Archive for Febbraio, 2022

Due anni con il virus: la paura è al minimo ma non tra i giovani

martedì, Febbraio 22nd, 2022

di Ilvo Diamanti

Oggi ricorre il secondo anniversario del Coronavirus in Italia. Un evento che nessuno intende celebrare. Noi per primi. Ma che non dobbiamo dimenticare. Due anni dopo, però, la preoccupazione, in Italia, scende al livello più basso degli ultimi due anni. Da quando è apparso chiaro che il contagio ci coinvolgeva direttamente. È quanto emerge dal recente sondaggio condotto da Demos per Repubblica.

Va sottolineato, peraltro, come il senso di inquietudine continui a coinvolgere quasi 7 italiani su 10. In modo molto o abbastanza intenso. Tuttavia, nel febbraio 2020 i segnali della sua presenza erano ancora lievi. Appariva un nemico lontano, in arrivo dalla Cina. E non ci rendevamo conto che “La Cina è vicina”, per citare il titolo di un noto film di Bellocchio. Pochi giorni dopo, però, il Covid diviene noto a tutti. E il “virus della paura” contamina la società. In misura non necessariamente coerente con la crescita del contagio. Perché il sentimento evolve seguendo altre e diverse tendenze. E contro-tendenze. Nell’estate del 2020, in particolare, la preoccupazione scende sensibilmente insieme alla sensazione (e all’auto-convinzione) che il virus stia concludendo il suo viaggio tra di noi. Il clima estivo, infatti, riduce gli spazi della diffusione virale. Così, molti si illudono che la minaccia sia alla fine. E così finisce l’autoreclusione. O meglio (peggio), il distanziamento sociale, per citare una definizione ministeriale, che evoca il declino della società. Una tendenza reale. Alcune indagini, infatti rilevano come la partecipazione sociale e associativa, nel 2020, crolli. E nel 2021 appaia pressoché dimezzata: dal 50% al 25-30%.

D’altra parte, la sospensione della paura, nell’estate 2020, aveva generato il ritorno alla e della vita sociale. Nelle piazze e nei quartieri. Con la conseguente e altrettanto improvvisa ripresa dei contagi. Soprattutto fra i giovani. Che, in precedenza, erano stati risparmiati. E, per questo, si erano illusi di essere immuni. Non era e non è, ovviamente, così. E oggi appaiono, infatti, i più preoccupati. Soprattutto gli studenti, provati dall’esperienza della Dad, la didattica a distanza. Che, come abbiamo scritto in altre occasioni, riproduce la Sad, la Società a distanza. Cioè, la non-società.

L’indice di preoccupazione, in Italia, fino a un anno fa, coinvolgeva l’80-90% dei cittadini. In larga maggioranza “molto” inquieti. Con riflessi importanti sul piano della salute sociale. Mentre avvengono cambiamenti significativi sul piano politico e istituzionale, a cui abbiamo dedicato attenzione in diverse occasioni. Il clima di paura e insicurezza, in particolare, ha generato una crescente domanda di protezione pubblica. E, al tempo stesso, di autorità. Si tratta di orientamenti diffusi che hanno accentuato la tendenza alla personalizzazione non tanto dei partiti, ma delle istituzioni stesse e dello Stato. Così si spiega il crescente consenso intorno al presidente del Consiglio, soprattutto dopo l’incarico a Mario Draghi, un anno fa. E, in precedenza, allo stesso Giuseppe Conte.

Lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha raggiunto indici di fiducia molto più elevati che in precedenza. A maggior ragione dopo la recente rielezione. Mentre i partiti hanno perduto ulteriormente fiducia, presso i cittadini. In altri termini, sta cambiando la nostra democrazia.

Tuttavia, l’evoluzione della paura virale, nell’ultimo anno, mostra come si stiano riducendo le componenti più inquiete. Negli ultimi mesi, il peso di coloro che si dicevano “molto preoccupati” si è sensibilmente ridimensionato. Costituiva il 56% dei cittadini, lo scorso marzo, nei mesi seguenti si è ridotto intorno al 30%. E oggi è scesa al 24%. Il minimo, negli ultimi due anni.

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Mafia, affari e politica in provincia di Messina. Colpo al clan di Barcellona, 81 arresti

martedì, Febbraio 22nd, 2022

di Salvo Palazzolo

Avevano scontato una condanna per mafia ed erano tornati alla loro attività di sempre. Due boss puntavano a fare tornare la cosca di Barcellona Pozzo di Gotto agli splendori criminali di un tempo. E c’erano riusciti, purtroppo. Le indagini dei carabinieri del comando provinciale di Messina, coordinate dalla procura diretta da Maurizio de Lucia, hanno svelato una presenza pressante di Cosa nostra sul territorio. Questa notte, sono scattati 81 arresti. Notificati anche cinque obblighi di presentazione alla polizia giudiziaria.

La cosca di Barcellona era tornata ad imporre i propri buttafuori ai locali della costa tirrenica. Molti altri imprenditori erano costretti a pagare il pizzo. I boss puntavano anche su nuovi traffici di droga. E poi reinvestivano i proventi illeciti in attività economiche lecite, nel settore dell’ortofrutta. Anche grazie all’aiuto di insospettabili.

Le intercettazioni dei carabinieri del Reparto Operativo di Messina sono davvero il racconto attualissimo della mafia che si trasforma: l’aspetto più inquietante è  nell’atteggiamento che viene registrato nei confronti dei padrini tornati in libertà. Purtroppo, in tanti continuano a cercare i boss, per risolvere le questioni più diverse. Persino per cercare voti nel corso delle campagne elettorali. Il caso Messina diventa allora emblematico. Da sempre, Barcellona Pozzo di Gotto è un laboratorio per alleanze e relazioni criminali: al centro, c’è una mafia antica, che custodisce il segreto di tante relazioni con le cosche di Palermo e Catania.

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Maggioranza, nuove divisioni Lega schierata contro il green pass

martedì, Febbraio 22nd, 2022

di Marco Cremonesi

Emendamento per abolirlo dopo il 31 marzo. Giorgetti: lo stato di emergenza non si proroga

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La Lega esce dalla maggioranza, Almeno per un giorno, almeno in commissione Affari sociali. Ma il suo emendamento (anzi, sub emendamento) viene bocciato. Giusto ieri mattina, Matteo Salvini aveva difeso la strategia del distinguersi a ogni passo dal governo: «Il Parlamento è eletto per approvare leggi: non è guerriglia parlamentare se modifica in meglio qualche provvedimento uscito dal Consiglio dei ministri, come il superbonus, aiutando imprese e famiglie. Il Parlamento fa il suo lavoro, altrimenti aboliamo il Parlamento».

Detto fatto, i parlamentari leghisti della commissione Affari sociali hanno votato un emendamento sulla quarantena per i bambini insieme a Fdi e Alternativa (il gruppo di molti fuoriusciti dai 5 stelle), sul quale il governo aveva dato parere contrario. La maggioranza chiede la sospensione della riunione ma, a sorpresa, la Lega presenta un sub emendamento per cancellare l’obbligo di super green pass per gli over 50 alla fine dell’emergenza nazionale (31 marzo). Anche su questo il governo dà parere contrario e si arriva al voto: 22 voti per bocciare contro 13, con l’astensione dei 5 deputati azzurri che non votano a favore dell’iniziativa leghista per «spirito di maggioranza»: «È un tema condiviso — dice Roberto Bagnasco, capogruppo azzurro in commissione — ma la tenuta della maggioranza è più importante». Non è detto che sia finita qui. Il leghista Claudio Borghi infatti twitta: «Vista la rilevanza del tema credo che l’emendamento debba essere ripresentato e discusso in Aula». Probabilmente per evitare nuove polemiche interne, arriva anche una nota del ministro Giancarlo Giorgetti: «Lo stato di emergenza è eccezionale, un’ulteriore proroga richiederebbe una situazione eccezionalissima che francamente non vedo. Non ci sono né le condizioni sanitarie né costituzionali per una ipotesi di questo genere».

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Lavoro e bollette, le nuove paure degli italiani

martedì, Febbraio 22nd, 2022

Alessandra Ghisleri

Ad alcuni potrà sembrare curioso che un presidente del Consiglio – molto celebrato – impegnato a fronteggiare un momento di importante transizione tra le molte iniziative in deficit legate agli ultimi due anni di pandemia e il prossimo futuro di sviluppo e crescita strettamente connesso agli investimenti del Pnrr, perda il 4,3% nell’indice di fiducia nell’arco di 20 giorni passando dal 52,1% al 47,8%. Del resto, interrogando i cittadini sulle priorità su cui vorrebbero il governo impegnato in prima linea compaiono il lavoro e l’occupazione in tutte le sue declinazioni al primo posto (20,0%), seguito dal “caro bollette” al 15,2% assoluto new entry nel ranking. Se a questo si sommano l’indicazione dell’inflazione generale (7,6%) – altro new entry – e la necessità di sanare il gap del carovita per i cittadini maggiormente in difficoltà (4,7%), la classifica subisce una modifica che porta in vetta l’importante reclamo dei cittadini nei confronti dell’aumento del costo della vita. Con le indicazioni di ben 1 cittadino su 3 (27,5%) emerge a chiare lettere quello che potrebbe essere interpretato come uno dei possibili motivi di criticità legati al calo di consenso del premier finora inattaccabile.

Il tema economico viene chiamato in causa anche come richiesta diretta di un impegno per la ripresa economica nazionale (14,9%).

Tutte le altre indicazioni, compreso l’intervento nel campo della sanità per migliorare il presidio territoriale aiutando ed incentivando il lavoro dei medici di base (6,9%) e il contrasto al Covid (2,3%), registrano valori inferiori all’8,0%. E’ verosimile che l’impatto dei buoni dati sulla pandemia abbiano spostato le attenzioni sulle pure questioni economiche, tuttavia la classifica delle priorità e l’indice di fiducia del premier evidenziano un segnale che a sua volta chiama in causa la speranza e la fortuna di puntare sulle capacità e le competenze del nostro presidente del Consiglio, Mario Draghi.

Da qui il richiamo alla politica chiamata ad agire non solo sui fattori economici, ma anche sulla necessità di mettere al centro proposte per la pianificazione di un Italia post Covid, come già avviene in molti Paesi del mondo. E siccome come scrisse il premio Nobel, Paul Robin Krugman, «la politica determina chi ha il potere, non chi detiene la verità», osservando le evoluzioni delle intenzioni di voto ci siamo esercitati in alcune espressioni di calcolo per comprendere come potrebbero andare le elezioni politiche nazionali se si votasse domani.

Come si sa il nuovo Parlamento sarà ridimensionato a 400 deputati e 200 senatori e, senza addentrarci nei puri conteggi, abbiamo previsto due simulazioni. Nella prima i computi sono stati realizzati sulla base dell’attuale legge elettorale che prevede uno sbarramento al 3,0%, mentre nella seconda su un proporzionale puro con sbarramento al 4,0%.

In entrambe le situazioni, non avendo a disposizione le distribuzioni dei candidati sul territorio, si è proceduto con una ripartizione equa di tutti i partiti sulle diverse aree a seconda della percentuale raggiunta nelle intenzioni di voto. I risultati ottenuti offrono delle indicazioni importanti. Infatti, a fronte di un prezzo superiore che paga il centrosinistra nelle sue tante scomposizioni, anche per il centrodestra la vittoria non è così immediata nonostante ci siano ben 9,2 punti di vantaggio a suo favore.

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La linea rossa di Draghi

martedì, Febbraio 22nd, 2022

ILARIO LOMBARDO

Alla fine, il peggio è stato evitato: la modifica che puntava ad abolire il Green Pass non è passata e questo fa tirare un sospiro di sollievo a Mario Draghi. Ma è l’ennesimo scricchiolio su una barca che potrebbe non reggere più a lungo. Il premier ha preferito non commentare, anche per non dare troppo seguito alle polemiche, tanto più mentre una guerra rischia di trascinare l’Europa nell’incertezza di un’altra crisi. Ma certo non gli ha fatto piacere lo strappo della Lega, per i modi e i tempi. Perché il certificato verde è il simbolo di questi mesi di lotta al Covid, e poi perché aveva fatto sapere ai leader che anche il suo orientamento personale è comunque quello di superare le restrizioni e di predisporre un provvedimento per iniziare l’uscita graduale dai vincoli, dal 31 marzo in poi, già nelle prossime due settimane. Negli scorsi giorni aveva condiviso il piano anche con il presidente del M5S Giuseppe Conte, con il quale ha riparlato di nuovo ieri e dovrebbe vedersi a breve. Ma la questione del rapporto tra governo e parlamentari, è chiaro anche a Draghi, non è più sul singolo provvedimento. È ormai l’atteggiamento dei leader, l’attitudine dei partiti, la virata elettorale che stanno prendendo gli ultimi mesi di legislatura, a restringere il perimetro dentro il quale l’ex presidente della Banca centrale europea riesce ancora a imporre la forza delle proprie decisioni.

C’è però «una linea rossa» – così la definiscono fonti di Palazzo Chigi – che Draghi non permetterà venga oltrepassata. Sono le riforme che incardinano il Piano nazionale di ripresa e resilienza e sono cruciali per ottenere i soldi europei. Su questo, ancora ieri, il premier si è mostrato categorico con i ministri e i collaboratori: «Gli impegni che abbiamo preso con l’Europa vanno rispettati». I paletti sono chiari e sono la riforma della giustizia, della concorrenza, degli appalti. Anche se considerata meno vincolante per le richieste dell’Ue, nel pacchetto rientrerebbe pure la delega fiscale, che Draghi considera molto importante ma che è ferma in commissione alla Camera. Come aveva già detto ai capidelegazione di maggioranza, nella sfuriata di giovedì, dopo che l’esecutivo era andato sotto su quattro emendamenti del decreto Milleproroghe, «il governo è stato chiamato per fare determinate cose». Se la missione fallisce, questo governo non ha più ragione di esistere agli occhi del presidente del Consiglio.

A differenza di quanto accaduto quattro giorni fa, però, questa volta Draghi ha evitato di drammatizzare ulteriormente la scelta, legittima, di un voto che ha l’effetto di spezzare la maggioranza e di rimettere in discussione le decisioni dell’esecutivo. Primo, perché l’esito finale in commissione ha salvato il Green Pass; secondo, perché è un modo dimostrare alle Camere di non voler soffocare lo spazio di agibilità che anche Silvio Berlusconi, domenica sera al telefono, gli ha consigliato di lasciare ai partiti quando sono in discussione norme più identitarie, che non compromettono il lavoro sulla pandemia e sulle riforme del Pnrr. Per il leader di Forza Italia si trattava di mandare un messaggio sul limite al contante, che il centrodestra ha riportato a duemila euro. Per altri, vedi il M5S, potrebbero essere i fondi per rifinanziare la Tav Torino-Lione.

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Ucraina, Vlad il Terribile passa il Rubicone: l’obiettivo è ricostruire l’Urss

martedì, Febbraio 22nd, 2022

Anna Zafesova

Chi si chiedeva in queste ore, questi mesi, questi anni, cosa avesse in mente Vladimir Putin, è stato finalmente accontentato. Il presidente russo non ha risparmiato tempo, ieri, a esporre la sua visione del mondo, della storia e delle relazioni internazionali, che va ben oltre due lembi di territorio che vuole strappare a Kiev, tornando indietro al 1991, e perfino al 1917. Non sono i missili Nato, o il «genocidio» dei russofoni che è in corso soltanto sui canali televisivi della propaganda russa. Il padrone del Cremlino mette insieme, in una narrazione confusa, la storia (imparata dai manuali sovietici) e i rapporti di intelligence, per provare a dimostrare che l’Ucraina «non ha mai avuto una statalità», e che non le riconosce alcuna dignità e autonomia, né legale, né economica, né culturale. Una «creazione di Lenin», dice Putin, con quel livore che riserva al fondatore dell’Urss ormai da anni, e poi promette di «far vedere la vera decomunistizzazione» a Kiev. Una minaccia che, tradotta, significa: non avete nulla di vostro, tutto quello che siete è un regalo dell’Unione Sovietica, che a sua volta è una creazione illegale dei comunisti, una mutilazione internazionalista del glorioso impero russo.

È un discorso di delegittimazione di tutto lo spazio post-sovietico, e mentre è in corso l’annessione strisciante della Bielorussia già occupata dalle truppe russe, il messaggio giunge in tutte le altre capitali, incluse quelle baltiche ormai parte dell’Ue. Tutto quello che bolliva da anni nella pentola della propaganda, dei guru «geopolitici», dei deputati più oltranzisti della Duma e dei commentatori più sfacciati dei talk show, dei predicatori dell’ortodossia della Santa Rus’ e dei militaristi più nostalgici dell’Armata Rossa, tutta quell’ideologia revanscista e nazionalista della quale Putin spesso si presentava come il volto umano – facendo capire all’Occidente come ai russi moderati che se non si vuole avere a che fare con lui, toccherà trattare con interlocutori molto più rudi – è stata riversata dal teleschermo. C’era dentro tutto, dai soldi spesi dall’ambasciata americana per finanziare i manifestanti che chiedevano l’Europa sul Maidan di Kiev fino all’ormai classico «golpe» del 2014 che avrebbe reso definitivamente illegittimo il governo ucraino, per concludere con il piano dell’Occidente di «fermare lo sviluppo della Russia» a colpi di sanzioni.

Dopo anni di interrogativi sul grado di razionalità del Cremlino, la risposta viene fornita dallo stesso Putin, che dichiara di credere alla sua propaganda, in un mix di nostalgia sovietica, rimpianto per una grandeur imperiale e paranoia dell’accerchiamento. «Vlad il Pazzo», come l’ha definito qualche giorno fa il Financial Times, ha prevalso sul «maestro di scacchi» esaltato per anni dai commentatori non solo russi. Il livore dedicato all’Ucraina, con la recitazione ossessiva della lista infinita dei suoi difetti – alcuni dei quali sembrano essere semmai caratteristici della Russia, come la corruzione, la «mancanza di democrazia» e «l’assenza di tribunali indipendenti» – appare alimentato da un odio quasi passionale, come quello che si prova verso un’ex fidanzata felice con il nuovo compagno. Non è una critica, è un tentativo di demolizione, e il problema non è più l’annessione di fatto di territori già praticamente occupati dai russi da otto anni: è una dichiarazione di guerra all’Ucraina, e a tutti gli ex Stati sovietici che pensano di poter avvicinarsi all’Europa e alla Nato.

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Crisi Ucraina, le sanzioni Usa e Ue: stop all’export, niente rapporti economici

martedì, Febbraio 22nd, 2022

di Francesca Basso e Giuseppe Sarcina

L’Ue blocca l’export dalle «repubbliche», stop dagli Usa ai rapporti economici Ma le divisioni in Europa frenano Biden

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Reazione immediata di Ue e Usa alla mossa di Vladimir Putin, che ieri ha riconosciuto l’indipendenza del Donbass. Gli europei si preparano a bloccare l’export delle due Repubbliche occupate dai filo russi. Gli Stati Uniti, invece, vieteranno a imprese e cittadini americani qualsiasi rapporto economico con quei territori. Sia a Bruxelles che a Washington si stanno valutando anche restrizioni su singoli dirigenti separatisti.

Arrivano le prime sanzioni, e, in parallelo, si intensifica il confronto su come rispondere in caso di escalation. Per diverse settimane Joe Biden ha spinto per un pacchetto unico, da applicare «velocemente», anche nel caso di una «limitata incursione». Ma le divisioni tra gli europei hanno costretto la Casa Bianca a cambiare approccio. Ora, stando alle indiscrezioni raccolte tra Bruxelles e Washington, si sta ragionando su uno schema più flessibile.

È probabile, però, che tra gli Stati membri anche oggi, nella riunione straordinaria degli ambasciatori Ue, convocata per mettere a punto le sanzioni sul Donbass, si riproponga la spaccatura che si è registrata ieri nel consiglio Affari esteri. I ministri hanno discusso un doppio livello di misure: un maxi intervento in caso di invasione dell’Ucraina; restrizioni più ridotte e proporzionate al tipo di infrazione del diritto internazionale. La Germania così come l’Italia era a favore di sanzioni parziali, mentre i Baltici sostenuti anche dall’Olanda e i Nordici erano più vicini alla posizione americana: un provvedimento unico. L’Alto rappresentante Ue Josep Borrell ieri ha chiarito quale sara il metodo da adottare in questa prima fase, con l’epicentro della crisi nel Donbass: «se c’è un’annessione, se c’è un riconoscimento, ci sono le sanzioni, tenendo presente la procedura». Il modello è quello seguito nel 2014, quando Putin inglobò la Crimea nella Federazione russa.

Ma il tema di fondo è stabilire una correlazione tra sanzioni e gravità degli eventi. Naturalmente il confronto è complicato dai diversi rapporti strutturali con la Russia. Alcuni Paesi, tra i quali Italia e Germania, avrebbero problemi enormi a rinunciare al gas russo. Sono giorni che le diplomazie europee discutono e si dividono. Gli americani, ora cercano di mediare. Venerdì 18 febbraio Daleep Singh, consigliere economico della Casa Bianca,ha spiegato ai giornalisti: «Le nostre sanzioni finanziarie sono state calibrate per massimizzare l’allineamento con i nostri partner.

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Putin ha inviato l’esercito russo in Ucraina

martedì, Febbraio 22nd, 2022

di Fabrizio Dragosei

Il presidente russo, dopo aver riconosciuto le repubbliche indipendentiste del Donbass, ha ordinato nella serata di lunedì 21 febbraio al suo esercito di entrare nel loro territorio per «garantire la pace»

Il presidente russo Vladimir Putin, dopo aver riconosciuto l’indipendenza dei separatisti del Donbass , ha ordinato nella serata di lunedì 21 febbraio al suo esercito di entrare nelle Repubbliche separatiste filorusse di Lugansk e di Donetsk «per il mantenimento della pace». Con questa decisione, di fatto, la Russia ha deciso l’invio delle sue truppe all’interno del territorio ucraino: una mossa che l’Occidente ha tentato per settimane di evitare.

Stati Uniti e Unione europea hanno condannato la decisione della Russia e hanno annunciato sanzioni : il presidente statunitense ha già firmato l’ordine esecutivo che vieta nuovi investimenti, attività commerciali e finanziarie nel Donbass.

Nella notte si è tenuta una riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu: «Rimaniamo aperti alla diplomazia», ha detto l’ambacsiatore russo alle Nazioni Unite. «Siamo impegnati per la strada diplomatica ma siamo sulla nostra terra, non abbiamo paura di niente e di nessuno. Non daremo via niente a nessuno», ha replicato l’embasciatore ucraino all’Onu. La Cina — in un intervento molto importante — ha chiesto «a tutte le parti interessate di esercitare moderazione: tutti i Paesi dovrebbero risolvere le dispute con mezzi pacifici in linea con la carta delle Nazioni Unite».

Non è chiaro se le truppe di Mosca si limiteranno a entrare nei territori effettivamente controllati dalle due autoproclamate repubbliche, o cercheranno di conquistare quelli che le repubbliche stesse affermano spetti loro di diritto, cioè l’intera regione del Donbass: in questo secondo caso ci si troverebbe di fronte a una invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia. Qui sotto, la cronaca di Fabrizio Dragosei.

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In diretta tv Putin ha annunciato ieri sera il riconoscimento dell’indipendenza delle due repubbliche separatiste di Lugansk e Donetsk. Subito dopo ha firmato il relativo decreto assieme a due trattati di collaborazione anche militare e nella notte i primi blindati russi sono entrati a Donetsk. Formalmente come forze di pace (addirittura su autobus dipinti di bianco come i mezzi inviati dall’Onu in zone di guerra). E questo perché nel decreto l’intervento russo è previsto esplicitamente. Passi irreversibili che sembrano chiudere la porta ai tentativi di mediazione avviati dai principali leader europei, Macron, Scholtz e lo stesso Draghi. Con l’Ucraina, Paese del quale il presidente russo ha negato la legittimità storica come entità statale, non c’è più dialogo.

Non è ancora guerra ma quasi. Se Kiev reagirà minimamente alla decisione del Cremlino, oltre centocinquantamila uomini equipaggiati con i più moderni sistemi bellici sono pronti a far sentire tutta la loro forza d’urto, ben al di là del Donbass. In ogni caso non è escluso che nuovi incidenti veri o presunti sulla linea del fronte tra indipendentisti del Donbass e regolari possano dare al signore del Cremlino la scusa per far avanzare le sue truppe oltre le linee di demarcazione delle due repubbliche.

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La grande paura dei grillini: “Siamo a rischio estinzione”

lunedì, Febbraio 21st, 2022

Domenico Di Sanzo

Prima «mai con il Pd», poi il fronte giallorosso e ora la paura di finire fuori dal campo largo. Nel Movimento nato più di 12 anni fa per impattare contro le divisioni del centrosinistra, adesso il problema è quello di essere tagliati fuori dal campo progressista. La determinazione anti grillina di Carlo Calenda preoccupa, i silenzi dell’alleato Enrico Letta fanno sorgere una serie di domande. Giuseppe Conte, leader del M5s sospeso dai giudici di Napoli, prova a uscire dall’impasse e manda un messaggio al segretario dem: «A noi non interessa creare accozzaglie solo per puntare alla gestione del potere». E ancora: «Il nostro progetto politico è a forte impronta progressista, facile riempirsi la bocca di riformismo, altro conto è cambiare l’Italia». Quindi, conclude polemico Conte, «c’è una differenza sostanziale tra campo largo e campo di battaglia». La richiesta a Letta è forte e chiara, speculare a quella avanzata da Calenda al Palaeur di Roma durante il primo congresso di Azione: o noi o loro. Ma dietro l’esibizione muscolare in risposta all’attacco dell’ex ministro, covano i timori del corpaccione dei Cinque stelle.

L’irritazione si irradia dai territori fino a Montecitorio e Palazzo Madama. In molte città al voto a giugno, tra cui 23 capoluoghi di provincia, i pentastellati sono al liberi tutti. C’è chi vuole andare senza il Pd, chi spinge per un’alleanza e chi vuole presentarsi con un nuovo simbolo, perché «il logo del M5s è logoro dopo le ultime vicende giudiziarie». Chi ha il polso dei territori vede concretamente il rischio di scomparire da quasi tutti i Consigli comunali, soprattutto dove i Cinque stelle decideranno di non correre insieme al Pd. Intanto è partito il conto alla rovescia per l’udienza del 1 marzo, quando il Tribunale di Napoli si esprimerà sull’istanza di revoca della sospensione dello Statuto presentata dagli avvocati di Conte. «Se verrà rigettata saremo punto e a capo e avremmo perso solo tempo», sibila una fonte parlamentare. E Beppe Grillo continua a non escludere, nei suoi colloqui privati, un ricorso alla piattaforma Rousseau per il voto del Comitato di garanzia. Un passaggio che per Conte avrebbe il sapore della sconfitta politica.

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A Palazzo Chigi cercasi regista politico

lunedì, Febbraio 21st, 2022

Alessandro De Angelis

Houston, a palazzo Chigi c’è un problema con la politica. Perché poi: non è che il Parlamento è il luogo dell’infinita saggezza quando rivota Mattarella, evviva, e diventa un covo di irresponsabili sull’Ilva. Lì, a Taranto si rischiano i forconi sui soldi tolti alle bonifiche ambientali; magari con un po’ di elasticità, parola magica, una soluzione ci sarebbe pure, come si è annunciato, con elasticità, sul contante. Sia come sia, è già scritto il film che verrà. Prevede che il pubblico pentimento di oggi, dopo la strigliata di Draghi, sarà seguito da nuovi peccati, in un anno elettorale, già difficile di suo, reso più complicato da un contesto di crisi e inflazione, perché un conto è litigare con un po’ di spesa pubblica a disposizione, altro sono le vacche magre. Se lo schema è rigidità del timoniere versus voglia di autonomia dei partiti, allora non c’è “tavolo” che tenga: patatrac, nella reciproca accusa di insubordinazione e sordità. Diciamo le cose come stanno, la situazione è complicata: il ministro dei Rapporti col Parlamento è una vedova della stagione precedente, i gruppi sono stressati dalla prospettiva delle elezioni, i ministri politici sono, a conti fatti, meglio dei tecnici ma, spesso, non esprimono la linea del loro partito, da Giorgetti rispetto a Salvini, a Di Maio rispetto a Conte. Insomma, Draghi non può fare tutto da solo: regista, goleador e portiere, sia all’estero, dove gioca e vince facile grazie alla sua forza reputazionale, sia in casa, dove ogni partita fa storia a sé.

Cercasi urgentemente regista politico, per un governo che ha una prevalenza politica sin dalla sua nascita, per scelta, e ancor di più dopo che il premier è finito nel tritacarne quirinalizio: non solo per la sua mancata elezione, ma anche perché è stato costretto a fare le trattative in prima persona, accorciando troppo la distanza di sicurezza, con se stesso come oggetto. Un Gianni Letta dei tempi d’oro, per intenderci, maestro nell’ascolto e nelle smussature o, se preferite, un autentico professionista della politica come Marco Minniti, sottosegretario a palazzo Chigi ai tempi in cui il governo D’Alema bombardava il Kosovo (pensate, Dio non voglia, all’escalation in Ucraina) con una maggioranza che andava da Armando Cossutta, l’ultimo comunista che organizzava i convogli umanitari verso la Serbia, a Francesco Cossiga, l’uomo di Gladio. A proposito di problemi col Parlamento.

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