Archive for Gennaio 21st, 2022

Tonga, arrivati i primi aiuti dopo l’eruzione. Ora si teme uno tsunami di Covid

venerdì, Gennaio 21st, 2022

Sydney – A cinque giorni dall’eruzione del vulcano Hunga Tonga-Hunga Hàapai e del conseguente tsunami s’interrompe l’isolamento delle isole Tonga: nell’aeroporto principale dell’arcipelago sono atterrati i primi aerei militari australiani e neozelandesi con gli aiuti. Si stima che tra case distrutte, infrastrutture danneggiate e black out di telefoni e Internet, l’attività eruttiva abbia colpito più dell’80% della popolazione delle isole.

Tutti i numeri dell’eruzione

Sydney ha inviato un aereo C17 Globemaster e presto ne invierà un altro. La ministra degli Esteri neozelandese, Nanaia Mahuta: “L’aereo neozelandese “trasporta aiuti umanitari e materiale di soccorso in caso di catastrofe, in particolare contenitori d’acqua, kit igienici, rifugi temporanei, generatori e apparecchi di comunicazione”.

Ma la macchina dei soccorsi si è appena messa in moto e aiuti aerei sono stati promessi dal Giappone, Cina e Francia. Sempre dalla Nupva Zelanda domani dovrebbero arrivare gli aiuti via mare. 

Tonga ha bisogno di aiuto, ma l’arcipelago è al momento considerato “libero” dal Covid e le autorità chiedono ai soccorritori di attenersi ai rigidi protocolli per la consegna degli aiuti.

Le vittime sono tutte investite dallo tsunami, tre donne due peruviane e una britannica), ma sull’isola “sono stati segnalati dei feriti”, anche se non è ancora chiaro il numero per le difficoltà a raggiungere alcune aree remote. Il portavoce dell’Onu, Stephane Dujarric, ha spiegato: “Tutte le case sono state distrutte sull’isola di Mango e solo due sono rimaste sull’isola di Fonoifua, mentre danni significativi sono stati segnalati a Nomuka”. Sono in corso le operazioni di “evacuazione delle persone su queste isole”.

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I grandi elettori positivi voteranno al “drive in”

venerdì, Gennaio 21st, 2022

Fabrizio De Feo

Riusciranno i grandi elettori positivi al Covid a esprimere la loro preferenza e partecipare al grande appuntamento per la scelta del nuovo capo dello Stato? Il Hora de rebus che grava da settimane sull’elezione del tredicesimo presidente della Repubblica appare in via di risoluzione.

Il presidente della Camera Roberto Fico ha proposto ieri ai partiti di allestire un «drive in elettorale» nel parcheggio della Camera, in via della Missione, per consentire ai positivi o a chi è in quarantena di votare. Ora il governo deve capire se le norme vigenti bastano o vanno adeguate per permettere ai grandi elettori di raggiungere il seggio dalla propria città di provenienza. Sì, perché al di là del luogo, del meccanismo e delle modalità con cui materialmente deputati, senatori e delegati regionali scriveranno il nome sulla scheda, il problema è avere una circolare nazionale dedicata ai grandi elettori che possa disciplinare il viaggio dalle regioni di provenienza – che dovrà presumibilmente avvenire guidando un mezzo proprio senza altre persone a bordo – e il domicilio che dovrà essere indicato per la permanenza a Roma (chiaramente per chi non ha una casa di proprietà nella Capitale). Durante la riunione dei capigruppo a Montecitorio molti parlamentari si sono espressi a favore della proposta di Fico, ma secondo la maggioranza serve l’intervento del governo. In queste ore si stanno anche cercando di accelerare le operazioni di assegnazione del green pass per quei deputati diventati negativi ma che non lo hanno ancora ricevuto, visto che ci sono ritardi di diversi giorni in alcune Regioni, come era avvenuto a Pier Ferdinando Casini che però ieri ha risolto il problema.

Nella riunione dei capigruppo alla quale era presente il ministro per i Rapporti con il parlamento, Federico D’Incà, Davide Crippa (M5s) ha chiesto che il governo o la Camera offrano una soluzione per alloggio e spostamenti al drive in dei positivi che non hanno casa o una automobile a Roma. «Siamo soddisfatti per l’iniziativa del presidente Fico, in linea con la richiesta del Parlamento di consentire a tutti i parlamentari di votare e per l’elezione del presidente della Repubblica, dunque, anche ai positivi o in quarantena», dice Paolo Barelli, capogruppo di Forza Italia. «Adesso, il governo faccia la sua parte con urgenza per le necessità normative, come indicato dal Parlamento. La richiesta di garantire il voto senza escludere nessuno – portata avanti prima dal centrodestra e da Italia viva – ha trovato ora ampio consenso in tutte le forze politiche – e ne siamo contenti – nel rispetto della tutela sanitaria». «L’importante è che per la prima volta siano caduti dei tabù e che si sia affermato con forza il principio di garantire al massimo il diritto di elettorato attivo per un’elezione importantissima» aggiunge Stefano Ceccanti del Pd.

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“Non succederà nulla”, “È finito”. Le ‘profezie’ su Grillo

venerdì, Gennaio 21st, 2022

Francesco Curridori

Per la rubrica Il bianco e il nero, abbiamo parlato con il filosofo Paolo Becchi e con il politologo Gianfranco Pasquino del periodo buio che sta attraversando il M5S

"Non succederà nulla", "È finito". Le 'profezie' su Grillo

Il M5S, dopo la tegola giudiziaria che colpito il fondatore Beppe Grillo, sta vivendo una nuova crisi proprio nel momento cruciale della legislatura: l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Per la rubrica Il bianco e il nero, ne abbiamo parlato con il filosofo Paolo Becchi e Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all’università di Bologna.

Cosa succede nel M5S dopo la vicenda giudiziaria che ha colpito Beppe Grillo?

Becchi: “Quella è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Io sono un garantista con tutti e questo vale anche per Beppe Grillo, però una cosa è la vicenda giudiziaria che chiarirà la magistratura e un’altra è la vicenda politica. Credo che, considerate anche le grandi difficoltà finanziarie in cui si trova la Casaleggio Associati (che ormai non ha più nulla a che fare con i pentastellati), il M5S è finito. Questo non esclude che alle prossime elezioni possano prendere dei voti, ma non è quasi manco più corretto utilizzare questa sigla. Quella trasformazione per la vita civile e politica che molti italiani, compreso me, si aspettavano non c’è stata. Queste ultime vicende politicamente lo confermano. Non si vede molta diversità tra il M5S e il resto degli altri partiti. La tanto decantata ‘onestà, onestà’ mi sembra molto messa in discussione”.

Pasquino: “Se è una vicenda che riguarda solo Grillo, non succederà niente perché lui, in qualche modo, si era già ‘elevato’. Se non ha influenzato nessuno dei parlamentari dei Cinquestelle, loro dovrebbero proseguire esprimendo rammarico e augurandosi che Grillo esca pulito da tutta questa vicenda”.

Conte ha incontrato prima Letta e Speranza e, poi, Salvini. Che ruolo sta svolgendo dentro il M5S e nella partita per il Colle?

Becchi: “Teniamo presente che il M5S è il partito di maggioranza relativa e, invece, secondo me, Conte non sa che pesci pigliare e, per cercare di sembrare in partita, si attiva da una parte e dall’altra. Credo che anche il tentativo di rinnovamento del Movimento, per mezzo di Conte, sia fallito. Il M5S, quando si voterà, sopravviverà grazie ai voti presi al Sud col reddito di cittadinanza, ma andrà sicuramente sotto il 10%. il M5S non esiste più come progetto politico, mentre Conte rappresenta proprio una nullità politica”.

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Covid, rallenta la curva dei ricoveri. La pressione è sulle rianimazioni: i dati

venerdì, Gennaio 21st, 2022

di Fabio Savelli

I dati di Agenas e Fiaso sulle ospedalizzazioni indicano che oggi il picco è vicino. La barriera dei vaccini: nel 2020 in terapia intensiva 800 pazienti in più

Un lento raffreddamento della crescita di ospedalizzazioni nei reparti Covid si registra nell’ultima settimana. Non un’inversione della curva, precisiamo, che segnalerebbe una minore pressione sul sistema sanitario. Dunque l’allerta rimane e la sofferenza dei nosocomi anche, obbligati a rimandare interventi già calendarizzati. Ma un aumento più contenuto, non esponenziale, del tasso di saturazione dei posti occupati da malati Covid sia in area non critica, sia nelle intensive.

Sarebbe il segnale, osservano gli esperti, dell’avvicinarsi del picco di Omicron che al momento, seppur ceppo assolutamente prevalente (nell’81% dei contagi, secondo l’ultimo osservatorio dell’Istituto Superiore di Sanità), convive con la variante Delta, più letale. Agenas è un buon termometro delle tendenze sulle ospedalizzazioni perché è il contenitore informatico che contabilizza i dati provenienti dalle regioni. Nella settimana tra il 13 e il 19 gennaio il tasso nazionale di occupazione delle terapie intensive è fermo al 18%: non cresce, non scende. Dunque i nuovi ingressi nelle rianimazione, derivanti dai nuovi contagi, compensano quasi alla pari l’uscita dei malati per guarigione (o decesso). Lieve crescita invece nei reparti ordinari: il tasso di occupazione nazionale è al 30%, dal 27% del 13 gennaio, con alcune regioni, come la Valle d’Aosta, in forte sofferenza (57% dei posti occupati), Calabria (41%) e Liguria (40%).

Analoghi riscontri da parte di Fiaso, la federazione di ospedali-sentinella, una ventina in tutto il Paese. Dal 11 al 18 gennaio l’aumento dei ricoveri Covid è stato del 7,1%. Un incremento decisamente più basso rispetto all’accelerazione del 32% registrata nella settimana precedente, dal 4 all’11 gennaio. Il report evidenzia un aumento dei ricoveri ordinari pari al 7% e dei pazienti in terapia intensiva lievemente più alto, al 9%, il dato più sensibile perché le rianimazioni scontano una maggiore carenza nel Paese e sono un indicatore ancor più decisivo nel decidere (o meno) misure più restrittive. E proprio nelle intensive, segnala il presidente di Fiaso Giovanni Migliore, alla guida del Policlinico di Bari, che «il peso dei pazienti asintomatici al Covid e affetti da altre malattie è del tutto residuale. Solo il 10% dei pazienti positivi al Sars-Cov-2 è ricoverato per altre patologie. Mentre nei reparti ordinari la percentuale sale al 34%».

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Caro bollette, gas calmierato alle imprese. Si va verso il raddoppio della produzione dell’Eni

venerdì, Gennaio 21st, 2022

Alessandro Barbera

Dopo giorni di contatti per discutere dell’unica scadenza che appassiona la politica – il voto sul Colle – alle nove di stamattina Mario Draghi riunisce la sua maggioranza per affrontare un problema serissimo per gli italiani: il caro energia.

Ieri il premier ne ha discusso a lungo con il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, salito al piano nobile di Palazzo Chigi con l’intento preciso di terrorizzarlo. «Al Nord ci sono intere filiere che quest’anno pagheranno per l’energia quattro volte quello che pagavano prima della crisi», ha spiegato Bonomi. Acciaio, vetro, carta, cemento, ceramica: c’è chi ritocca i listini, con il rischio di finire fuori mercato, e chi sta riorganizzando i turni per consumare nelle ore in cui l’energia costa meno. Chi non ce la fa, riduce la produzione o fa domanda di cassa integrazione.

Per tamponare la situazione, il presidente degli industriali ha prospettato a Draghi tre soluzioni. La prima, la più rapida: il trasferimento in via preferenziale alle aziende energivore di parte della produzione nazionale delle rinnovabili. Il passaggio avverrebbe ad un prezzo predeterminato da parte del gestore della rete. La seconda: il raddoppio della produzione di gas Eni in Italia da quattro a otto miliardi di metri cubi l’anno. Anche in questo caso l’intervento verrebbe agevolato dalla firma di contratti di cessione dell’energia a prezzi predeterminati. E la terza: una estensione dei benefici fiscali per i contratti energetici delle imprese. Il governo dovrebbe accogliere le prime due richieste, più difficile la terza.

Ieri sera non era ancora chiaro cosa avrebbe trovato spazio nel decreto che verrà approvato oggi. Per la prima volta dall’inizio della pandemia il governo non ha molto a disposizione. Tre, forse quattro miliardi di euro, con i quali garantire i ristori anti Covid per discoteche, turismo, attività sportive e settore degli eventi, il resto per il caro energia. Nei ministeri si dà per scontato un intervento in due tempi, prima e dopo il voto sul Quirinale. Si discute da giorni di una tassa sugli extraprofitti del settore e ad un aumento del deficit. Nessuna delle due soluzioni sarà però varata oggi: ci sono difficoltà a scrivere una norma che non venga tacciata di incostituzionalità, e mancano le condizioni politiche per chiedere a Bruxelles nuove spese dopo una manovra da trenta miliardi.

Insomma, la grana non verrà risolta nemmeno oggi. Bonomi, di fronte ad un Draghi curioso e stupito, ha spiegato di essere scettico su un calo dei prezzi a primavera. Basta dare un’occhiata all’andamento dei cosiddetti futures su gas e petrolio. Il greggio, nonostante i proclami di Greta, resta il termometro di quel che avviene sui mercati: la qualità Brent ieri si è avvicinata a novanta dollari il barile, il Wti ha raggiunto gli 86. Gli analisti dicono che tornerà presto a costare cento dollari il barile, un livello che non si vedeva da dieci anni.

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Cosa distingue la «buona politica»

venerdì, Gennaio 21st, 2022

di   Angelo Panebianco

Ci sono due domande rispondendo alle quali diventa possibile chiarire quale sia la reale posta in gioco nella partita del Quirinale. La prima domanda è: perché alcuni auspicano e altri (a occhio, molti di più) temono che, una volta eletto il presidente della Repubblica, il governo Draghi lasci il posto — con o senza elezioni anticipate — a un altro governo questa volta totalmente controllato dai partiti? All’apparenza non ci sarebbe niente di male: non è forse la regola in democrazia? Perché l’eventualità che un governo siffatto si formi getta nello sconforto tanti italiani nonché chi, fuori d’Italia ci chiede stabilità e affidabilità? Questa prima domanda è collegata a una seconda: esiste un criterio, non banalmente moralistico, per distinguere la «buona politica» dalla «cattiva politica»?

La prima domanda mette in gioco l’eterna discussione sul cosiddetto «governo dei tecnici». Poco importa che il suddetto sia un animale inesistente , mitologico (come l’Unicorno o il Minotauro) . Poco importa che già all’inizio del Ventesimo secolo Benedetto Croce sbertucciasse chi non capiva che i governi dei tecnici non esistono. Il cosiddetto governo dei tecnici è semplicemente un governo guidato da un «intruso» (anche lui un politico ma che, per storia personale, non è stato allevato entro le consorterie politiche esistenti) . Se non che, l’intruso, soprattutto se di qualità, non è lì per uno scherzo del destino. È lì perché le consorterie in questione (i partiti), non sono state in grado di dare vita a soluzioni di governo efficienti, all’altezza della situazione di emergenza che il Paese deve fronteggiare. L’alternativa non è mai fra governo dei tecnici e governo «politico» o dei partiti. L’alternativa è solo fra governi all’altezza e governi non all’altezza. Nel caso di Draghi , data la sua storia personale, alla diffidenza dei partiti per l’intruso si somma l’ostilità di quelli che, tetragoni assertori di fossilizzate ideologie novecentesche (diffuse a sinistra come a destra), lo bollano come «uomo della finanza internazionale», longa manus dei «poteri forti» che reggono, a loro dire, i destini del mondo.

Ciò che temono coloro che guardano con preoccupazione a nuove combinazioni di governo senza più intrusi, è che i partiti in questa fase non siano in grado di dare vita a governi capaci di fronteggiare i problemi incombenti: irrobustire la ripresa economica in atto, tenere sotto controllo la pandemia, spendere in modo efficiente i fondi europei, fare le riforme necessarie eccetera.
Ciò ha a che fare con la seconda domanda: cosa distingue una buona da una cattiva politica? E perché sono (siamo) quasi tutti convinti che, non più tenuti a bada dall’intruso, difficilmente i partiti riuscirebbero a fare una buona politica?

Che cosa è una buona politica? È una politica in grado di mantenere un certo equilibrio fra la soddisfazione di interessi di breve termine e il perseguimento di interessi di medio-lungo termine. È una politica che rinuncia a consumare oggi tutte le uova disponibili (ne consuma solo alcune) in modo da avere qualche gallina domani.

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Concorsi e università, perché non viene premiato il merito

venerdì, Gennaio 21st, 2022

di Milena Gabanelli e Simona Ravizza

Ogni tanto salta fuori un concorso truccato e, allora, si grida allo scandalo. Ma non c’è nemmeno bisogno di truccare le carte, vista la consuetudine a mettersi d’accordo sul finto rispetto delle procedure. Parliamo dell’università, il luogo che sforna i futuri professionisti e la futura classe dirigente e dove a fare la differenza è la qualità del corpo docente. Ebbene, le falle aperte nei meccanismi di reclutamento dei professori universitari vanno avanti da più di quarant’anni. Dal 1980 le norme sono cambiate quattro volte senza aver mai intaccato il cuore del problema: più attenzione alla cordata di appartenenza del candidato che alla sua preparazione. E questo disprezzo per il merito condanna il nostro Paese a essere fuori dalla top 100 delle migliori università mondiali. Nonostante la prima università europea sia proprio nata in Italia.

E questo disprezzo per il merito condanna il nostro Paese a essere fuori dalla top 100 delle migliori università mondiali

I ruoli

La carriera dentro i 97 atenei italiani inizia con il dottorato e l’assegno di ricerca, poi segue il titolo da ricercatore. Quindi si diventa associati (II fascia) e infine ordinari (I fascia). In totale, i professori sono 37.996. Il loro impegno tra lezioni, esercitazioni, laboratori e seminari, è di un minimo di 120 ore all’anno. Lo stipendio parte da 2.400 euro netti al mese per gli associati, e da 3.300 euro per gli ordinari.

Dal concorso nazionale a quello locale

La stima è che, di quelli in carica oggi, poco più di 29 mila siano stati selezionati con le vecchie norme. La prima grande riforma è il Dpr 382 del 1980 firmato dall’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini: nasce la distinzione tra la figura dell’associato da quella dell’ordinario, entrambi selezionati attraverso un concorso nazionale. Prendiamo Economia, la commissione che valuta chi vuole diventare associato è scelta così: sorteggiati ventisette professori della stessa disciplina e poi tutti i professori di Economia d’Italia ne eleggono nove. Quella che, invece, valuta gli ordinari è formata al contrario: prima vengono eletti gli aspiranti commissari e poi vengono sorteggiati cinque tra i più votati. Una volta stilata la lista dei vincitori, le facoltà che hanno bandito il posto deliberano la chiamata, anche in base alle preferenze indicate dall’aspirante professore. Ma il meccanismo viene considerato troppo rigido, perché non garantisce agli atenei la possibilità di scegliere il candidato con il profilo più adatto alle proprie esigenze, che può non coincidere con il migliore candidato in termini assoluti. Nel 1998 la legge 210 del governo Prodi, ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, decreta la fine dei concorsi nazionali. Ogni università si fa il suo. I commissari sono cinque, uno interno indicato dalla facoltà e quattro esterni eletti dai loro colleghi. Risultato: su cento aspiranti, gli interni che partecipano alla selezione sono ventiquattro e vincono il posto in un caso su due. Il rischio, che i numeri fotografano senza via di scampo, è che sia dato un eccessivo vantaggio a chi è già dentro la facoltà che bandisce il concorso, con un esito già predeterminato a favore del candidato interno, indipendentemente dalle sue qualità. Le commissioni sono disponibili ad accogliere le preferenze dell’ateneo – che è rappresentato dal commissario interno – e meno attente alla qualità oggettiva dei candidati. Il principio è che oggi tu accontenti me, e io domani accontenterò te.

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Quirinale, Berlusconi «resiste» (ma non si sa quanto): gli alleati mi cercano? Vengano a trovarmi

venerdì, Gennaio 21st, 2022

di Francesco Verderami

Resistere, resistere, resistere. La parola d’ordine che il Cavaliere non intende ritirarsi dalla corsa al Colle, è arrivata ieri in mattinata agli sherpa impegnati a raccogliere i voti dei grandi elettori. Sono state le personalità più vicine al leader di Forza Italia a spiegare che «fino a quando Berlusconi non ci comunicherà qualcosa di diverso, continueremo a lavorare». Si vedrà se il fondatore del centrodestra sfiderà la sorte alla quarta chiama, ma non c’è dubbio che tatticamente oggi deve attestarsi su questa linea. O verrebbe sopraffatto dai suoi stessi alleati, che non vogliono lasciargli il ruolo del kingmaker . È bastato che si spargesse la voce sull’intenzione del Cavaliere di passare la mano — accompagnato dall’invito a convergere su Draghi — per scatenare l’iradiddio nella coalizione e indurre la Meloni a chiedere la convocazione del vertice con toni ultimativi.

Il fatto è che da giorni Berlusconi ha interrotto i contatti, complice anche la preoccupazione dei familiari per la sua salute. Ciò non toglie che gli alleati siano insofferenti per l’atteggiamento dell’ex premier, così come lui è irritato verso gli alleati per la tecnica della «doccia scozzese» che hanno applicato alla sua candidatura: perché dalle dichiarazioni sul «non abbiamo altro nome», si è passati all’evocazione del «piano B», fino all’annuncio che «daremo al Paese un capo dello Stato eletto a larga maggioranza». Perciò ieri, davanti alle richieste del vertice, il Cavaliere ha reagito: «Se vogliono parlarmi, vengano a trovarmi». Per questo Salvini si è subito speso per ribadire che «Berlusconi per noi è determinante».

In effetti il suo posizionamento blocca qualsiasi manovra e lo rende centrale. Per ora. Ma tutto questo gli sta costando fisicamente. Si era già notato all’ultimo vertice, quando non aveva fatto battute e non aveva raccontato barzellette. Da giorni poi il Cavaliere non chiude occhio, combattuto dalla decisione che dovrà prendere. Sui numeri per scalare il Colle, secondo uno dei suoi più stretti collaboratori, è stato vittima di una «contabilità velleitaria». Inoltre Pd e M5S sono pronti a disertare il voto per togliergli ogni residua speranza. Se così stanno le cose, la parola d’ordine di ieri — quel «resistere resistere resistere» — è solo un modo per tenere coperta la sua scelta.

Anche le ipotesi alternative che gli vengono attribuite, Gianni Letta e Casellati, appaiono forme di dissimulazione. L’ex sottosegretario alla Presidenza — che l’altra sera ha incontrato i ministri Carfagna e Gelmini — non solo non ci pensa ma è anche consapevole che Salvini e Meloni sarebbero contrari. Sulla presidente del Senato, potrebbero convergere in teoria i grillini, che l’hanno votata come seconda carica dello Stato. Ma lo farebbero al prezzo della rottura con il Pd? In più la candidatura resterebbe appesa alla variabile di Italia viva. Troppo rischioso per il centrodestra, che si troverebbe esposto a un pericolo concreto: veder convergere i voti di centristi, cinquestelle e democratici su Casini. Sarebbe pesante per Enrico Letta dover accettare la vittoria di Renzi e doverla poi gestire nel partito. Ma sarebbe ancor più pesante per Salvini e Meloni assistere a un simile finale. Per loro sarebbe una disfatta: non possono permetterselo.

(Il Corriere ha una newsletter dedicata all’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Si chiama Diario Politico, è gratis, e per iscriversi basta andare qui)

Non se lo può permettere nemmeno Berlusconi, ecco perché i suoi alleati attendono di capire quale sia la sua vera mossa, se è attendibile la tesi secondo cui l’ex premier — con un gesto da «padre della Patria» — starebbe preparando un documento per offrire il proprio endorsement a Draghi. È noto il fatto che il Cavaliere si sia rammaricato per «la mancanza di riconoscenza» dell’ex presidente della Bce nei suoi confronti. Ma è altrettanto nota la capacità di Berlusconi di farsi «concavo e convesso», di essere pragmatico. Da giorni le indiscrezioni sui suoi ragionamenti erano rimbalzate nel governo, da dove erano giunte al Cavaliere voci sullo stato di tensione che regna a palazzo Chigi: tanto che, dato il clima politico, il presidente del Consiglio avrebbe chiesto al Guardasigilli di spostare dopo il voto sul capo dello Stato la presentazione della riforma sul Csm. Materia incandescente.

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Quirinale, Renzi: “Non si può mettere Mario Draghi in panchina”

venerdì, Gennaio 21st, 2022

Fabio Martini

Anche chi lo detesta, lo sa: nel “fare” Presidenti (Mattarella, Draghi, se stesso), Matteo Renzi finora ha avuto un certo “tocco” e per questo il suo allarme a 78 ore dalla prima votazione non va sottovalutato: «Attenzione. Se si porta Draghi come candidato allo scrutinio segreto, lo si elegge, anche perché esporlo a una bocciatura dell’Aula significherebbe perderlo sia per il Colle che per il governo. E l’Italia una cosa non se la può permettere: rimettere Mario Draghi in panchina»

Renzi, senza la sua azione, forse Mario Draghi sarebbe ancora un pensionato ma non pensa che con un eccesso di superficialità, anche sua, si rischia di perdere una risorsa potente per il Paese?

«Diciamo che, conoscendo Mario, sono sicuro che non avrebbe fatto il pensionato di lusso ma sarebbe probabilmente un top advisor per qualche istituto finanziario internazionale. Battute a parte, le rispondo che ha ragione. Noi possiamo schierare Draghi come centravanti a Palazzo Chigi o portiere al Quirinale, ma l’unica cosa sicura è che non possiamo perderlo».

Il “titolo” Draghi non ha mai rischiato di essere sospeso per eccesso di ribasso, ma fatica a salire…

«Non mi pare né in discesa, né in salita. Draghi è Draghi, punto. Metà degli italiani sogna di vederlo per sette anni al Colle. Metà degli italiani spera di non perderlo a Palazzo Chigi. La quasi totalità riconosce che la sua presenza in politica è un valore aggiunto per le istituzioni».

L’uscita da Palazzo Chigi sarà comunque una perdita…

«Lui ha chiarito di essere a disposizione per qualsiasi ruolo il Parlamento gli chieda di esercitare e quella sua frase sul “nonno a servizio delle istituzioni” è stata oggetto di polemiche ma è in realtà una generosa disponibilità».

E tuttavia dalle difficoltà denunciate anche da Conte emerge una dato molto serio: a voto segreto Draghi rischia di non essere eletto…

«La prego, non scherziamo. Se si porta Draghi come candidato, lo si elegge, anche perché una bocciatura significherebbe perderlo. Ma da settimane dico che Draghi per sette anni al Quirinale sta in piedi se c’è un’operazione politica di sostegno. Come del resto politica è stata l’operazione che ha mandato a casa Conte e Casalino e svoltare con l’esecutivo Draghi ».

Ci si continua a girare attorno: Draghi può andare al Quirinale soltanto se si chiude, e bene, sul governo. Si parla di Colao e Cartabia, ma i veri nomi sono coperti?

«Io non credo che ci siano solo quei due candidati, pur pensando tutto il bene possibile di Vittorio e di Marta, due ottime persone e due rilevanti personalità. Penso però che se c’è uno schema di gioco pronto per il dopo, allora l’operazione Draghi è fattibile. Nessuno accetta di perdere un premier così stimato senza avere certezze sul futuro»

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Il risiko del dopo Draghi

venerdì, Gennaio 21st, 2022

Annalisa Cuzzocrea

«Giuseppe, io sono una persona seria. Mi hanno offerto i voti di un pezzo di 5 stelle, ma io non tratto con chi ti vuole tradire». Per capire quanto si sia fatta complicata la trattativa per il Quirinale, sarebbe stato utile ascoltare la telefonata tra Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Due nemici, da quando cadde il governo in cui erano insieme. Due leader di partito costretti ora a tornare a parlarsi, e a fidarsi l’uno dell’altro.

È stato il segretario della Lega a riferire al presidente M5S quel che è successo a via della Scrofa, lunedì, quando nello studio di un commercialista romano ha incontrato Riccardo Fraccaro, che pure ha negato fino all’ultimo. L’ex ministro della Funzione pubblica nel Conte 1, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel Conte 2 – raccontano due deputati leghisti – è andato dal leader del Carroccio a dire: «Avrai i voti di Parole Guerriere e Italia 2050, le correnti di Dalila Nesci e Carlo Sibilia, se proporrai il nome di Giulio Tremonti. In quel caso noi ci siamo e proveremo a trascinare gli altri. Punta su di noi».

Visto da Conte, è praticamente un colpo di Stato. È «gravissimo» – ha detto in cabina di regia con i fedelissimi – e ha annunciato che «ci saranno conseguenze. Anche perché Fraccaro è un probiviro, dovrebbe essere lui a sanzionare questo tipo di azioni, non certo a promuoverle».

La storia racconta la difficoltà del momento. I 5 stelle dicono ufficialmente, per giorni, che serve un altro nome, che Draghi non va bene. Conte offre a tutti quelli che incontra l’ex presidente del Consiglio di Stato, ora alla Consulta, Filippo Patroni Griffi; Andrea Riccardi della comunità di Sant’Egidio; l’ex ministra Paola Severino. Ma in serata, all’assemblea dei deputati, arrivano le prime aperture: con Stefano Buffagni che dice: «Ci sono alcuni nomi invotabili, ma dobbiamo avere anche l’onestà intellettuale di dire che non possiamo non considerare quello di Mario Draghi un profilo di altissimo livello».

E così, se lì bisognerà arrivare – al presidente del Consiglio che viene eletto presidente della Repubblica – servirà farlo preparati. C’è bisogno di un patto su un nuovo governo, «meno tecnico e più politico». E il premier dovrà essere una figura larga, istituzionale. In pole position, partono il ministro della Transizione digitale Vittorio Colao e la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Il primo, garantirebbe una maggiore – necessaria – competenza sul piano economico. Sarà un anno durissimo per la messa a terra del Pnrr e per la revisione del patto di stabilità in Europa. C’è però un’altra possibilità: Marta Cartabia. Che attira ancora un po’ di ostilità da parte dei 5 stelle per lo scontro sulla riforma della giustizia, ma potrebbe comunque essere un buon nome di raccordo visto che, per molti di loro, l’incidente sulla prescrizione è superato. «E poi è donna», aggiunge chi lo propone. Come se fosse l’ideale, forse perché a Palazzo Chigi dovrebbe restare al massimo fino al 2023. Partono con meno chance, ma non si sa mai, sia Daniele Franco che Enrico Giovannini.

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