi supplicarlo di restare, salvo tra un anno, qualora dalle prossime elezioni politiche emergessero maggioranze diverse, contestare il presidente e trattarlo come un inquilino abusivo del Quirinale. Nessuno dovrà poter usare nei suoi confronti l’arma della delegittimazione (come invece qualcuno, dalle parti dei Fratelli d’Italia, ieri sera ha cominciato a fare, rimproverando a Mattarella di non opporsi «all’utilizzo del suo nome» nelle schede, come se potesse controllarle a una a una). Si tratta, è ben chiaro, di garanzie molto difficili tanto da ottenere quanto da offrire.

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Il gioco di rimessa e il doppio rischio che corre Letta

sabato, Gennaio 29th, 2022

Federico Geremicca

Ieri ci ha rimesso le penne addirittura la presidente del Senato, seconda carica della Repubblica. Ha voluto candidarsi – o lo hanno voluto Salvini e Meloni – ed ha ottenuto la miseria di 382 voti: poco meno di cinquanta in più di quelli arrivati – in serata – a Sergio Mattarella. Che non solo non è candidato, ma di quei voti non ne vuol sapere. «Bisogna tenerne conto», annotano invece fonti anonime del Pd. E forse qualcosa comincia a venire più in chiaro.

La sensazione, infatti, è che il gioco di rimessa scelto da Enrico Letta – scelta forzata, ovviamente, e dettata dai numeri – non possa durare ancora a lungo. Fino ad ora, è vero, ha funzionato alla perfezione. Scegliere di far fare la partita al centrodestra – sicuro che alla fine del primo tempo sarebbe già scoppiato – si è rivelata una mossa furba. Un retropensiero, forse, gli suggeriva che – pasticcio dopo pasticcio – si sarebbe arrivati a Draghi. O a Mattarella. Ma non è successo, o non è ancora successo.

A questo punto, il segretario del Partito democratico corre un doppio rischio. Il primo, è finire nei panni del Signor No, quello che impedisce l’elezione di un presidente (ed i suoi no, in effetti, sono stati tanti); il secondo, è vedersi piombare addosso l’onere di una proposta: e al punto cui si è giunti, insistere sul nome di Mario Draghi potrebbe non esser più sufficiente. Inoltre, i due «nemici per la pelle» – Conte e Salvini – hanno ripreso davvero a parlarsi. E potrebbe venirne fuori di tutto…

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Vertice con Salvini, Draghi spiazzato dall’accelerazione su Belloni e dall’apertura di Letta

sabato, Gennaio 29th, 2022

Ilario Lombardo

Mario Draghi difficilmente lascia trapelare le proprie emozioni, ma quando Matteo Salvini gli comunica che il nome di Elisabetta Belloni è quello su cui la Lega è pronta a orientarsi assieme al Pd e al M5S, il volto del premier lascia intuire subito tutto il suo stupore. 

Il leader del Carroccio e il presidente del Consiglio vengono visti uscire uno dopo l’altro dalle parti di Via Veneto. Siamo al crepuscolo di una giornata infernale, con il girone parlamentare che ha già bruciato il nome della vicepresidente del Senato Maria Elisabetta Belloni, e con lei anche la credibilità della strategia del centrodestra. 

Draghi attende di capire cosa succede. Salvini gli chiede un incontro per portagli la peggiore notizia che potrebbe aspettarsi. Gli comunica che non sosterranno il suo nome, annunciandogli che invece punteranno sulla coordinatrice dei servizi segreti, donna di grande prestigio, su cui Salvini è certo che convergeranno tutti i partiti. Sembra fatta, forse anche agli occhi del premier. Ma non è così.

Draghi torna a Palazzo Chigi adombrato. È chiaro il motivo per cui il nome di Belloni rappresenta un’insidia per il capo del governo. È stato lui a volerla a capo del Dis, il Dipartimento dell’informazione per la sicurezza, e la considera donna di assoluta fiducia. Candidarla al posto del premier, è una mossa maturata da giorni tra Movimento 5 stelle e Pd, poi condivisa con la Lega.

Draghi sapeva come tutti che era un nome autorevole, con un gradimento trasversale in tutti i partiti, ma non si aspettava la brutalità di un’improvvisa accelerazione. Rimane colpito soprattutto dal fatto che anche Letta sembra aver dato il via libera. Se ne vuole accertare. E così in serata, dopo che Salvini si intesta la scelta di una donna e Giuseppe Conte lo segue, per rivendicare di avere sempre sostenuto una candidatura femminile, il premier contatta il segretario del Partito democratico.

Draghi vuole capire cosa sta succedendo. Non sa che sin dall’inizio i dem condividono il nome di Belloni con Conte, assieme a Marta Cartabia e a Paola Severino. Belloni non è certo la prima scelta di Letta. L’ex premier sa che suona quantomeno inopportuno che il capo degli 007, seppur da soli sette mesi, diventi il primo presidente della Repubblica. «Ma è una donna e non potevo certo sottrarmi» è il senso della spiegazione che offre a Draghi.

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Renzi e il Quirinale: «Qui non siamo a Sanremo». Lucido e cinico, le 5 giornate del leader di Italia Viva

sabato, Gennaio 29th, 2022

di Fabrizio Roncone

Matteo Renzi sostiene di non essere «quello che dà le carte» in questa elezione del presidente della Repubblica. Ma sono in molti ad aspettare (e temere) le sue parole: «È l’unico che può sapere qualcosa…»

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S i è messa male.
Aria pesante nel cortiletto di Montecitorio (a parte l’allegria trattenuta di certi forzisti — curioso, eh? — che godono come matti per il tragico tonfo della Casellati).
Rapida occhiata: ecco Ignazio La Russa che ha appena ringhiato a Giovanni Toti: «Stai festeggggiàndooo pure tu…»; la leghista Laura Ravetto rimprovera a sua volta duramente un tipo alto, che subito china la testa; nuvole dolciastre di sigaro cubano; Marco Rizzo, l’ultimo comunista italiano, seduto a gambe larghe su una panchina davanti alla fontana, osserva tutti disgustato.

Poi al cronista di un tigì squilla il cellulare. È il suo direttore. Breve colloquio. Ripone il cellulare in tasca: «Il capo vuol capire come finisce. Dice che devo farmi una chiacchierata con Matteo, l’unico che può sapere qualcosa». Salvini? «Sei scemo?».
Cercare Matteo Renzi.
Farlo parlare, spiegare.

Del resto: è ormai da lunedì che Renzi sta sempre un po’ avanti nella narrazione di questa storia Quirinale. Lucido, spiazzante, mai consolatorio. Però niente stupore: perché se c’è uno che sa alla perfezione come si elegge il capo dello Stato, è lui. Stavolta, ovviamente, non può dare le carte. E ne è cosciente. Alla vigilia del voto spiegò: «Io il kingmaker nell’elezione del Presidente? Con Mattarella sì, questo giro no. Sette anni fa, ai tempi del Pd, avevo 400 parlamentari. Ora, con Italia Viva, ne controllo 40: è leggermente diverso». Così cerca di svelarci le carte che hanno in mano gli altri. E come dovrebbero giocarsele.

WhatsApp a chi si fida (adora spedirne, è velocissimo a scriverli: mezzo di comunicazione preferito). Brevi telefonate. E spettacolari ingressi in Transatlantico: eliminata l’odiosa pinguedine (prima di venire qui, al mattino presto, si infila una tutina di fibra nera da runner professionista e parte sparato correndo nei vicoli dietro piazza San Lorenzo in Lucina), abito blu modaiolo e quindi un po’ striminzito, un filo di abbronzatura (ricordo dei recenti viaggi d’affari in Arabia Saudita), passo sicuro, rallenta e si lascia consultare.

Di solito, è fulminante: «Serve un accordo, non siamo Sanremo» (materiale per articolo e titolo nella stessa frase). Pragmatico: capita l’antifona, intuita la palude, l’altra mattina ha sollecitato: «Mi auguro che la presidenza inizi a farci votare due volte al giorno: c’è una crisi tremenda in Ucraina». Decodificato: dobbiamo cominciare a contarci, ci sarà sicuramente qualche candidato da sacrificare, va capito se i capi dei partiti controllano i gruppi, e quanti franchi tiratori vi si annidano; con una sola votazione al giorno, a carnevale, saremo ancora qui (e non è detto che comunque vada diversamente). Sprezzante davanti ad alcune soluzioni proposte dall’altro Matteo. Tipo quando il Capitano ha cominciato a dire che avrebbe presentato una cinquina di candidati. «Siamo in Parlamento: questa non è una sala da super bingo». Ruvido, e però talvolta accudente: «Quello che comunque ha l’asso in mano è lui, Salvini. Deve solo decidere quando calarlo».

Su Draghi è, da giorni, il più netto. E il più incalzante. «È Maradona, il nostro fuoriclasse: dove vogliamo farlo giocare? Chiaro che può andare al Quirinale, ma solo attraverso un percorso politico, non un concorso a premi». Sull’ipotesi Elisabetta Belloni: «È il capo dei Servizi segreti. Ipotesi non percorribile. Il presidente dell’Egitto Abdel Fattah al-Sisi ha fatto un percorso così». Quando sente che il centrodestra ha deciso di puntare su Maria Elisabetta Casellati, va giù duro: «Andare avanti è difficile: a questo punto non escludo un Mattarella bis» (lo dice a Radio Leopolda, una web radio un po’ pirata, diretta da Roberto Giachetti, che qui nel cortiletto piace un sacco: per dire, s’è collegato anche Enrico Mentana).

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Presidente della Repubblica, a che punto siamo: lo scontro su una donna, i voti per Mattarella, i veti dei partiti

sabato, Gennaio 29th, 2022

di Francesco Verderami

Blitz, trappole, dietrofront: la trattativa è ancora bloccata, alla vigilia della settima e dell’ottava votazione. Dopo l’annuncio di Salvini e Conte sulla candidatura di una donna, protestano i ministri del Pd. E avvisano Letta: così noi ci stiamo unendo alle forze estreme

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Da ieri il centrodestra non esiste più e si vedrà fino a quando esisterà ancora il centrosinistra. La corsa per il Colle si trasforma in una rissa e dal caos emerge il blocco delle forze populiste, che avrebbe potenzialmente i numeri per imporre un proprio candidato al Quirinale ma che in quel caso farebbe saltare il governo. Tutto si consuma alla fine di una giornata in cui l’improvvida candidatura della presidente del Senato alla quinta votazione, viene usata da Salvini per uscire dal cul de sac in cui si trova. «Lui deve scegliere con quale veleno morire», diceva Bersani mentre si svolgeva lo scrutinio dall’esito scontato: «Deve decidere se tenere unito il centrodestra appoggiando Draghi, o se sacrificare il rapporto con la Meloni appoggiando Casini».

Il leader della Lega ha invece deciso di scartare, nella speranza di trovare una via di fuga: sapeva che la Casellati sarebbe caduta per effetto del fuoco amico, sapeva che gli avrebbero addebitato la sconfitta («questi sono i 101 di Salvini»), ma ha colto l’occasione per sbarazzarsi — d’intesa con la Meloni — dei centristi e di Forza Italia, considerati ormai propaggini di una storia finita. Così, al termine dell’incontro con il premier, Salvini ha chiesto a Letta e Conte un appuntamento. Il leader dem glielo ha accordato «a patto che cadessero i veti». Sembrava l’epilogo della Corsa, al punto che un membro della segreteria del Pd spiegava come si stesse andando «verso la soluzione: con Draghi al posto di Mattarella».

Ma al vertice Letta si è trovato stretto nella tenaglia dei due alleati ai tempi del governo giallo-verde, che da giorni cercano disperatamente di uscire dalla trappola. È a quel punto che Conte e Salvini — forti del sostegno della Meloni — hanno giocato di sponda sul nome della Belloni, lasciato inopinatamente dai democrat nella rosa. La cosa sorprendente è che Letta non ha posto subito il veto, non ha avuto la reazione che di lì a poco avrebbe avuto Renzi: «Il capo dei servizi segreti non può fare il presidente della Repubblica, com’è accaduto in Egitto con Al Sisi. L’assenza di un codice etico istituzionale si nota in chi ha fatto la proposta e in chi non si è opposto». Dopo l’annuncio del leader leghista e del capo grillino, nei gruppi parlamentari del Pd è esplosa la protesta e tutti i ministri hanno chiesto a Letta quale fosse «lo schema politico dietro questa candidatura: perché così noi ci stiamo unendo alle estreme».

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Il presidente sta alla finestra Ma con un vero plebiscito potrebbe accettare il bis

venerdì, Gennaio 28th, 2022

Massimiliano Scafi

«Ma insomma». No, non si estorce altro oggi dal Colle. Non un commento, non una reazione, nemmeno un moto di umana soddisfazione personale per quei 166 voti deposti dai grandi elettori nelle insalatiere un po’ kitch di Montecitorio. «Il presidente non esiste», sostengono i suoi uomini. Non interviene, non parla, non fa trapelare. Non può, non vuole e non deve dire niente. Se è contrariato, se lo tiene per sé. Se è lusingato, non lo dimostra, si limita «ad assistere». Una cosa però, sotto la cortina di silenzio, si capisce bene: se tutte quelle schede servono a fargli cambiare idea, ad accettare un bis, ebbene ancora non basta. Il segnale è debole, ci vuole ben altro, magari un’iniziativa più formale e strutturata, meno abborracciata, e non è detto che funzionerà.

E quindi, siamo al «ma insomma». Al Quirinale il ragionamento si ferma a queste due parole, però possiamo immaginare come prosegua: ma insomma, tu che sei bruttino e messo male in arnese, come puoi pensare di andare a corteggiare la ragazza più bella del quartiere scrivendo «ti amo» sul muro con la vernice, come un graffitaro? Che pretese. E che modi, non ci si comporta così: almeno devi presentarti con l’anello. La forma in questo casi diventa sostanza. Dunque, almeno al momento, la proposta è irricevibile, anzi non viene neanche considerata una proposta. Dario Franceschini, che sta organizzando «l’appello spontaneo dei grandi elettori» per spingere il capo dello Stato a tornare sui suoi passi, dovrà ancora lavorarci parecchio su.

Eppure, le schede per Sergio Mattarella sono ormai un’onda crescente. Più che un’invocazione, o la richiesta di stabilità, o la paura delle elezioni anticipate, qui siamo di fronte a una vera proposta politica, all’uovo di Colombo che consentirebbe di rassicurare le cancellerie e i mercati, di confermare l’assetto istituzionale che sta portando fuori il Paese dalla pandemia e dalla crisi economica e, a tutti i protagonisti della corsa al Colle, di salvare la faccia. Peccato che il diretto interessato non sia d’accordo: sono sei mesi che il capo dello Stato, da quando è scattato il semestre bianco, non perde occasione pubblica per ripetere come lui sia indisponibile, per motivi costituzionali, a un secondo mandato. Ha citato Leone e Segni, ha spiegato che sette anni sono già troppi, ha sostenuto che dopo il bis di Napolitano non si poteva fare una seconda eccezione. Ha fatto gli scatoloni, li ha fatti postare persino su Twitter dal portavoce Giovanni Grasso.

Ma i partiti, Cinque Stelle e anche Pd, non demordono. L’idea originaria per convincere il presidente era proprio quella di copiare quanto è successo nel 2013 con Giorgio Napolitano. Candidati impallinati, guerra per bande, in panne pure le contemporanee trattative per la formazione del governo dopo il pareggio tra Nazareno e grillini, all’epoca incompatibili. Per risolvere il grande ingorgo istituzionale, i leader delle principali forze politiche si presentarono al Quirinale da King George con il cappello in mano pregandolo di restare. Napolitano accettò, strapazzo i partiti con un durissimo discorso di insediamento e varò l’esecutivo di unità nazionale guidato da Enrico Letta.

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