Archive for Febbraio 10th, 2022

Giorgio Gori: “Coalizione riformista per avere Draghi premier anche dopo il 2023”

giovedì, Febbraio 10th, 2022

“Non escludo che Draghi possa governare oltre il 2023”. Lo dice Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, in una intervista con Repubblica. E’ l’epilogo di un ragionamento secondo cui il Pd dovrà essere il battistrada di una coalizione “tra i riformisti, dai socialisti ai liberali, alludo a uno schema – dice Gori- che possa andare anche oltre gli schieramenti classici, relegando all’opposizione i populisti e le forze anti-europee”. Insomma, una maggioranza Ursula con dentro anche Forza Italia. 

“Io penso che Fi non abbia interesse a restare ingabbiata dentro una coalizione disomogenea e instabile, col rischio di essere egemonizzata da forze di matrice nazionalista – sostiene Gori-.  Se resta il maggioritario sarà difficile che il quadro muti. Se invece matureranno le condizioni per una legge elettorale di tipo proporzionale — simile a quella tedesca, dove le maggioranze si formano a valle del voto sulla base di chiari impegni di governo — la situazione potrebbe cambiare. E sarebbe, io credo, una cosa buona per l’Italia, che ha bisogno di proseguire il percorso di modernizzazione e di rilancio avviato dall’amministrazione Draghi. Perché questo accada è auspicabile che le forze riformiste e socialiste lavorino insieme, come già succede in Europa nella Commissione von der Leyen, superando la classica divisione fra centrodestra e centrosinistra”.

Del resto, per il sindaco di Bergamo la prospettiva per il Pd non è con M5s. 

“Per me vale la road map tracciata da Letta nel giorno della sua investitura: prima si pensa a far crescere il Pd coltivandone l’identità come forza del lavoro, dell’equità e della modernizzazione del Paese. Poi si ricostruisce il centrosinistra. E infine si dialoga con i 5S, sperando che recuperino un assetto più stabile. Con una chiara gerarchia delle relazioni”.

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Passo avanti verso la fusione nucleare: nuovo record di energia prodotta

giovedì, Febbraio 10th, 2022

di Paolo Virtuani

Realizzati 59 megajoule in 5 secondi, più del doppio di un precedente test. «Abbiamo dimostrato che possiamo tenere accesa una mini-stella»

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il reattore dell’European Fusion Experiment JET (foto: Eurofusion)

Realizzati 59 megajoule in 5 secondi, più del doppio di un precedente test, una potenza di fusione media di circa 11 megawatt . Non si tratta di una quantità esorbitante, è la quantità di energia necessaria per portare a ebollizione l’acqua contenuta in 60 bollitori di tè, ma è significativa: il risultato testimonia infatti la buona strada intrapresa dall’esperimento europeo di fusione nucleare Jet. Il programma per arrivare al difficile risultato di ottenere «l’energia dell’interno del Sole», cioè arrivare alla fusione nucleare e disporre di una quantità di energia potenzialmente illimitata e a basso prezzo, continua a ottenere successi, molto importanti proprio in una stagione come quella attuale in cui il costo dell’energia ricavata da fonti fossili, in particolare il gas naturale, è arrivato a livelli record e ha anche notevoli implicazioni geopolitiche. A gennaio erano stati raggiunti anche i 100 mila impulsi di plasma all’interno del reattore. «Abbiamo dimostrato che possiamo creare una mini-stella dentro la nostra macchina e tenerla accesa per 5 secondi ad alto livello. Entriamo in una nuova dimensione», ha detto in una conferenza stampa Joe Milnes, alla guida delle operazioni.

Ricadute economiche

Il consorzio Eurofusion lavora in Inghilterra, presso Oxford, con il JET (Joint European Torus), il più importante reattore di ricerca al mondo sulla fusione nucleare. Partecipa anche l’Italia tramite l’Enea. L’Italia, secondo partner più importante del Consorzio dopo la Germania, riceverà il 16% del contributo europeo, pari a circa 90 milioni di euro. Il Consorzio Eurofusion può contare su circa 4.800 scienziati provenienti da 28 Stati europei (i 25 Paesi Ue più Regno Unito, Svizzera e Ucraina). «La rete italiana della ricerca sulla fusione, con oltre venti partner tra università, enti di ricerca e industrie, rappresenta un caso di successo in termini di contributo tecnico-scientifico, di trasferimento tecnologico con notevoli ricadute economiche», aveva nei giorni scorso sottolineato Paola Batistoni, responsabile della Sezione sviluppo e promozione della fusione di Enea. «Le aziende italiane si sono aggiudicate commesse industriali per un valore totale di oltre 1,3 miliardi di euro, circa il 50% del totale europeo, per la realizzazione del reattore sperimentale Iter attualmente in costruzione in Francia».

Enea: «Orgogliosi»

«Siamo particolarmente orgogliosi dei nostri ricercatori che hanno lavorato alla preparazione e all’esecuzione degli esperimenti e all’analisi dei dati coordinando anche il team europeo che ha studiato gli aspetti tecnologici delle operazioni in deuterio-trizio, fondamentali in vista del progetto Iter, in via di realizzazione in Francia», ha commentato Gilberto Dialuce, presidente Enea.

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Montanari e le foibe, quando all’analisi storica si preferisce un’esibizione provocatoria

giovedì, Febbraio 10th, 2022

di Aldo Grasso

Il rettore dell’Università per stranieri di Siena alla vigilia del Giorno del ricordo critica (ancora una volta) la giornata sulle foibe a un convegno: per il professore è un’ossessione e la sua più che storiografia è mitomania

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Più che una riflessione è un’ossessione, più che un’analisi è un’esibizione, più che storiografia è mitomania. Per Tomaso Montanari, rettore dell’Università per stranieri di Siena, le foibe rappresentano sempre una buona occasione per mettersi in mostra davanti a una sinistra «dura e pura». Di cui, evidentemente, si sente l’ultimo erede. Alla vigilia del Giorno del ricordo, «istituito — come recita la legge n. 92 del 30 marzo 2004 — al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra», Montanari ha pensato bene di organizzare a Siena un seminario dal titolo: «Uso politico della memoria e revanscismo fascista: la genesi del Giorno del ricordo».

Nel presentare il convegno (in una sala semideserta), Montanari ha ribadito il carattere accademico dell’incontro («l’università non si schiera politicamente»), che in discussione non è la tragedia delle vicende ma il revanscismo fascista che ha portato all’istituzione della legge del 2004, e tuttavia (nonostante la qualità degli interventi) a nessuno sfugge il carattere di provocazione per ribadire, ancora una volta, come questa ricorrenza sia «una falsificazione storica» voluta dalle destre. Il Giorno del ricordo non è nato in evidente opposizione alla Giornata della memoria (della Shoah). Se alcuni faziosi lo fanno (e lo fanno), se ne assumano la responsabilità. Ma non esiste nessuna equiparazione fra i due eventi: la Shoah indica l’unicità di una tragedia senza paragoni. Le foibe sono un abisso, la voragine dell’inebetimento umano. Non paragonabili al calcolato progetto di genocidio dei nazisti ma pur sempre parte di quell’ideologia di purificazione etnica che imbianca tutti i sepolcri del mondo.
La disinvoltura sul numero dei morti «costituisce — ha scritto Raoul Pupo — un ottimo trampolino di balzo per il negazionismo, che ha buon gioco nel denunciare esagerazioni e incongruenze e che nel facile risultato trova la spinta a mettere in discussione non solo la retorica rappresentazione, ma la sostanza dei fatti». La memoria va a corrente alternata? Memoria significa anche ricordare l’accoglienza riservata da molti italiani ai profughi.

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Giustizia, scontro totale tra politici e tecnici

giovedì, Febbraio 10th, 2022

Francesco Grignetti, Ilario Lombardo

Roma. C’è una grana clamorosa, nascosta tra le righe della riforma dell’ordinamento giudiziario. E potrebbe rivelarsi deflagrante. Riguarda le famose «porte girevoli», ovvero il divieto per un magistrato di scendere in politica e poi tornare indietro alla toga.

Sulla carta, tutti d’accordo. Ma il diavolo si nasconde nei dettagli, come ha scoperto il deputato Enrico Costa, di Azione: il blocco delle porte girevoli funzionerebbe per i magistrati che si candidano e ancor di più per quelli che vengono eletti, non per quelli che sono «prestati alla politica» in quanto tecnici, anche se poi diventano ministri o sottosegretari.

Una grossa grana perché stavolta i partiti sono messi di fronte a una scelta che viene ricondotta al presidente del Consiglio in persona. «È una decisione di Draghi», così Costa s’è sentito dire quando, martedì sera, seduto di fronte alla ministra Marta Cartabia e al capo di gabinetto del premier, Antonio Funiciello, ha chiesto lumi sul perché di questo divieto dimezzato. «Il divieto vale solo per gli eletti» è la spiegazione che gli fornito la Guardasigilli.

E dunque, al momento, nel testo della riforma del Consiglio superiore della magistratura ritoccato da Cartabia l’interdizione non varrebbe per quei profili più tecnici che, senza passare dal voto, pure partecipino attivamente a governi politici e a giunte regionali o comunali. Un distinguo che non piace ai partiti perché si renderebbe impossibile tornare in magistratura ad un semplice consigliere di opposizione, ma non a chi ha costruito una carriera nelle istituzioni all’ombra della politica e magari occupa posizioni di primissimo piano. «La commistione esce dalla porta e rientra dalla finestra», protesta Costa.

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Lega e Fi contro Meloni: “Non è lei la leader”

giovedì, Febbraio 10th, 2022

ROMA. Non ha voglia di litigare Matteo Salvini, «cerco di unire superando le divisioni che in questo momento non servono a niente e a nessuno», ma con Giorgia Meloni la distanza è sempre più ampia. La presidente di Fratelli d’Italia, in un’intervista pubblicata ieri su La Stampa, aveva dichiarato che sarebbe toccato a lei «dare le carte» e di essere «pronta a governare». Il leader della Lega, competitore di lungo corso nella partita della leadership, le ha risposto ieri: «Queste parole le lascio giudicare ai cittadini quando voteranno. Ognuno ha le sue ambizioni, io un anno da ministro l’ho fatto e penso che gli italiani se lo ricordino. Sono i cittadini a decidere».

Passati i giorni degli abbracci a favore di telecamere e delle accuse ai giornali che «inventano dissidi tra di noi», i due leader della destra italiana sono ormai su posizioni che appaiono, almeno per ora, inconciliabili. Salvini considera che Fratelli d’Italia sia ormai in un angolo, anche per scelta della stessa Meloni e così tenta di disegnare una strategia comune con l’altro alleato rimasto, Forza Italia. Dopo la visita ad Arcore degli scorsi giorni, il dialogo tra i partiti non è mai decollato davvero. Berlusconi ha ascoltato la proposta di Salvini di fondare una casa comune sull’esempio del partito repubblica americano e, dopo aver ricordato di essere il primo ad averne parlato alcuni anni fa, ha posto una serie di condizioni, la prima della quale è l’appartenenza del futuro partito unico del centrodestra al Partito popolare europeo (anche se il progetto potrà realizzarsi solo con la prossima legislatura comunitaria). Altro punto in discussione è quello sulla legge elettorale, l’ipotesi del proporzionale sta prendendo sempre più forza anche tra gli azzurri.

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La legge sul fine vita in Parlamento rischia di fare la fine del ddl Zan

giovedì, Febbraio 10th, 2022

di Simone Alliva

Battaglia in aula sugli emendamenti. In arrivo dal centrodestra la richiesta del voto segreto. Con cui si è affossata la legge contro l’omotransfobia. Intanto, fuori dai Palazzi, sono già oltre 100 i nomi di chi ha scelto di sostenere il Referendum Eutanasia Legale

A bassa voce lo ripetono tutti, con rassegnazione o con gioia, dipende dal partito di appartenenza: la legge sul suicidio assistito è destinata a far la fine del ddl Zan al voto segreto.

«Fiducioso» si dice Nicola Provenza del M5S relatore del fine-vita insieme ad Alfredo Bazoli del Partito Democratico, quest’ultimo, paventa: «Cauto ottimismo» e aggiunge: «Questo è un testo che ha cercato di trovare un punto di mediazione. Non mi aspetto che il centrodestra voti a favore ma che non faccia ostruzionismo. E che alcuni esponenti votino in dissenso al gruppo».

Aspettative alte per l’approvazione alla Camera. Ma come sempre, in politica, quello che si dice sottovoce è quello che conta. In mattinata il segretario del PD Enrico Letta e la Capogruppo alla Camera Debora Serracchiani, indicano la linea durante una riunione su Zoom in diretta con il gruppo dem: «Ci teniamo saldi sul testo uscito dalla commissione».

A fine riunione il Transatlantico ribolle di deputati che si sfogano protetti dall’anonimato: «Così si va a sbattere». Il testo non convince molti dem. Tra i punti più discussi, ad esempio, quello sulle cosiddette ‘cure palliative’, richiesta del centrodestra accolta dal fronte Pd-M5s (la persona deve essere stata “previamente coinvolta in un percorso di cure palliative al fine di alleviare il suo stato di sofferenza e le abbia esplicitamente rifiutate”). «Una scelta che esclude buona parte dei cittadini italiani. Alle cure palliative possono avere accesso solo pochissimi cittadini in pochissime città e questo è di per sé discriminatorio», lamentano. Oppure: «Una persona come Dj Fabo non avrebbe avuto accesso a questa legge perché non era in condizione di fine vita. Questo testo va anche contro le decisioni della sentenza». Spaccature che spalleggiano Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Coscioni e forte del successo del referendum per legalizzare l’eutanasia, in attesa della sentenza della Corte Costituzionale che tra pochi giorni (15 febbraio) potrebbe considerare legittimo. Cappato osserva come: «Le nuove norme del ddl non migliorano il quadro, perché escludono chi non è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, come i malati di tumore, e non fissano tempi certi. Anzi, fanno dei passi indietro su obiezione di coscienza, sofferenza psichica e cure palliative».

Il ddl, infatti, rischia proprio di scontrarsi con la sentenza attesa per la prossima settimana (il 15 febbraio) della Corte Costituzionale sul referendum dell’Associazione Coscioni che ha già raccolto oltre 100 i nomi di chi ha scelto di sostenere il Referendum Eutanasia Legale, promosso e finanziato dall’Associa-zione Luca Coscioni, ed e’ pronto ad attivarsi e a votare si’, nel caso in cui il Referendum sia considerato ammissibile dalla Corte Costituzionale.

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Caso Raztinger, l’arcivescovo Zuppi: “Ha accettato il giudizio umano, la sua lettera è una svolta epocale”

giovedì, Febbraio 10th, 2022

Domenico Agasso

BOLOGNA. «Il cuore del mea culpa di Ratzinger è nella condivisione del suo esame di coscienza davanti a Dio e agli uomini su un tema attuale e di rilievo. Benedetto XVI non intende riferirsi “solo” al giudizio di Dio, come per fuggire dalle responsabilità nei confronti dell’umanità dei tempi e luoghi del suo governo ecclesiale». Il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, definisce «bella e intensa» la lettera diffusa dal Papa emerito in risposta al rapporto sugli abusi sessuali commessi nell’arcidiocesi di Monaco. È un testo «nobile, spirituale, umano ed indica una risposta ai problemi che ci sono: esorta la Chiesa a combattere contro il peccato chiamandolo per nome».

Però nella galassia cattolica c’è chi ritiene che sia una manifestazione troppo personale per un pontefice: lei che cosa ne pensa?
«Io credo il contrario: la forza di aprirsi e di raccontare le riflessioni compiute da uomo e da credente rappresentano la sincerità e l’autenticità della “grandissima colpa”, facendo sue le responsabilità della Chiesa. Benedetto chiede perdono per le inadempienze mostrando dolore e profonda vergogna, dando una lezione di umiltà e responsabilità e prova di coraggio».

In che senso?
«Affidarsi “solo” al giudizio di Dio può diventare un modo per sfuggire al riconoscimento di sbagli di fronte agli altri uomini e donne. Joseph Ratzinger invece ha armonizzato le due direzioni verso cui si è rivolto: la responsabilità nei confronti dell’umanità nei tempi e luoghi in cui ha avuto incarichi di guida all’interno della Chiesa, e il rapporto con Dio. Si è espresso in una dimensione da grande uomo e credente, lanciando un messaggio di umanità e di fede».

Lei pensa che sarà compreso?
«È la preoccupazione che ho. Spero che sia capito nella sua altezza, universalità, mentre oggi è molto più facile pensare che l’unico criterio che conta è quello soggettivo. È l’individualismo diffuso nelle nostre società, dove esiste soltanto l’io. In Ratzinger invece coesiste la spinta a mettersi di fronte agli uomini e abbandonarsi con fiducia al giudizio finale di Cristo. Certo, riconosce che “nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere motivo di spavento e paura”, ma dice anche di sentirsi “con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato”. Questo passaggio è da leggere e rileggere».

Quali sono le differenze da altri celebri mea culpa papali?
«Questo affronta una piaga aperta e sanguinante, mentre altri si riferivano a malefatte compiute da uomini di Chiesa in tempi precedenti e anche lontani. Ovviamente ciò non significa dare un ordine di importanza. Ratzinger dice: “Ho avuto grandi responsabilità nella Chiesa. Tanto più grande è il mio dolore per gli abusi e gli errori che si sono verificati durante il tempo del mio mandato nei rispettivi luoghi”. Qui c’è un coinvolgimento personale che aiuta tutti quanti a non sfuggire dai propri doveri ancora presenti».

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Jovanotti: il mio grazie a Mattarella, ma noi maschi che disastro

giovedì, Febbraio 10th, 2022

Annalisa Cuzzocrea

«La musica c’è sempre stata, anche in questi due anni. E’ ascoltarla insieme che fa la differenza». Jovanotti sa che i suoi dischi sono quella cosa lì: le canzoni che balli in una danza collettiva, come accadrà dal 2 luglio in poi quando ripartirà il Jova Beach party e le spiagge d’Italia faranno festa; quelle che ascolti con qualcuno, magari solo in due, ma dividendo le cuffie come si faceva una volta. E’ in questo che Sanremo ha interpretato “lo spirito del tempo”: ha riportato in vita «un rito collettivo, ha fatto sì che per una settimana non parlassimo più di quel che ha dominato le nostre vite in questi anni, che saranno anche solo due, ma sembrano trecento». Lorenzo appare su Zoom dalla sua casa di Cortona. Sul volto l’energia di chi si è chiuso in studio a provare i pezzi nuovi del disco del Sole (alle canzoni dell’Ep Primavera se ne aggiungeranno tra poco almeno altre cinque), dietro di sé i mille colori di una carta da parati modello giungla. Nella stanza ci sono i cappelli, le chitarre, i tappeti preferiti, come quello che gli ha regalato a Natale la moglie Francesca. I libri in cui si è immerso per continuare a viaggiare da fermo: «Sono stato ovunque: in Iran, Cina, tre volte in Antartide, e ho scoperto il Polo Nord!».

«Sanremo è stata una botta», racconta subito. «Me ne accorgo da come mi sveglio al mattino». Un’emozione come per tutto quello che si può vincere o fallire. Perché «gli artisti sono acrobati, vivi sul filo, sai che puoi cadere da un momento all’altro. Quando inizi non ci pensi: c’è un elemento di ingenuità che bisogna sempre mantenere. Se fai un disco che sai già com’è, rischi che suoni trombone: è il peggio che ti possa succedere». Mentre il pop «funziona quando è ingenuo, quando c’è dentro una scoperta. I cantanti imparano sempre qualcosa. Non insegnano niente». 

Cosa c’era di diverso in questo Sanremo che milioni di persone sono state a guardare, commentare, votare?

«Ho sentito subito, fin dalla prima serata, che vibrava bene. Un Paese che non ha musica dal vivo da più di due anni è un Paese cui è mancato qualcosa di profondo, al di là della giusta questione del settore in crisi. Non voglio entrare nella giusta retorica del settore in crisi, perché questo va al di là dell’industria. E’ un bisogno che è rimasto seppellito. E Sanremo è stato perfetto: sono così rari i momenti in cui tante persone decidono di guardare insieme una diretta. Oltre al mondiale di calcio non mi viene in mente nulla. Nella frammentazione delle nostre vite, oggi che passiamo serate a cercare di decidere cosa guardare on demand per poi non guardare niente, è stato come avere un appuntamento. Come ritrovarsi».

Sul podio, insieme a Gianni Morandi con la canzone che hai scritto per lui, sono saliti Mahmood e Blanco ed Elisa, arrivati al primo e al secondo posto.

«Ed è stato perfetto così. Il podio più bello di sempre. Perché io Sanremo l’ho sempre guardato».

Anche quando i vincitori si dimenticavano in un niente?

«Anche negli anni di crisi, Sanremo racconta qualcosa. Può sempre venir fuori una canzone storica, è questo che lo rende magico. Sei distratto e ti arriva un Vasco Rossi, una Pausini, un Ramazzotti, un Mahmood. Lo guardi perché sai che stai assistendo a un mistero. Quel podio, a volerlo fare apposta, non l’avresti creato così perfetto. Tre generazioni, tre mondi musicali diversi, ma col respiro giusto: Morandi vecchia scuola, ma non antico; Mahmood e Blanco con un pezzo che parla anche alla generazione di Gianni; Elisa che è un’artista fantastica. Anche la successione, perfetta. Alchemica».

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La notte del Quirinale e la «ragion di Stato» che chiude la vicenda Belloni

giovedì, Febbraio 10th, 2022

di Francesco Verderami

Gabrielli: bisogna limitare l’elettorato passivo per certe cariche. In quei giorni, a detta di Matteo Salvini, il nome «mi venne proposto da Enrico Letta e Giuseppe Conte», che a sua volta inserì tra i promotori della candidatura «anche Roberto Speranza».

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«C’è una ragion di Stato che impone di chiudere subito la vicenda». Parlò di «ragion di Stato» il ministro della Difesa la notte in cui prese quota la candidatura di Elisabetta Belloni al Colle. Era l’ultima notte di quei «giorni travagliati».

A colloquio con il leader del Pd Enrico Letta, Lorenzo Guerini urlò come mai gli era capitato prima, perché «non si doveva arrivare dove si è arrivati», perché «non si doveva inserire il nome del capo del Dis nella rosa per il Quirinale», perché «va tenuto conto della delicatezza del suo ruolo», perché «non si possono tenere in fibrillazione gli apparati della sicurezza». E per quanto sorpreso dalla «coda bislacca» della trattativa sul capo dello Stato, il ministro dem pose soprattutto l’accento sulla «ragion di Stato».

Ed è proprio seguendo la logica della «ragion di Stato» che ieri il Copasir ha dato prova di un ritrovato senso della istituzioni, se è vero che — durante l’audizione della responsabile dei Servizi segreti — i membri del Comitato per la sicurezza della Repubblica si sono concentrati sulla crisi ucraina e non hanno posto domande sulla questione quirinalizia che l’ha coinvolta. Lo avevano fatto anche il giorno prima con il ministro degli Esteri, che pure era stato parte dell’affaire opponendosi alle modalità con cui la Belloni era stata infilata nel tritacarne dei quirinabili.

È stato un segno di resipiscenza (quasi di riscatto) del Parlamento, dopo la sbornia di una settimana surreale che — per effetto di mediazioni senza soluzioni — avrebbe infine portato alla rielezione di Sergio Mattarella. In quei giorni, a detta di Matteo Salvini, il nome della Belloni «mi venne proposto da Enrico Letta e Giuseppe Conte», che a sua volta inserì tra i promotori della candidatura «anche Roberto Speranza». Nel Palazzo non sono ancora certi su chi sia stata la mente del progetto, diciamo, ma è agli atti la reazione immediata di quanti lo hanno combattuto: dalla maggioranza del Pd a Forza Italia, da un pezzo di M5S ai centristi di ogni latitudine, dalla senatrice di sinistra Loredana De Petris a Matteo Renzi che disse «l’Italia non è l’Egitto».

E tutti insieme, per «ragion di Stato», evitarono di dar corso a una polemica che — come rileva Guerini — sarebbe stata «dannosa verso l’immagine di strutture così importanti e delicate»: «L’improvvisazione di quei giorni ha già fatto abbastanza danni. La politica deve avere l’intelligenza di non trascinare nell’agone persone e istituzioni che vanno tutelate nell’interesse del Paese». Una risposta indiretta a chi ha continuato a sostenere che sia stata «un’occasione persa non portare una donna al Colle», o a chi ha provato a giustificarsi spiegando come non ci fossero «norme di legge» che ne impedissero l’elezione.

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Open, le accuse: a Renzi 549 mila euro «per beni e servizi», alla Fondazione 7 milioni di euro

giovedì, Febbraio 10th, 2022

di Fiorenza Sarzanini

La Procura chiede il rinvio a giudizio del leader di Italia Viva insieme a Maria Elena Boschi, Luca Lotti, l’avvocato Alberto Bianchi e l’imprenditore Marco Carrai

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È accusato di aver preso tre milioni e mezzo di euro in quattro anni attraverso la Fondazione Open. «Un finanziamento illecito», secondo la procura di Firenze, perché Open era «di fatto di un’articolazione politico organizzativa del Pd» e le somme «servivano a sostenere l’attività politica dei suoi appartenenti». Nel giorno in cui la Procura chiede il suo rinvio a giudizio insieme a Maria Elena Boschi, Luca Lotti, l’avvocato Alberto Bianchi e l’imprenditore Marco Carrai, Matteo Renzi parte all’attacco dei magistrati: «Li denuncio, non mi fido di loro».

«Soldi, beni e servizi»

L’udienza preliminare è fissata per il 4 aprile. In quella sede tutti gli imputati dovranno difendersi per aver «ricevuto contributi in denaro tra il 2014 e il 2018, in violazione della normativa, per sostenere l’attività politica di Renzi, Lotti e Boschi e della corrente renziana del Pd», ma anche «contributi in forma indiretta consistiti in beni e servizi, acquistati dalla Open».

La Fondazione è la cassaforte che ha sostenuto la scalata di Renzi da sindaco di Firenze a presidente del Consiglio. Nell’arco dei suoi sei anni di vita, dal 2012 al giugno 2018, ha raccolto oltre sette milioni di euro. La Procura contesta circa tre milioni e mezzo di contributi ricevuti dal novembre 2014 al giugno 2018, quando la Fondazione venne liquidata. Secondo l’accusa della Procura guidata da Giuseppe Creazzo «la Fondazione agì come articolazione di partito e Renzi come direttore di fatto».

Spese per 549 mila euro

Agli atti dell’inchiesta ci sono le spese sostenute negli anni da Renzi e dai suoi collaboratori, dai cellulari ai biglietti del treno, dai taxi ai ristoranti e agli hotel. Le spese maggiori sono state quelle relative alla kermesse annuale della Leopolda. L’accusa contesta a Renzi di aver usufruito di «beni e servizi» per quasi 549 mila euro. Alcuni contributi sarebbero stati usati da Open anche per finanziare la «Campagna per il sì al Referendum».

Bianchi, assistito dall’avvocato Fabio Pinelli, è invece ritenuto il «collettore» dei finanziamenti arrivati alla Fondazione sfruttando il ruolo politico di Lotti per agevolare le imprese «amiche» con l’approvazione di emendamenti e norme. Per questo i pubblici ministeri hanno deciso di inserire la Camera dei deputati tra le parti lese.

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