Archive for Febbraio 18th, 2022

La “profezia” di Bettini su Lega e Pd: “Cosa possono fare…”

venerdì, Febbraio 18th, 2022

Luca Sablone

Chi l’avrebbe mai detto? Il Partito democratico apre le porte e strizza l’occhio alla Lega, magicamente passato dall’essere un pericoloso partito della destra che ammicca a estremisti e no-vax all’interpretare una forza politica moderna e pacata. Tanto da non escludere di governarci assieme anche dopo il 2023, se le elezioni nazionali non dovessero incoronare un vincitore alla guida del Paese. A far filtrare segnali di ottimismo è Goffredo Bettini, che non ha sbarrato la porta a un possibile nuovo esecutivo con il Carroccio al termine dell’esperienza Draghi.

La “tentazione” di Bettini

Quasi una tentazione, verrebbe da dire. Visto che lo storico esponente di spicco del Pd ha usato toni concilianti nei confronti del partito guidato da Matteo Salvini. Quanto alla legge elettorale e al dibattito sui due sistemi, proporzionale e maggioritario, Bettini ha osservato come il segretario della Lega abbia due strade: una tattica che è quella di “presentarsi con l’attuale schema”; l’altra strategica per “arginare la forza della Meloni e autonomizzarsi”.

La scadenza naturale della legislatura è fissata per il 2023 quando – a meno di una crisi di governo nei mesi precedenti – si terranno le elezioni politiche. Al di là delle incognite sul sistema elettorale, la domanda che ci si pone si interseca perfettamente con un possibile scenario di incertezza: cosa potrebbe accadere se non ci fosse un vincitore palese la notte del ritorno alle urne? Bettini, nell’intervista rilasciata a Il Foglio, ha sostenuto chiaramente che se Pd e Lega pareggiassero si potrebbe tentare “la strada della grande coalizione con un compromesso trasparente”.

La succursale della sinistra

È opinione ormai diffusa che il Partito democratico rappresenti la forza del palazzo, pronta a fornire il proprio sostegno anche ai governi più lontani (prima l’esperienza giallorossa con i 5 Stelle, poi l’esecutivo di unità nazionale con Forza Italia e Lega). In tal senso Bettini non si è nascosto e non ne ha fatto una questione di vergogna. Anzi, ha rivendicato il ruolo dei dem: “Dobbiamo essere il partito della stabilità. Gli elettori hanno sempre bisogno della ‘forza’”. L’auspicio è che il Carroccio diventi la succursale della sinistra? “Salvini ha l’occasione di fare della Lega con pezzi di Forza Italia, l’equivalente del Pd nel campo della destra”, è l’osservazione dell’esponente dem.

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Rivalsa impossibile sulle toghe che sbagliano. La casta resta impunita: 8 condanne in 11 anni

venerdì, Febbraio 18th, 2022

Stefano Zurlo

Si contano sulle dita di due mani. Otto condanne in 11 anni. Briciole, quasi elemosine. Con tutto il rispetto, un’offesa verso i cittadini che si sono visti calpestare nei loro diritti e verso la collettività che chiede giustizia. La legge sulla responsabilità civile dei magistrati non funziona anche se un referendum, nell’87, aveva annunciato fra squilli di tromba il vento del cambiamento. I sì raccolsero l’80,2% e tutti immaginavano quel che poi puntualmente non è successo. La corporazione non si tocca. Nell’88 con la legge Vassalli viene introdotto un meccanismo risarcitorio, ma è indiretto: il cittadino propone la condanna dello Stato e poi sarà quest’ultimo, semmai, a rivalersi sulla toga che ha commesso errori imperdonabili.

Non si tratta di punire in modo astratto, ma di colpire situazioni obiettivamente vergognose se non inguardabili. Un esempio? Ha fatto scuola la storia di Marianna Manduca che a Caltagirone aveva denunciato il marito violento dodici volte e poi è stata uccisa. Si possono ignorare dodici campanelli d’allarme?

Arrivare a una sanzione è impresa difficilissima. Parliamo di undici condanne dello Stato fra il 2010 e il 2021, ma nessuno sa se ci sia stato il secondo passaggio. Le toghe che hanno dovuto mettere mano al portafoglio sono ancora meno e si avvicinano allo zero.

Surreale. E, peggio, ora par di capire che la Consulta si sia attaccata proprio al passato per mantenere lo status quo; poiché c’è sempre stata la responsabilità indiretta ora non si può per via referendaria passare a quella diretta: il cittadino contro la toga. «Sarebbe – ha spiegato il Presidente della Consulta Giuliano Amato – un referendum innovativo e non abrogativo».

Eminenti giuristi sottolineano che meccanismi di risarcimento spicci suonerebbero poi come forme di intimidazione per i giudici che fanno il loro lavoro e, talvolta, sbagliano. Tutto può essere, ma i dati sono sconfortanti. La punizione pecuniaria del magistrato negligente e impreparato, anche di quello che ha combinato un disastro, è per quanto se ne sa, rarissima. Affidata a procedure lente e farraginose. Con quei due procedimenti civili che richiedono tempi lunghissimi – e il secondo segmento è di fatto un mistero – e la pazienza di Giobbe. Gli importi poi sono contenuti: una media, fra il 2005 e il 2014, di 54 mila euro.

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Caso Amara, Piercamillo Davigo rinviato a giudizio. L’ex pm di Mani Pulite a processo nell’anniversario di Tangentopoli

venerdì, Febbraio 18th, 2022

Guai giudiziari in vista per l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ex pm simbolo di Mani Pulite. A 30 anni dall’inizio di Mani pulite con l’arresto dell’ex presidente del Pio Albergo Trivulzio, il socialista Mario Chiesa, che diede il via alla stagione di Tangentopoli, Davigo è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia, Francesca Brugnara, per rivelazione di segreto d’ufficio. Il processo a carico dell’ex magistrato del pool milanese prenderà il via il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del tribunale di Brescia. Al centro del procedimento ci sono i verbali secretati nei quali l’avvocato Piero Amara parlava della Loggia Ungheria. Materiale che, nell’aprile 2020, il pm milanese Paolo Storari, che insieme all’aggiunto Laura Pedio aveva raccolto quelle dichiarazioni, aveva consegnato a Davigo. Una iniziativa che Storari aveva preso per “tutelarsi” a suo dire dalla presunta “inerzia” dei vertici della procura milanese nell’avviare indagini sulle rivelazioni di Amara.

“Il dottor Davigo, anche per mio tramite, si difenderà fortemente”, ha ribadito l’avvocato Francesco Borasi, difensore di Davigo, al termine dell’udienza. Il legale in aula aveva sottolineato le “contraddizioni” che a suo avviso sono emerse dal capo d’imputazione stilato dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi, precisando come “faccia sorridere l’ipotesi di commettere il reato di rivelazione di segreto d’ufficio” confrontandosi su un’inchiesta con il vicepresidente del Csm David Ermini, al quale Davigo aveva mostrato i verbali di Amara, sollecitando un impulso nelle indagini.

L’avvocato ha anche chiarito che “Davigo ha agito secondo la legge” e ha chiesto il proscioglimento per l’ex magistrato che non era in aula perché impegnato in un convegno per i 30 anni di Tangentopoli a Pisa.

Bisognerà attendere fino al prossimo 7 marzo, invece, per una decisione sulla posizione del pm Storari. Il gup, infatti, ha rinviato il processo a suo carico, celebrato con rito abbreviato, per dare spazio ad eventuali repliche. Poi si ritirerà in camera di consiglio per emettere la sentenza.

Era stato proprio Storari ad interrogare l’avvocato Amara insieme all’aggiunto Laura Pedio nell’ambito dell’inchiesta sul ‘falso complotto Eni’, mentre a Milano era in corso il processo Eni Nigeria. In quelle audizioni, l’avvocato siciliano aveva parlato della loggia coperta, che avrebbe riunito alti magistrati, avvocati e altri personaggi di spicco e sarebbe stata in grado di condizionare nomine e appalti. Convinto della necessità di aprire immediatamente un fascicolo autonomo su Ungheria, ad aprile 2020, a suo dire per “autotutelarsi” dalla presunta inerzia dei vertici della procura, Storari “fuori da ogni procedura formale” ha consegnato i verbali a Davigo, il quale, come si legge nel capo d’imputazione, “lo ha rassicurato di essere autorizzato a ricevere copia degli atti” in quanto “il segreto investigativo su di essi non era a lui apponibile perché membro del Csm”.

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Ora rischiamo i fondi del Pnrr

venerdì, Febbraio 18th, 2022

MARCELLO SORGI

Mai visto Draghi così infuriato. E soprattutto, per la prima volta, pronto a dimettersi, se il governo non sarà rimesso in condizione di lavorare seriamente. È andato a parlarne con Mattarella, con il quale aveva appuntamento per confrontarsi sulla crisi ucraina e sulla sua prossima missione a Mosca. Poi ha riunito i capigruppo della maggioranza e li ha strigliati per le quattro votazioni in cui, nella notte tra mercoledì e giovedì, il governo è andato sotto alla Camera. La più indicativa riguardava il tetto per l’uso dei contanti, riportato a duemila euro grazie al voto unitario del centrodestra. Rivendicato dai tre leader, Salvini, Meloni e Tajani, come un successo della rinata coalizione, fin qui divisa tra governo e opposizione. E duramente contestato da Conte, che da presidente del consiglio aveva introdotto il limite abolito con il voto.

Ma nella notte in cui c’è stato un generale rompete le righe della maggioranza di unità nazionale, quello di centrodestra non è stato l’unico schieramento a ricomporsi per mandare sotto il governo. Altrettanto hanno fatto i giallorossi con l’aiuto intermittente di Italia viva, mentre le votazioni andavano avanti senza che nessuno cercasse di riorganizzare la larga maggioranza che dovrebbe sorreggere l’esecutivo. Quando Draghi ieri pomeriggio si è riunito con i capigruppo, quindi, aveva più di una ragione per lamentarsi. Il messaggio del premier è stato chiaro: così non si va avanti. Vuol dire che non è disposto ad accettare nuovi episodi di questo genere, che se dovessero riproporsi lo porterebbero alle dimissioni. Una crisi, a un anno dall’insediamento del governo d’emergenza, sarebbe l’anticamera di elezioni anticipate. Tra una cosa e un’altra un blocco di minimo tre – quattro mesi, che l’Italia non può permettersi. Oltre a provocare la rivolta dei parlamentari, che senza arrivare all’autunno perderebbero la pensione.

Al di là degli incidenti notturni alla Camera, però, ci sono altri indizi del malessere che sta paralizzando il governo. La riforma della giustizia, approvata in consiglio dei ministri all’unanimità, è stata polverizzata appena arrivata in Parlamento. Quella della concorrenza, ribattezzata dei balneari perché inciderebbe, tra l’altro, sulle concessioni dei titolari degli stabilimenti, è pronta per subire lo stesso destino. E identica prospettiva riguarda la riforma fiscale. Stiamo parlando di tre delle riforme più attese dalla Commissione europea come prova della capacità del Paese di adeguarsi al cambiamento considerato presupposto del Pnrr, il piano di aiuti per la ricostruzione post-Covid di cui l’Italia ha già ricevuto una prima rata da 25 miliardi e sta aspettando la seconda, niente affatto scontata.

Insomma, se serviva una conferma all’impossibilità di conciliare le esigenze della campagna elettorale permanente dei partiti e il lavoro da fare per il governo, è arrivata prima del tempo. Ma difficilmente il richiamo all’ordine di Draghi, anche se ha ventilato la possibilità di dimettersi, verrà accolto. Per capirlo, era sufficiente osservare l’atteggiamento dei capigruppo, che hanno ascoltato in silenzio il rabbuffo del presidente del consiglio e un minuto dopo sono andati alla Camera a mormorare ai loro parlamentari che è lui che deve cambiare atteggiamento, altrimenti loro non sono in grado di garantire un bel niente.

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L’aut aut di Draghi: “Adesso o il Parlamento ci segue o dovrete trovarvi un altro esecutivo”

venerdì, Febbraio 18th, 2022

Ilario Lombardo

ROMA. Che il rapporto tra i partiti e Mario Draghi si sia sfibrato lo prova un momento particolare dei quaranta lunghissimi minuti del confronto aspro avuto tra il presidente del Consiglio e i capidelegazione della maggioranza. È Stefano Patuanelli a parlare, altri colleghi lo hanno fatto prima di lui. Il ministro del M5S cerca di trovare una ragione in quello che sta succedendo in Parlamento. Il governo è andato sotto quattro volte nella notte, sul decreto Milleproroghe, altre due volte è successo una settimana fa in fase di conversione del provvedimento che proroga le misure anti-Covid. La maggioranza si è spaccata, le alleanze si sono ricomposte su emendamenti diversi da quelli sostenuti dal governo. Patuanelli dice: «Quando io insisto a chiedere di vedere i testi prima, non lo faccio per capriccio, ma per creare le migliori condizioni possibili ed evitare, in maniera preventiva, che poi in Parlamento succeda questo». La risposta di Draghi è raggelante. Il tono, racconta più di un ministro presente, duro, insolitamente duro per il premier: «A me non interessa fare esercizio di analisi sulle dinamiche parlamentari. Non voglio che succeda e non deve più succedere. Adesso trovate il modo di sistemare alla prima occasione utile i quattro provvedimenti. Questo governo – spiega Draghi – è stato voluto da Mattarella per fare le cose. O riuscite a garantire che i provvedimenti una volta approvati all’unanimità in Consiglio dei ministri passino in Parlamento o il Parlamento si trova un altro governo».

Il premier torna in anticipo da Bruxelles e dopo il vertice straordinario sull’Ucraina lascia al presidente francese Emmanuel Macron il testo da leggere durante il previsto tavolo dei leader europei con l’Unione Africana. Appena atterrato a Roma sale al Quirinale per aggiornare Sergio Mattarella sulla crisi. Sono gesti che, uno dopo l’altro, danno l’idea della gravità della situazione. Subito dopo il confronto con il presidente della Repubblica, convoca i capidelegazione a Palazzo Chigi. Il suo è un ultimatum. Ai consiglieri confida che non si farà logorare dal Parlamento, dall’anno di campagna elettorale dei partiti. Attorno a lui nessuno scommette più sull’impossibilità delle elezioni anticipate. Quello che è successo, dice l’ex presidente della Bce, è «successo già troppe volte» ed è «inaccettabile».

Draghi è a Parigi, per la cena di mercoledì sera con Macron, quando alla Camera gli emendamenti sostenuti dal governo vengono affossati. La coalizione che sostiene l’esecutivo si frantuma in alleanze composite, diverse a seconda del provvedimento, trasversali tra maggioranza e opposizione. Il centrodestra si compatta sul limite al contante, che risale a 2 mila euro, M5S e Pd si ritrovano con Forza Italia e Italia Viva sull’ex Ilva e difendono i soldi destinati alle bonifiche, respingendo così la decisione del governo che assegnava parte dei 575 milioni di euro ai futuri impianti di decarbonizzazione. Sull’aggiornamento delle graduatorie scolastiche invece i grillini votano con Fratelli d’Italia.

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Massimo Cacciari: “Questo sistema politico è morto, così i partiti non servono a niente”

venerdì, Febbraio 18th, 2022

ANDREA MALAGUTI

Questo sistema è morto». C’è qualcosa di irrevocabile nel modo in cui la voce del professor Massimo Cacciari sigilla le parole, sulla coda di 48 ore in cui i brandelli della credibilità politica sono sepolti prima dalla Corte Costituzionale guidata da Giuliano Amato e poi dal nervosismo insolitamente plateale di Mario Draghi.

Amato, nel corso di una sorprendente conferenza stampa, spiega promozione e bocciature dei referendum, appellandosi a un Parlamento sempre più inerme perché si sbrighi a legiferare. Draghi, il cui governo di sterminata e spappolata coalizione, va sotto quattro volte sul Milleproroghe, minaccia definitive ritorsioni nei confronti di partiti infantilmente riottosi. Tecnici che provano inutilmente a far correre i ronzini di Palazzo. “Intanto le diseguaglianze si moltiplicano e se non c’è una reazione immediata andiamo a sbattere”, dice Massimo Cacciari, che in questa intervista a La Stampa scatta l’ennesima impietosa fotografia del sempre più declinante ordine democratico liberale. Ma, soprattutto, italiano.

Professore, le decisioni della Corte Costituzionale sui referendum sono state tecniche o politiche?
«La Corte Costituzionale è un organo politico. In Italia non abbiamo poteri neutri. Parte dei membri della Consulta sono eletti dalla politica e così il Presidente della Repubblica. La nostra Costituzione non prevede poteri neutrali».

Non ha avuto l’impressione di rivivere il bis dell’elezione di Mattarella. Nei momenti decisivi la politica sparisce.
«È così. E sarebbe ora che la politica se ne accorgesse, perché questo è il tema dei temi. Ma è come se fossimo di fronte a dei malati che non si vogliono curare. Che non intendono discutere il loro male e, anzi, lo nascondono».

Morale?
«Serve un ripensamento completo dell’agire politico e un ripensamento delle istituzioni, che tenga conto della mutata situazione in cui viviamo da oltre 30 anni».

Più facile da dire che da fare. 
«Lo so, ma la questione si sta aggravando. Abbiamo una dimensione politica esclusivamente statalistica, quando il problema è quello dei grandi spazi, della contraddizione tra gli imperi, della globalizzazione tecnico-scientifica-finanziaria. È difficile ripensare una politica che rimane statale, ma se non lo facciamo in fretta della democrazia non ci resterà che un remoto ricordo».

È la fine della storia?
«No, ma il rischio è che se ne affermi un’altra in cui saremo governati da amministrazioni, non necessariamente totalitarie, centrate su competenze tecniche che si muovono in accordo con potenze economiche e finanziarie».

Sembra peggio della fine della storia. Sembra la fine tout court. 
«Questo sistema è morto. E l’allargamento della forbice tra ceto politico e opinione pubblica può essere foriero di qualsiasi avventura. Non penso a sconquassi novecenteschi, ma a pesanti crisi economiche e sociali sì. Bisogna rivedere in fretto il ruolo dei partiti e la funzione del Parlamento».

A proposito di ruoli. Giuliano Amato aveva detto che sui quesiti referendari la Corte non avrebbe cercato il pelo nell’uovo: è stato di parola?
«Aspettiamo le motivazioni per dare un giudizio. Dopo di che non capisco come si possa negare la validità dei due referendum che, per me, dal punto di vista etico erano i più significativi: fine vita e cannabis. Senza i quali, per altro, è del tutto evidente che nessuno dei quesiti rimasti raggiungerà il quorum».

Fa dietrologia anche lei? 
«No. Non so se la Corte abbia avuto questo retro-pensiero. Ma so che così il quorum non si raggiunge di certo».

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Bollette, il giorno degli aiuti: atteso l’ok agli sconti per famiglie e 4 mila aziende

venerdì, Febbraio 18th, 2022

PAOLO BARONI

Vale in tutto 5-6 miliardi di euro (ma sul filo di lana oggi si potrebbe salire fin verso 7) il nuovo pacchetto di sostegni a famiglie e imprese per arginare sino a giugno i rincari dei prezzi dell’energia. Oltre a questo, nel nuovo decreto che approderà oggi al consiglio dei ministri, entreranno anche gli aggiustamenti per sbloccare l’utilizzo del Superbonus ed il varo di un nuovo fondo a sostegno dell’auto. Ieri il presidente del Consiglio Mario Draghi è rientrato in anticipo da Bruxelles, per riunire i capidelegazione di maggioranza e dare la spinta finale ad un dossier a cui guardano con interesse famiglie e imprese messe alle corde dai maxi-aumenti di luce e gas.
Il taglia-bollette bis
Il pacchetto taglia-bollette corre lungo un doppio binario: da un lato la proroga anche nel secondo trimestre dell’anno delle misure già in vigore da gennaio (azzeramento degli oneri di sistema, Iva ridotta al 5% sul gas e bonus sociale a favore delle famiglie più in difficoltà), dall’altro forniture di gas e luce a prezzi ribassati destinate alle 3-4.000 aziende energivore del Paese. Ai settori più a rischio, in maniera selettiva, verrebbero riservati 25 Therawatt di energia elettrica prodotta dalle rinnovabili (e ceduti a 50 euro per megawattora) e la quota aggiuntiva di produzione nazionale di gas che verrebbe ricavata dagli attuali pozzi in attività e ceduta poi anche questa con contratti decennali a circa 20 centesimi per metro cubo equivalente contro gli attuali 70. L’obiettivo di raddoppiare da 3,5 a 7-8 miliardi di metri cubi non sarebbe fattibile nell’immediato per ragioni tecniche e politiche (che sconsigliano di riavviare i pozzi fermi da anni nell’Alto adriatico) ma si punterebbe ad arrivare comunque a quota 4,5-5 miliardi. Oltre a questo verrebbero poi previste ulteriori misure di semplificazione per facilitare l’individuazione delle aree da destinare ai nuovi impianti per le energie rinnovabili e l’installazione di pannelli solari da parte di privati e nella Pubblica amministrazione.

Superbonus 110% corretto
Un’altra serie di interventi riguarda il Superbonus del 110%. In questo caso da un lato vengono inasprite le sanzioni penali a carico di chi commette frodi e dall’altro vengono allargate le maglie per consentire la cessione del credito più volte che le norme in vigore avevano da poco ristretto ad una sola ingessando di fatto il mercato. La nuova soglia prevede invece la possibilità di tre passaggi di mano, ma solo se questi avvengono attraverso canali certificati e sicuri come quelli bancari.

È poi previsto che ogni operazione venga tracciata dall’inizio alla fine attraverso un codice identificativo che consentirà di risalire a tutta la filiera evitando la possibilità di realizzare le truffe miliardarie che hanno interessato anche altri bonus. È infine previsto che la detrazione al 110%, oggi recuperabile in 5 anni, venga sospesa in caso di sequestro da parte delle magistratura prevedendo poi la possibilità che il credito possa essere recuperato anche una volta scaduti i tempi nel caso gli accertamenti non si concludano con una confisca.

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Ucraina: l’azzardo di Putin l’acrobata

venerdì, Febbraio 18th, 2022

di   Franco Venturini |

Se Winston Churchill avesse assistito a quanto accade oggi attorno all’Ucraina, avrebbe probabilmente modificato il suo celebre detto secondo cui «la Russia è un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma». La Russia di Vladimir Putin, in realtà, somiglia piuttosto alle abili evoluzioni di un acrobata, con le intenzioni finali certo nascoste, ma la strategia e i mezzi per soddisfarla più che palesi.

E così, per capire quel che accadrà domani (invasione o negoziato?), occorre continuamente tornare a ieri. Cosa voleva e cosa vuole, il Putin che manda 140 mila soldati al confine con l’Ucraina e minaccia Kiev anche dalla Bielorussia? È improbabile, fino a prova contraria, che voglia invadere. Perché non possono sfuggire a lui, bravo scacchista e cintura nera di judo, né la condizione di Stato-paria nella quale le sanzioni occidentali ridurrebbero la Russia, né la necessità per sopravvivere di un abbraccio cinese ancor più stretto, mai gradito da Mosca malgrado le apparenze. Non solo.

Putin sa anche di aver avanzato richieste inaccettabili per l’Occidente (garanzia scritta sul non ingresso dell’Ucraina nella Nato, arretramento dell’Alleanza in tutta l’ex Europa dell’Est), e non deve essere stata una sorpresa che Usa e Nato le abbiano rimandate al mittente evocando principi libertari non modificabili. E allora, perché tanto chiasso armato, tante minacce? L’agilità dell’acrobata non deve essere sottovalutata.

Se il presidente russo tiene un vero e proprio esercito al confine ucraino è per ottenere vantaggi politici e strategici, non per premere il grillettocontro il tanto decantato «popolo fratello» che di sicuro resisterebbe.

Certo, Putin non ha gli scrupoli delle nostre democrazie, e non è alieno agli errori di calcolo: la volontà di approfittare della debolezza dell’Occidente si è tradotta in un rilancio della Nato sbandata dopo Kabul, e persino in un aiuto non indifferente al presidente Biden in piena crisi di consensi. Ma qual è allora, tra mosse e contromosse, il bilancio provvisorio di una partita ancora in pieno svolgimento e che continua a tenere alzata la spada di Damocle dell’ennesima guerra in Europa?

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Incendio sul traghetto Euroferry nella tratta dalla Grecia all’Italia

venerdì, Febbraio 18th, 2022

Il natante era in viaggio da Igoumenitsa a Brindisi. A bordo c’erano 237 passeggeri e 57 membri dell’equipaggio. Non risultano feriti

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Foto via Hellenic Rescue Team

Le fiamme e poi l’allarme lanciato nel cuore della notte. Un incendio è scoppiato a bordo di un traghetto Euroferry Olympia battente bandiera italiana della Grimaldi Lines che collega la città di Igoumenitsa in Grecia e che arriva a Brindisi. A bordo della nave c’erano 237 passeggeri e 51 membri dell’equipaggio.

Secondo quanto riporta l’Ansa, alle 7 del mattino circa la nave è stata completamente evacuata con i mezzi di bordo e non risultano feriti.

L’incendio è avvenuto a circa 9 miglia dalla costa, in piena area Sar (ricerca e soccorso) greca. La guardia costiera greca, competente per i soccorsi, si è subito messa in contatto con il Comando generale delle capitanerie di porto a Roma, per coordinare l’intervento: la Guardia costiera italiana ha messo a disposizione mezzi navali e aerei, che però non sono stati necessari. Sul posto è intervenuta, oltre alle motovedette della guardia costiera greca, anche una unità della Guardia di finanza italiana che si trovava in quel tratto di mare.

Articolo in aggiornamento…

CORRIERE.IT

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Draghi, l’incontro con Mattarella e poi l’aut aut ai partiti: dentro o fuori, dovete garantire i voti

venerdì, Febbraio 18th, 2022

di Monica Guerzoni

La linea dura di Draghi con i partiti è stata concoradta con il Quirinale: è andato da Mattarella per preannunciare la strigliata ai partiti e l’aut aut senza precedenti. Ai ministri che si giustificano dice: siamo qui per essere idealisti, non realisti

Con un aut aut che non ha precedenti, Mario Draghi ha posto ai partiti della sua maggioranza una questione di fiducia sul governo: o dentro o fuori. Perché a forza di strappi si rischia di precipitare al voto, mandando in fumo i miliardi del Pnrr. È il passaggio più politico da quando l’avventura dell’unità nazionale ha avuto inizio. «Il presidente Mattarella ha voluto questo governo per fare le cose che servono all’Italia», ha sferzato il presidente del Consiglio affrontando i capi delegazione, quasi scioccati da tanta fermezza. E quando uno via l’altro i ministri hanno provato a giustificare i gruppi parlamentari, il premier ha reagito duro: «Non siamo qui per essere realisti, siamo qui per essere idealisti».

L’ultimatum nasce dalla notte di mercoledì a Montecitorio
, quando il governo si è auto-affondato per quattro volte in Commissione. Il Pd e il M5S hanno strappato sull’Ilva, la Lega e Forza Italia hanno ritrovato l’asse con FdI sul tetto al contante. Ma non c’è solo il quadruplo incidente della Camera nell’ira di Draghi, c’è che provvedimenti cruciali come la concorrenza e la delega fiscale sono impantanati in Parlamento e il presidente si è stancato dell’ambiguità e dell’incoerenza dei partiti.

La linea dura è stata
studiata a tavolino a Palazzo Chigi e concordata con il Quirinale . Draghi che «molla» il summit di Bruxelles, atterra a Fiumicino, sale al Colle per preannunciare a Mattarella la strigliata e riceve il pieno sostegno del capo dello Stato. Poi la lavata di capo. Al tavolo ci sono Giorgetti, Orlando, Gelmini, Speranza, Patuanelli, Bonetti. Il premier scandisce parole come pietre, che un ministro, colpito dal Draghi «furibondo», riassumerà così: «O siamo il governo del fare o è inutile star qui a scaldare la sedia. Con Mattarella non lo abbiamo costruito per tirare a campare. Quanto a me, posso sempre fare altro». Palazzo Chigi non conferma lo stile colorito, ma il senso è questo. Purché non si pensi che il presidente sia pronto all’addio. Gettare la spugna non è nelle sue corde, ha preso un impegno davanti agli italiani ed è determinato a portarlo in fondo. Alle sue condizioni. Come disse il giorno della fiducia al Senato, «il tempo del potere può essere sprecato nella sola preoccupazione di conservarlo». Lui non vuole sprecarlo, né consentire ai partiti di mandare al macero il lavoro di un anno di governo.

Possibile, chiede brusco ai capi delegazione, che la stessa maggioranza che in Cdm vota all’unanimità la riforma del Csm, un attimo dopo annunci di volerla cambiare in Parlamento? Lo stesso vale per il decreto spiagge. «Sono dinamiche ingiustificabili, con una crisi internazionale alle porte». E quando gli esponenti dei partiti provano a giustificarsi, Draghi inasprisce gli accenti, seccato dal tentativo di degradare una questione di merito politico a un tema di frustrazione dei gruppi parlamentari. Parla Patuanelli e spiega che, se da mesi chiede di poter avere in tempo le bozze dei provvedimenti, è per sondare l’umore di deputati e senatori del M5S. In diversi annuiscono, vista la difficoltà di controllare i gruppi. Gelmini ricorda che «siamo entrati in un anno elettorale». Draghi ascolta, prende i suoi appunti, quindi ribalta il tavolo. Smentisce la percezione che Palazzo Chigi non dialoghi con il Parlamento e cita a esempio il renziano Marattin che «tiene bloccata» la delega fiscale in commissione: «L’avete approvata in Cdm e ora volete togliere la riforma del catasto? Non può andare così. Voi mi fate l’analisi della situazione, io invece voglio che sia risolta. Fatemi sapere cosa intendete fare, perché se il governo non produce, non ha senso che vada avanti».

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