Archive for Febbraio, 2022

Gianrico Carofiglio: “Bisogna rifondare la cultura politica, i leader non guardano oltre i tweet”

giovedì, Febbraio 3rd, 2022

Francesca Schianchi

Come nei tribunali campeggia la scritta «La giustizia è uguale per tutti», così su tutte le sedi di partito Gianrico Carofiglio vorrebbe vedere scolpita la massima del premio Nobel Richard Feynman: «L’incertezza è il prerequisito per la verità e per la moralità». Scrittore di successo, ex magistrato, una «incursione nella politica praticata» da senatore del Pd tra il 2008 e il 2013, Carofiglio ha pensato spesso a questa frase la settimana scorsa, nel pieno della battaglia per il Quirinale, tra pronostici e dichiarazioni roboanti puntualmente disattese. Chiusa la partita, il suo giudizio è duplice, a seconda che si valuti il risultato o il metodo attraverso cui ci si è arrivati.

Partiamo dal risultato: Sergio Mattarella di nuovo al Quirinale e Mario Draghi ancora al governo.
«È il risultato migliore che si potesse desiderare».

Ci si è arrivati dopo aver bruciato varie candidature, il centrodestra è deflagrato, nel M5S si è aperta una dura resa dei conti…
«Non era necessaria questa vicenda per certificare la grave crisi politica in atto, intesa come incapacità di mediazione e scarso senso di responsabilità».

È stato un fallimento della politica?
«No, perché il risultato finale è comunque positivo. Ma c’è bisogno di rifondare la cultura politica, indipendentemente dalle appartenenze. Abbiamo visto leader di partito impegnati in movimenti scomposti, incapaci di guardare oltre l’orizzonte di un tweet, intrappolati in un presentismo ossessivo».

A chi pensa? A Matteo Salvini, che aveva il boccino della trattativa?
«Il mio giudizio su Salvini è estremamente critico, ma non mi piace nemmeno infierire. Chi si stupisce per quanto ha giocato male questa partita lo fa perché aveva fatto l’errore di attribuirgli doti da stratega in passato».

Il centrodestra esce a pezzi da questa partita, con la Meloni che però i sondaggi danno in salita.
«Meloni ha dimostrato di avere attitudine al comando. Ma io mi auguro che i politici laici con inclinazione liberale che sono nel centro destra si ricompongano in una forza moderata, che sarebbe un interlocutore più che rispettabile della sinistra. La quale però, intanto, deve rispondere a un paio di domande fondamentali».

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Sanremo 2022, il meglio e il peggio della seconda serata

giovedì, Febbraio 3rd, 2022

Alice Castagneri

Irriverente, scorretto il giusto. Checco Zalone, il comico «del popolino» che sta «con la gente vera» le azzecca tutte. Racconta la favoletta sul trans innamorato, veste i panni del rapper Ragadi e poi quelli del virologo Oronzo Carrisi, cugino di Al Bano. Il mondo Lgbqt, la scena rap e la virologia. Gli sketch del comico pugliese straripano di attualità. La fiaba «scorretta» è la storiadi Oreste, trans brasiliano che viene invitato al ballo a corte. È colpo di fulmine con il principe, ma il re omofobo non vuole: peccato però che il sovrano sia un «cliente affezionato» di Oreste. «Stiamo facendo servizio pubblico», graffia Zalone. Poi rilegge Mia Martini con «Che ipocrisia nell’universo» e conclude con l’ennesimo doppio senso: «Se ci sono denunce, querele interrogazioni parlamentari, il foro di competenza è di Amadeus». 

Top e flop, la vera nota stonata è l’assenza del maestro Beppe Vessicchio

Nei panni del rapper Ragadi – uno, un po’ in là con gli anni –  canta il disagio del «poco ricco». Suona «con evidenti sofferenze, i demoni del passato che ritornano», sin dalla seduta al pianoforte su un cuscino a ciambella. «Non sono nato povero, sono poco ricco», rappa. È il disagio di chi «ha la Playstation 2 quando già c’era la tre», o «vede le insegne di Prada, ma sente una voce amara che dice Zara», «compra i croccantini per il cane Bracco da Cracco», ha «la madre devastata perché in casa ha una sola filippina”, e «un padre eccezionale che va a puttane dentro il Bosco verticale” e pensa “il duomo lo compro io, si può sfrattare Dio».

Sanremo 2022, la fiaba di Checco Zalone contro l’omofobia divide i social: “Geniale”. “Non fa ridere”

Infine, è il virologo cugino di Al Bano. «Pensavo di lasciare la virologia e aprire una carrozzeria», poi è arrivato il Covid. «Questa pacchia, purtroppo sta per finire». Canta Pandemia ora che vai via mentre sullo sfondo appaiono Bassetti, Pregliasco, Burioni e Crisanti. 

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Draghi e i timori di una crisi. Il premier pensa sia tattica, ma c’è il rischio che la Lega rompa a giugno

giovedì, Febbraio 3rd, 2022

Ilario Lombardo

Giugno. Se si interrogano i ministri del Pd e del M5S la risposta di tutti è più o meno la stessa. Quello è il mese segnato in rosso. Quando, cioè, prevedono che la Lega potrebbe rompere e liberarsi dei vincoli di governo per tuffarsi nella campagna elettorale. Lo strappo di ieri era atteso, prima o poi, dagli alleati e a Palazzo Chigi. Forse non così presto, però. Non tre giorni dopo la riconferma di Sergio Mattarella al Quirinale e alla vigilia del giuramento alla Camera del presidente della Repubblica.

Ma l’agitazione di Matteo Salvini era sotto gli occhi di tutti. «Romperà, vedrai» è la frase che anche Mario Draghi si sente ripetere da giorni dai suoi interlocutori politici. Il presidente del Consiglio è rimasto stupito dalla defezione dei ministri leghisti in Cdm, anche perché è avvenuta nel giorno in cui il governo annunciava la volontà di riaprire il Paese, proprio a partire dai ragazzi. Durante il confronto con Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega e capodelegazione, Draghi ha espresso tutte le sue perplessità per le accuse di aver avvallato una discriminazione tra bambini vaccinati in presenza e non vaccinati in Dad. Davanti ai ministri invece ha sintetizzato così il suo giudizio, senza trascinare oltre le polemiche: «Capiamo il punto, ma questa è la decisione giusta».

Il premier deve muoversi tra i cocci dei partiti, nelle lacerazioni balcaniche delle coalizioni e dei partiti. Con un rischio: che nessuna scelta sarà più neutrale. Perché nei prossimi mesi verrà ammantata di un valore politico. A Draghi è chiaro cosa sta succedendo. Salvini è uscito malconcio dalle trattative del Quirinale, sottoposto a un processo nel centrodestra e dentro la Lega. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni minaccia di salire ancora di più nei sondaggi e di lasciare nella polvere dei rimpianti sovranisti l’alleato. Il posizionamento del segretario del Carroccio, secondo la lettura che ne dà Draghi, è tattico, serve a coprire i clamorosi inciampi avuti sul presidente della Repubblica e a non lasciare totalmente la ragione sociale dell’opposizione a Fdi.

La Lega potrebbe, però, essere solo all’inizio della sua campagna. Il Consiglio federale del partito ha consegnato a Salvini il mandato di non retrocedere anche su altri temi: energia, scostamento di bilancio, tasse. Ecco perché nelle prossime ore il premier intende accogliere la richiesta di un incontro avanzata dal segretario, un minuto dopo l’elezione di Mattarella. Quasi sicuramente parleranno di rimpasto. L’ex banchiere ha la necessità di capire se pragmatismo e mediazione basteranno a placare il leghista ferito. Diversamente, Draghi potrebbe non riuscire a tenere compatto il governo per affrontare riforme politicamente molto più complicate come quelle delle pensioni e del fisco.

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Mattarella bis, oggi il giuramento del Presidente della Repubblica

giovedì, Febbraio 3rd, 2022

Ugo Magri

Il bis di Sergio Mattarella non si annuncia affatto come una stanca ripetizione del già visto, e già oggi alle 15,30 ne riceveremo un assaggio quando il tredicesimo presidente della Repubblica interverrà nell’aula di Montecitorio per illustrare il suo secondo mandato. Chi presume di sapere in anticipo che cosa dirà, immaginando un copia-e-incolla del precedente discorso inaugurale, è probabilmente fuori strada; idem quelli che si aspettano un’attenzione tutta concentrata sulle difficoltà del presente, con un respiro affannato e un orizzonte temporale di un paio d’anni esagerando.

Le anticipazioni filtrate dal Quirinale sono perfino, se possibile, più avare del solito, ma da quel pochissimo si capisce che Mattarella vorrà spingere il suo sguardo molto al di là dell’emergenza attuale e ci inviterà a riflettere sui grandi cambiamenti con cui bisogna fare i conti. Questioni drammatiche, sfide epocali come il clima, le migrazioni, ovviamente la sicurezza e la pace, però non solo. Davanti ai «grandi elettori» presenti in Aula (e precedentemente “sanificati” con un tampone) il presidente dirà che dovremo meglio attrezzarci ad affrontare i nostri mali storici con le riforme degli anni a venire: incominciando con quelle concordate in Europa, finanziate dall’Unione e messe nero su bianco nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). L’Italia è attesa alla prova di una impegnativa transizione che richiederà atteggiamenti maturi e comportamenti seri ancora per diversi anni a venire.

Grandi protagonisti di questa adesione al nuovo, dell’apertura alla modernità sollecitata da Mattarella nel suo spirito moroteo, saranno anzitutto le forze politiche e sociali, il Parlamento, il governo. Agli interlocutori si rivolgerà senza brandire la frusta, con il solito proverbiale rispetto; però sapendo perfettamente che questa rielezione non cercata e – a quanto si sa – nemmeno festeggiata nonostante il consenso record (soltanto Pertini ebbe qualche suffragio in più) lo pone adesso in una condizione di forza, fa di lui d’ora in avanti il perno imprescindibile del sistema.

Dei suoi consigli, anche solo sussurrati, i vari protagonisti faranno bene a tener conto perché una cosa era rapportarsi con un presidente ormai agli sgoccioli, depotenziato dal «semestre bianco» anzi concentrato nel trasloco quale Mattarella era fino a pochi giorni fa; tutt’altra cosa sarebbe disattendere la «moral suasion» di un capo dello Stato appena incoronato, destinato a trattenersi per un tempo biblico (sette anni) e per giunta festeggiato con una «ola» a Sanremo, prova indiscussa della sua popolarità. Corollario: chi volesse sfidare il Colle lo farebbe a proprio rischio e pericolo.

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Le nostalgie senza futuro dei partiti

giovedì, Febbraio 3rd, 2022

di Aldo Cazzullo

Per la politica sarebbe una sconfitta non riuscire, tra un anno, a proporre al Paese alleanze, progetti, idee e candidati decenti, in cui gli italiani possano riconoscere le proprie aspirazioni e i propri interessi

Non è difficile immaginare lo spirito che segnerà la giornata di oggi. Il giuramento del presidente della Repubblica avviene sempre in un’atmosfera, se non solenne, seria; a maggior ragione se a giurare è, per la seconda volta, una personalità della statura di Sergio Mattarella. A Montecitorio ci saranno grisaglie da cerimonia e sorrisi da scampato pericolo. Una sorta di catarsi collettiva. Allegria di naufragi, avrebbe scritto Ungaretti: «E subito riprende/ il viaggio/ come/ dopo il naufragio/ un superstite/ lupo di mare». E lupi di mare ce ne sono parecchi, nel luogo detto non a caso Transatlantico. Sabato sera hanno tirato un sospiro di sollievo, e oggi si congratuleranno l’un l’altro, felici.

La rielezione di Mattarella è certo un elemento di stabilità ed equilibrio per il sistema; ma è stata il frutto anche di altre motivazioni, non tutte così nobili. Non è solo l’indennità da riscuotere sino all’ultimo, e la pensione da maturare. I peones hanno alzato un fuoco di sbarramento contro i «tecnici», confermando di essere prigionieri di un’idea un po’ invecchiata della politica, e dimenticando che, quando arrivano i professori, è perché i professionisti hanno fallito.

Forse i politici sottovalutano il discredito che ancora li circonda nell’opinione pubblica, anche perché non sono stati scelti dai cittadini, bensì designati dai capi partito.

Come ha fatto notare un ex che non può essere accusato di ubbie antipolitiche, Massimo D’Alema, i parlamentari non si sono conquistati il seggio sul territorio, tra la gente, ma nell’ufficio o più spesso nell’anticamera del segretario. Questo toglie loro credibilità e fa crescere in noi la nostalgia dei collegi uninominali — quelli da centomila elettori previsti dalla legge che porta il nome di Mattarella, non quelli troppo grandi imposti dalle norme in vigore —, dove chi ha un voto in più viene eletto e rappresenta una comunità che può confermarlo o sostituirlo.

Ma la direzione che ha imboccato la politica non va verso i collegi uninominali e il sistema maggioritario, introdotto con il referendum popolare del 1993. Al contrario, molti partiti hanno nostalgia del proporzionale, come nella Prima Repubblica. Un tempo in cui però esistevano luoghi di selezione della classe dirigente: sezioni, scuole, amministrazioni locali.

Oggi i partiti sono spappolati. Divisi in correnti e in gruppi digitali che non esitano a usare l’uno contro l’altro i più sporchi trucchi della Rete. E già questa tribalizzazione della politica non è una buona notizia. Ma ce n’è una ancora peggiore.

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Salvini avvisa il governo: lo strappo della Lega che non vota il decreto

giovedì, Febbraio 3rd, 2022

di Marco Cremonesi

La scelta dei ministri. L’attivismo del leader, che vede Franco

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Una folgore colpisca chi dice che la Lega ha cominciato il lavoro ai fianchi sul governo Draghi. Però il dubbio sorge: i ministri della Lega ieri pomeriggio non hanno votato il nuovo decreto Covid, anche se tutto sommato alcune loro richieste erano state accolte: «In coscienza — è la posizione ufficiale —, non potevamo approvare la discriminazione tra bambini vaccinati e non vaccinati. La firma è dei tre ministri leghisti Giancarlo Giorgetti, Massimo Garavaglia ed Erika Stefani. È vero, nella discussione i leghisti erano riusciti a spuntare il fatto che per chiudere una classe in dad ci vogliano cinque bambini positivi, e non più soltanto due. Ma, appunto, come si sente ripetere in continuazione da due giorni, la «Lega non è più disposta a fare sconti».

E così, ieri mattina Matteo Salvini ha incontrato al Mef il ministro Daniele Franco per un faccia a faccia «senza minuetti» (dicono in Lega) sul tema del caro bollette: «Ho chiesto a Franco e chiederò a Draghi un intervento sostanzioso, oltre i 5 miliardi subito per aiutare famiglie e imprese a pagare le bollette del gas». L’incontro con Draghi avverrà «a strettissimo giro» annuncia il partito, e anche quello non sarà soltanto per un tè. Non migliora il clima il fatto che Salvini, giusto martedì, aveva espresso la sua contrarietà alla sostituzione dell’ad di Mps Guido Bastianini. Pare che al Mef, ieri, del tema non si sia parlato, ma ieri la banca senese (azionista di controllo, il Tesoro) ha annunciato che la sostituzione approderà in cda lunedì prossimo.

Ma il pezzo forte della giornata sono certamente i ministri della Lega che non partecipano al voto sulle norme Covid. È appena il caso di notare che martedì, al consiglio federale della Lega, Salvini aveva chiesto un’assunzione di responsabilità a ministri, governatori e dirigenti. Il tema era stato sollecitato da alcuni salviniani con un ragionamento di questo genere: «Ci sono scelte che tutto il partito condivide, eppure la faccia ce la mette soltanto Matteo». È comunque indubbio che il malessere di Giancarlo Giorgetti, ministro allo Sviluppo economico, monta da qualche tempo. Spiega un suo amico che il disagio è «nei confronti di chi al governo, soprattutto Speranza, continua a parlare come se ci fosse una strada sola, che peraltro è poi puntualmente smentita dai fatti». Il problema è quando questa «realtà proclamata condiziona le vite delle persone». È lo stesso principio di quando il ministro si era infuriato per i troppi «scienziatoni con le verità in tasca» sui canali Rai. Non anti green pass, «ma nemmeno disposto a passare sulla Costituzione e sui principi liberali».

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È morta Monica Vitti, l’attrice aveva 90 anni

giovedì, Febbraio 3rd, 2022

di Maurizio Porro

Dopo una lunga malattia degenerativa, – mercoledì 2 febbraio — è morta Monica Vitti. L’attrice aveva 90 anni

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Monica Vitti è morta il 2 febbraio. Nata Maria Luisa Ceciarelli a Roma, il 3 novembre del 1931, aveva compiuto da qualche mese 90 anni. Attrice icona del cinema italiano, era assente dalle scene dal 2001,quando fu ricevuta al Quirinale per i David di Donatello. Musa di Michelangelo Antonioni, regina della commedia all’italiana al fianco di Alberto Sordi. I funerali si terranno sabato 5 febbraio, alle 15, nella Chiesa degli artisti a Piazza del Popolo a Roma.

Monica Vitti, l’attrice che visse due volte. Per varie ragioni. Primo perché, la simpatica «ragazza con la pistola» molti anni fa ebbe il privilegio di leggere con un certo sorriso il proprio necrologio su Le Monde, storica gaffe del prestigioso quotidiano francese; secondo perché la sua vena artistica la portò non solo dal teatro al cabaret e al cinema, ma dalla tragedia al dramma e poi alla commedia, valorizzando personali risorse validissime di comunicabilità anche nell’incomunicabilità. E terzo perché Monica, all’anagrafe Maria Luisa Ceciarelli, nata a Roma il 3 novembre 1931, fuoco di spirito e voglia di comunicare, baciata dal dono della dialettica e dell’humour, visse dall’inizio degli anni Duemila in un lento decrescendo Monica Vitti, dovuto a una malattia che le aveva portato via il dono della comunicazione, una vera e tremenda pena del contrappasso. La malattia degenerativa di cui soffriva si può per lei considerare una nemesi storica contro quello che era il suo naturale charme dialogico, che le aveva permesso di passare dall’intellettuale che passeggiava coi libri di Joyce in borsetta alla commediante grottesca amata da tutti.

Molti chiedevano in questi anni: ma che fine ha fatto la Vitti? La verità era che l’attrice, colpita dal male che fa regredire allo stadio infantile, aveva cominciato a perdere la memoria, sempre assistita dal marito Roberto Russo che era stato fotografo di scena di molti suoi film e infine anche suo regista in finale di carriera. Le ultime volte Monica ricordava il passato, poco il presente; poi i legami si sono definitivamente scissi ed è entrata in un suo mondo chiuso, misterioso e nascosto, facendo uscire gli altri, compresa la sua adorata carriera e attraverso gli occhi con lei comunicava solo il marito.

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Draghi: «Non possiamo fermarci». Il pranzo tra Giorgetti e Di Maio

giovedì, Febbraio 3rd, 2022

di Monica Guerzoni

Il presidente del Consiglio chiama il responsabile dello Sviluppo economico

Mario Draghi cambia passo sulla lotta al Covid. Forte dei numeri «molto incoraggianti» delle vaccinazioni il premier decide di spalancare porte, finestre e saracinesche del Paese e indica la via della libertà dopo due anni di restrizioni. Una svolta, che segna l’inizio di una nuova fase per un’Italia «sempre più aperta». Ma se Pd, Forza Italia, M5S, Italia viva e Leu condividono lo sprint verso il ritorno alla normalità, la Lega invece strappa e, al momento del via libera al decreto, sceglie l’astensione. «Non ci possiamo fermare», è la reazione stupita e quasi incredula di Draghi per una mossa in controtendenza rispetto alla linea aperturista del Carroccio. E questa volta non è un semplice tirar dritto da parte del premier, è l’annuncio di un metodo di lavoro. «Saranno mesi difficili», prevede il presidente del Consiglio e si prepara a prendere con ancora maggiore «nettezza e pragmatismo» tutte le decisioni che riterrà giuste, per portar fuori il Paese dalla crisi pandemica e da quella economica.

Draghi insomma non sembra più disposto a ingaggiare un braccio di ferro via l’altro, non vede ragioni politiche che possano fargli cambiare indirizzo su questioni che ritiene sacrosante, come la scuola in presenza. Per l’ex banchiere centrale è un principio cardine, tanto che Draghi ha ringraziato Roberto Speranza, Patrizio Bianchi e il sottosegretario Roberto Garofoli, che ha lavorato al testo. La bozza del decreto era più graduale, è stato il premier a spingere per eliminare il più possibile la dad. «Lo Stato ha investito sui vaccini e non è giusto che a pagare un prezzo siano le famiglie che si sono affidate alla scienza e alle scelte del governo», è il ragionamento di Draghi. Così è stato per la scuola, simbolo della riapertura e così sarà su altri temi, anche se la Lega o altre forze dovessero minacciare il non voto in Cdm.

«La situazione è molto brutta», è la sintesi di un ministro. Lo strappo di Salvini è un segnale d’allarme per la tenuta del governo e Draghi non lo sottovaluta. Ma anche se teme che Salvini starà «con un piede dentro e l’altro fuori», non vede traballare il governo. Sente di avere il mandato pieno e tutta la fiducia di Mattarella come garante della stabilità e ritiene che la gran parte della squadra (e anche i cittadini) condividano l’urgenza di riaprire il Paese. La stessa urgenza di molti governatori del Nord, che lo hanno sostenuto nei giorni neri della battaglia per il Quirinale e che ora lo appoggiano sul cronoprogramma per uscire dalle restrizioni anti Covid. Le Regioni hanno chiesto di mandare in archivio le zone di rischio a colori e Speranza, anche grazie alla mediazione di Mariastella Gelmini, ha accettato di superare il sistema su cui si è retta la strategia del rigore. Anche per questo tra la Salute e Chigi si giudica «incomprensibile» lo smarcamento di Salvini e compagni.

Per capire quanto la Lega sarà di lotta e quanto di governo, Draghi ieri ha chiamato Giorgetti, che ha disertato sia la cabina di regia che il Cdm. Un segnale che, visto da Palazzo Chigi, non è rivolto a Draghi quanto a Salvini. Il ministro dello Sviluppo punterebbe a ottenere dal leader un mandato pieno a negoziare al tavolo del governo, senza troppe interferenze da via Bellerio. Giorgetti è combattuto, ma i suoi smentiscono che voglia dimettersi. Eppure il pranzo di ieri con Luigi Di Maio autorizza molti a pensare che il numero due della Lega — che per tutta la giornata ha ricevuto parlamentari in via Veneto — stia cercando una via d’uscita.

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Di Maio raduna le truppe anti Conte

mercoledì, Febbraio 2nd, 2022

Domenico Di Sanzo

Il nemico del mio nemico è mio amico. In mattinata, alla Farnesina, Luigi Di Maio e Virginia Raggi si vedono per circa un’ora. Quello che va in scena è l’incontro di due risentimenti e il bersaglio è Giuseppe Conte. Tra il presidente del M5s e il ministro degli Esteri le ruggini sono emerse dopo la partita del Quirinale. I rancori della Raggi risalgono all’ultima campagna elettorale per le comunali a Roma, quando l’ex sindaca si è sentita abbandonata a se stessa durante la battaglia per una riconferma difficilissima. Da allora Raggi non ha mai rinunciato all’idea di insidiare la leadership di Conte. Ed eccoli, Raggi e Di Maio, a discutere del futuro del Movimento. «È stato fatto un punto politico sul M5s», filtra dagli entourage. I due, disallineati su temi come i vaccini e il green Pass, con l’ex sindaca che liscia il pelo agli scettici e il ministro convinto pro-Vax, si trovano in sintonia «sulla necessità di un chiarimento interno». Nel gioco di ruolo del grillismo il titolare della Farnesina, ormai governista per definizione, fa asse con Raggi, sempre affezionata alle parole d’ordine del passato. Dal lato opposto l’altra strana coppia: l’azzimato giurista e il descamisado Alessandro Di Battista.

Di Maio e Raggi con il faccia a faccia di ieri pongono le basi per un’alternativa a un M5s schiacciato su Conte. Lontana la tentazione di un colpo di mano attraverso i cavilli dello Statuto. Un blitz possibile, perché il ministro, l’ex sindaca e Roberto Fico fanno parte del Comitato di garanzia. Un organismo che può sfiduciare il leader, ma solo con il parere favorevole del Garante Beppe Grillo e dopo un voto degli iscritti. L’impresa è ardita e i neo alleati lo sanno. Invece, se tutto dovesse precipitare, Raggi potrebbe seguire Di Maio in una nuova avventura. La scissione è l’extrema ratio che non viene esclusa dai diretti interessati. Nel frattempo l’ex capo politico tesse la tela e nel pomeriggio sente Chiara Appendino per un lungo «focus sulla situazione politica».

Dall’altra parte del cielo c’è Conte. Il professore vuole un’assemblea aperta agli iscritti, che potrebbe essere convocata a stretto giro. L’ex premier così intende blindarsi con una legittimazione dal basso. Ma Di Maio non teme la conta e anche per questo stringe il patto con Raggi, molto radicata tra i militanti romani e amata dalla base. Conte minaccia ritorsioni in un’intervista al Fatto quotidiano: «Di Maio dovrà rendere conto di diverse condotte, molto gravi». Mentre nel caos è tornata l’armonia tra il leader e Alessandro Di Battista. L’ombra di Dibba spaventa i parlamentari. Trenta eletti autonomi dalle due correnti potrebbero lasciare il M5s se rientrasse Dibba, mal visto nei gruppi di Camera e Senato.

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“Un’odissea di dieci anni. In divisa anche in cella con l’incubo della forca”

mercoledì, Febbraio 2nd, 2022

Fausto Biloslavo

Massimiliano Latorre è in divisa, impeccabile, da marò, orgoglioso delle medaglie e mostrine di tante missioni dalla liberazione del Kuwait, al Kosovo fino all’Afghanistan. Il tribunale di Roma ha chiuso con l’archiviazione l’inchiesta sulla morte di due pescatori indiani in alto mare, dieci anni fa, quando Latorre e l’altro fuciliere di marina, Salvatore Girone, difendevano la nave italiana Enrica Lexie dai pirati.

Come descriveresti questi 3.683 giorni?

«È stata un’Odissea psicologica e umana».

Avete ottenuto la definitiva archiviazione delle accuse.

«Sul primo momento ho sentito al telefono Salvatore e non ci credevamo entrambi. Si vive nell’ombra dei traumi di questi dieci anni, ma finalmente è stata riconosciuta la nostra innocenza. Il motivo per cui ho sofferto tanti anni con dignità e in silenzio. Era una questione d’onore come uomo e militare. Siamo stati scagionati da qualsiasi reato ed è riconosciuto che abbiamo rispettato appieno le regole d’ingaggio».

Cosa è successo quel giorno di dieci anni fa in alto mare?

«È tutto scritto negli atti. Abbiamo visto che un’imbarcazione di avvicinava e sono state adottate le regole d’ingaggio in caso di attacco dei pirati. Abbiamo sparato solo colpi di avvertimento oltre ad avere utilizzato le altre misure previste come flash e sirene. L’archiviazione corrisponde a una piena assoluzione».

Perché siete tornati indietro nel Kerala?

«Ripeto che è tutto scritto negli atti. Gli indiani sostenevano che dovevamo identificare gli equipaggi che avevano fermato. Noi non abbiamo mai visto i due pescatori morti, non abbiamo nulla a che vedere con loro».

Alle loro famiglie vorresti dire qualcosa?

«Mi sento vicino, ma adesso, come allora, non sono responsabile della perdita dei loro cari. Umanamente mi dispiace, ma non sono io la causa del dolore».

Gli indiani che sono venuti a prendervi a bordo vi hanno trattato da criminali?

«Quando ci hanno portato a terra volevano farci scendere incappucciati. Non lo accettavamo perché indossavamo la divisa, che non abbiamo mai abbandonato neppure in carcere. Il console Giampaolo Cutillo si è battuto per evitare che incappucciassero due militari italiani».

Se non violenza avete subito pressioni dagli indiani?

«Pressioni sì, ma abbiamo sempre preteso rispetto reciproco. Qualche volta è venuto a mancare».

Qual è stato il momento più difficile?

«All’arresto e quando siamo rientrati per due volte in India con la pena di morte che gravava sulle nostre teste. C’era stato un accanimento giudiziario nei nostri confronti che avvertivamo a pelle. La pena capitale era un pericolo non tanto lontano».

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