Archive for Febbraio 17th, 2022

La botta (pesante) sul conto corrente. Come salvarsi subito

giovedì, Febbraio 17th, 2022

Ignazio Riccio

L’incremento dei costi dei conti correnti delle banche in Italia nel corso dell’ultimo anno è considerevole. Secondo uno studio effettuato da Altroconsumo, un’associazione di consumatori e utenti che dichiara oltre 350mila soci, a febbraio gli aumenti sono fissati in una forbice che va dal 7% al 14%. A far lievitare i costi c’è anche il pagamento di un canone per il possesso del Bancomat.Batosta sul conto corrente: chi paga di più

L’analisi di Altroconsumo

L’associazione dei consumatori ha raffrontato l’attuale costo di un conto corrente con quello del 2021 facendo riferimento alle commissioni e alle nuove offerte. Ciò è stato studiato sulla base di tre parametri: famiglie, giovani e pensionati. Il dossier evidenzia che l’Indicatore dei costi complessivi annui (Icc) nei conti correnti online è cresciuto del 13% arrivando a 78 euro per i pensionati con operatività media (189 operazioni all’anno) e del 12% per un totale di 87 euro per le famiglie con operatività media (228 operazioni).

Chi paga di più

Andando maggiormente nello specifico, il report di Altroconsumo è chiaro: famiglie e pensionati hanno subito un aumento dei costi del conto corrente, mentre è andata meglio ai giovani. Per loro non ci sono scossoni particolari, anche perché le agevolazioni nei confronti di chi ha meno età sono sempre molto ricche e variegate.Il segreto per risparmiare sul conto corrente: occhio al dettaglio

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Marco Travaglio smascherato da Filippo Facci: la verità “omessa” sui suoi idoli magistrati

giovedì, Febbraio 17th, 2022

Filippo Facci

Cominciamo coi numeri, quelli delle dita di Marco Travaglio: perché l’altra sera, in uno dei suoi monologhi, ha detto che gli innocenti di Mani pulite si possono contare «sulle dita di una mano o forse due», il che solleva interrogativi su quante dita abbia Travaglio per ciascuna mano: pur già consapevoli che trattasi di personaggio da baraccone. La prendiamo alla larga: cominciamo col dire degli 88 parlamentari eletti nel 1992 – destinatari di richieste di autorizzazioni a procedere da parte di varie procure – i prosciolti o gli assolti furono 61. Cominciamo anche a notare che tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni, restando invece alla Milano cara a Travaglio, si arriva a circa il 46% delle posizioni considerate: su un piano razionale, prima che umano, sono tutte persone che a Palazzo di giustizia non avrebbero dovuto entrarci, e sono quasi la metà. Siamo già a un Travaglio con 450 mani, considerando che le posizioni rilevate dalle statistiche ufficiali contemplano 4.520 soggetti. Ma prima di spiegare quello che le statistiche riportate cèlano, anticipiamo che nel suo libro eternamente rispolverato in cui cambia solo il packaging (Mani Pulite, si chiama, e in origine fu agevolato da un dischetto di computer elargito da un pm) risultano 469 persone prosciolte dal tribunale, di cui le «prescritte» sono solo 243; poi ci sono quelle persone prosciolte direttamente dal gup, giudice dell’udienza preliminare: e sono altre 480, di cui solo 179 per prescrizione. Tutti affari d’oro per il guantaio di Marco Travaglio.

PRESCRIZIONE
Parentesi sulla prescrizione: non è che sia una maledizione scagliata dal cielo, è un’eventualità maturata quasi sempre dai pm durante le indagini preliminari: il 60% matura prima dell’udienza preliminare (ne sono responsabili i magistrati delle indagini) e un altro 15% matura prima della sentenza di primo grado (sempre determinata da magistrati). Tenendo conto di quella notoria panzana che chiamano indiscrezionalità dell’azione penale, i pm di Mani pulite in pratica hanno accelerato i dibattimenti che parevano loro e lasciato ad ammuffire quelli che interessavano meno. Parziale dimostrazione: nel triennio 1992-1993-1994, tralasciando quindi la maggioranza dei rapidissimi dibattimenti riguardanti Silvio Berlusconi, che furono successivi – alcuni imputati sono stati condannati nei tre gradi di giudizio in soli 2 o 3 anni (citiamo solo Sergio Cusani, Walter Armanini e Paolo Pillitteri) mentre uno come Bettino Craxi, nonostante processare un parlamentare comportasse rallentamenti procedurali, ottenne la prima condanna definitiva il 12 novembre 1996 (era già ad Hammamet) in poco più di 3 anni.

Quando fu condannato a 3 anni per il processo Enimont, il 1° ottobre 1999, il giudice, oltre a leggere il dispositivo della sentenza, lesse in aula anche le motivazioni evidentemente già preparate nonostante in genere vengano elaborate nei due o tre mesi successivi, e sviluppate per centinaia di pagine: la primizia assoluta (mai vista prima) evitò ogni rischio di prescrizione. Ultimo esempio: lo stesso Craxi, il 16 aprile 1996, venne condannato in primo grado a 8 anni e 3 mesi per le tangenti della Metropolitana Milanese, e il 5 giugno 1997 la corte d’Appello confermò, ma l’anno successivo, il 16 aprile 1998, la Cassazione annullò la condanna d’Appello: ma ecco che venti giorni dopo il presidente della Quarta sezione della corte d’appello di Milano (oggi defunto) con una procedura mai vista telefonò alla Cassazione per avere gli atti del processo e «assegnarselo» prima ancora che fossero scritte le motivazioni della sentenza, così da evitare rischi di prescrizione. La Cassazione trasmise gli atti in tre giorni e il 24 luglio 1998 Craxi venne di nuovo condannato in Appello, e in un baleno, il 20 aprile 1999, una diversa sezione della Cassazione confermò. Ministro Cartabia, impàri: nessuna Corte Europea si lamenterebbe dei nostri tempi della Giustizia, se fossero tutti così.

RITI ABBREVIATI
Ma veniamo al cuore del problema: l’alto numero di riti abbreviati e soprattutto di patteggiamenti tra i quali si nascosero colpevoli ma anche innocenti che vollero solo uscire di scena e di galera preventiva, pena la rovina economica e dell’azienda e della famiglia coi conti bloccati. Su 3.200 persone di cui la procura di Milano chiese il giudizio, 1300 sono risultati colpevoli, certo, ma il numero comprende 506 patteggiamenti e 103 riti abbreviati, cioè poco meno della metà. Il patteggiamento è un accordo tra accusa e difesa che implica un’ammissione di colpevolezza da parte dell’indagato, nonché un benestare del giudice: si patteggia solo la pena, reclusiva o pecuniaria o che sia. Prima che il fondamentale articolo 530 fosse tardivamente ripristinato (senza il quale i processi erano solo vidimazioni notarili delle indagini, come non accadeva in nessun Paese occidentale) nel periodo di Mani pulite per condannare chicchessia era sufficiente estrarre verbali d’interrogatorio ottenuti in galera (da gente disposta a tutto pur di uscirne) e riversarli in processi ridotti a certificazioni delle carte in mano all’accusa. La totale discrezionalità dei pm dipendeva perlopiù dalle trattative che l’indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse. La teoria base del nuovo Codice doveva essere che le prove e le confessioni, per essere avvalorate, fossero riproposte nell’aula del processo, nel corso del quale una testimonianza diventare una prova: non nel parlatorio di un carcere o in una caserma di polizia. Esattamente come si vede nei film americani, dove ciò che non avviene nel processo semplicemente non esiste.

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Bollette, il piano del governo tra gli ostacoli

giovedì, Febbraio 17th, 2022

PAOLO BARONI

ROMA. In vista del Consiglio dei ministri di domani, dove il governo conta di varare un nuovo decreto taglia-bollette, si stringono i tempi per la messa a punto del nuovo pacchetto di interventi. Dato per scontato che verranno confermate e probabilmente rafforzate le misure a favore di famiglie e piccole imprese (azzeramento degli oneri accessori, Iva ridotta sul gas e bonus sociali), ora ci si concentra su quelle più grandi, le aziende energivore, che rischiano di essere messe fuori mercato dall’impennata dei costi di luce e gas. Si lavora in particolare sulla possibilità di fornire energia a «prezzo equo» a queste imprese su un orizzonte di più anni. Dopo aver affrontato lunedì la questione elettricità assieme ai vertici dell’Autorità per l’energia e del Gestore dei servizi elettrici, ieri a palazzo Chigi si è affrontato il dossier gas.

Girandola di incontri

Gli incontri tecnici si sono susseguiti per tutta la giornata: al primo hanno preso parte il sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli, i ministri dell’Economia e della Transizione Ecologica Daniele Franco e Roberto Cingolani e l’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi.

In questo caso, come ha proposto nelle settimane scorse il titolare del Mite, la sfida è quella di raddoppiare da 3,5-4 miliardi di metri cubi a 7-8 la produzione e l’estrazione di gas dai siti italiani in modo da coprire circa il 10% del fabbisogno nazionale che nel 2021 è stato di 72 miliardi di metri cubi.

In questo contesto il ruolo del gruppo controllato dal Tesoro è fondamentale perché l’Eni è l’operatore leader in questo campo con poco più di 3 miliardi di metri cubi di produzione di gas. Stando a fonti del governo, gli incontri sono serviti a capire quanto e dove ricavare più gas senza effettuare nuove trivellazioni ma semplicemente valorizzando i siti già attivi rispettando le disposizioni del Pitesai, il nuovo piano regolatore delle attività estrattive appena approvato dal Mite.

Il ruolo dell’Eni

Nel corso del vertice, a quanto si apprende, Descalzi avrebbe condiviso coi rappresentanti del governo considerazioni sullo scenario relativo ai prezzi dell’energia e sulla produzione e fornitura del gas, sia a livello europeo che italiano.

Presto per pensare a soluzioni operative. Molto dipende dalle scelte di tipo politico che il governo intende adottare venerdì. Sostanzialmente, la produzione nazionale di metano fa leva su tre aree distinte del paese, l’Emilia Romagna, le Marche e la Sicilia. Ma mentre in Sicilia l’Eni ha già tutti i permessi ed è in corso l’attività di sviluppo dei giacimenti Argo e Cassiopea, in Emilia Romagna e nell’Alto Adriatico prospiciente la costa veneta la situazione è più complessa.

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Perché i palazzi temono la democrazia diretta

giovedì, Febbraio 17th, 2022

Piergiorgio Odifreddi

La contrapposizione fra i promotori del referendum sul fine vita e la Corte Costituzionale deriva da visioni antitetiche della partecipazione dei cittadini alla politica, una formale e l’altra sostanziale. Dal punto di vista formale si scontrano, da un lato, l’idea democratica e popolare che a decidere delle regole del vivere comune, e soprattutto di quelle che ne costituiscono il fondamento e l’essenza, debbano essere i cittadini stessi, senza mediazioni di alcun tipo. E, dall’altro lato, l’idea paternalistica ed elitaria che a decidere debbano essere invece organismi e strutture via via più lontane dal sentire della gente comune, che vanno dal Parlamento al governo e agli organi di controllo. Nello specifico, la distanza che separa la Corte Costituzionale dal popolo è abissale: un terzo dei suoi giudici è eletto dagli eletti (i parlamentari), un terzo è eletto da un eletto dagli eletti (il presidente della Repubblica), un terzo è eletto da giudici che non sono eletti, e nessun giudice è eletto direttamente dai cittadini. Come se non bastasse, neppure la Costituzione che la Corte interpreta è stata a suo tempo approvata direttamente dai cittadini, ma soltanto indirettamente dall’Assemblea Costituente. E se anche lo fosse stata, oggi sarebbero morti tutti coloro che l’avessero votata: un’aperta violazione del cosiddetto principio di Jefferson, secondo il quale “la Terra è data in usufrutto ai viventi, e i morti non hanno poteri o diritti su di essi”.

Non stupisce dunque che il Parlamento, il governo e la Corte Costituzionale, che incarnano forme di democrazia via via più indirette e differite, guardino con crescente sospetto e fastidio ai referendum, che costituiscono invece una rivendicazione di democrazia diretta e immediata da parte dei cittadini. Stupisce invece, semmai, che lo stesso presidente Giuliano Amato abbia dichiarato qualche giorno fa, irritualmente ma benemeritamente: «Davanti ai quesiti referendari ci si può porre in due modi: o cercare qualunque pelo nell’uovo per buttarli nel cestino, oppure cercare di vedere se ci sono ragionevoli argomenti per dichiarare ammissibili referendum che pure hanno qualche difetto. Noi dobbiamo lavorare al massimo in questa seconda direzione». Naturalmente il neopresidente della Consulta parlava con cognizione di causa, ben sapendo che i suoi colleghi la pensavano esattamente al contrario di lui. E infatti, nei confronti del referendum sul fine vita hanno appunto trovato il “pelo nell’uovo per buttarlo nel cestino” paventato da Amato. Il quale, appartenendo a una tradizione storica di laicismo che è da sempre minoritaria nel Parlamento e nella politica della Repubblica italiana, sapeva bene che, oltre alle questioni formali, avrebbero pesato al riguardo anche argomentazioni sostanziali, legate alla concezione clericale della vita. Questa concezione è stata pubblicamente ribadita dal Papa il 9 febbraio scorso, a pochi giorni dalla delibera della Corte, in una delle esternazioni-ingerenze ai quali i suoi predecessori ci avevano abituati, e che gli ingenui pensavano fossero diventate obsolete nel suo sedicente “nuovo corso”. Riecheggiando le parole dei suoi predecessori Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Francesco ha affermato: «La vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata». E ha aggiunto, affinché chi aveva orecchie da intendere intendesse: «Questo principio etico riguarda tutti, non solo i cristiani o i credenti».

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Pensioni, le vie per l’anticipo: ecco le quattro ipotesi

giovedì, Febbraio 17th, 2022

LUCA MONTICELLI

ROMA. Governo e sindacati sono ormai al rush finale per arrivare alla riforma delle pensioni. La prossima settimana si terrà un nuovo round tra i tecnici e poi ci sarà un vertice politico tra i leader di Cgil, Cisl e Uil, il ministro dell’Economia Daniele Franco, quello del Lavoro Andrea Orlando e alla riunione probabilmente parteciperà anche il premier Mario Draghi.

«Quota 102», la possibilità di andare in pensione con 64 anni e 38 di contributi, terminerà a dicembre e poi dovrà partire il nuovo sistema per garantire flessibilità a chi sceglie di lasciare il lavoro prima dei 67 anni previsti dalla riforma varata dalla ministra Elsa Fornero, ai tempi del governo di Mario Monti. L’ipotesi sul tavolo è quella di individuare una finestra di uscita a 64 anni di età, con delle penalità per chi decide di anticipare la quiescenza.

Governo e sindacati trattano, ma su giovani e donne si profila un’intesa per scongiurare assegni troppo bassi in futuro. Per i giovani, infatti, si ragiona su una pensione di garanzia che li tuteli da carriere discontinue e buchi previdenziali. Per le donne si cerca un sostegno più forte, strutturale e meno penalizzante di Opzione donna.

I sindacati hanno proposto un anno di anticipo per ogni figlio e la valorizzazione della cura garantita a persone disabili o non autosufficienti.

LA PROPOSTA DEI SINDACATI
Flessibilità dai 62 anni o con 41 di contributi

La piattaforma unitaria di Cgil, Cisl e Uil – consegnata al governo quasi un anno fa – auspica l’estensione della flessibilità a partire dai 62 anni o con 41 di contributi a prescindere dall’età, permettendo ai lavoratori di poter scegliere quando andare in pensione senza penalizzazioni per chi ha iniziato a versare prima del 1996. Tra le ipotesi anche la modifica del meccanismo di adeguamento alla speranza di vita. Cgil, Cisl e Uil puntano su condizioni più favorevoli e strutturali per l’accesso alla pensione delle categorie più deboli, ad esempio gli usuranti che rientrano nell’Ape sociale.

L’IPOTESI DELL’INPS
La quota retributiva raggiunti i 67 anni

Andare in pensione prima dei 67 anni della Fornero solo con il ricalcolo dell’assegno contributivo. È il principio richiamato dal premier Draghi che dovrebbe essere il pilastro della prossima riforma. L’idea del governo considera finestre di uscita dai 64 anni di età con almeno 20 di contributi. Una sorta di «Opzione tutti» che però non piace ai sindacati perché, proprio come accade con Opzione donna, temono un taglio del trattamento pari al 30%. Dalle simulazioni condotte dai tecnici dell’esecutivo emerge anche la possibilità di variare il taglio dell’assegno in base agli anni di anticipo.

LA LINEA DEL GOVERNO
Trattamento ridotto per chi esce prima

Andare in pensione prima dei 67 anni della Fornero solo con il ricalcolo dell’assegno contributivo. È il principio richiamato dal premier Draghi che dovrebbe essere il pilastro della prossima riforma. L’idea del governo considera finestre di uscita dai 64 anni di età con almeno 20 di contributi. Una sorta di «Opzione tutti» che però non piace ai sindacati perché, proprio come accade con Opzione donna, temono un taglio del trattamento pari al 30%. Dalle simulazioni condotte dai tecnici dell’esecutivo emerge anche la possibilità di variare il taglio dell’assegno in base agli anni di anticipo.

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Cacciari: “Nel 2023 uscirà dal cilindro un governo Pd-Lega. Ma il coniglio non sarà Draghi”

giovedì, Febbraio 17th, 2022

di Alfonso Raimo

La scena politica non gli dà il conforto dello studio, la compagnia dei 30mila volumi della sua biblioteca. Se legge di Dario Franceschini che auspica l’avvento di una ‘Lega moderata’, Massimo Cacciari – filosofo, docente, già sindaco di Venezia e europarlamentare e parlamentare del Pci, tra i fondatori del Pd – sbotta in una risata amara: “Ma fa anche ridere, benedetto lei… è chiaro che stanno mettendo le mani avanti. Nel 2023 metteranno insieme un pasticcio, con un governo dove ci sono Liberi e Uguali e la Lega, e poi andranno col piattino da Draghi. Ma questa volta non so se Draghi nel piattino ci metterà la monetina”. Secondo l’autore de “La mente inquieta” la politica versa in condizioni critiche. E i referendum non sono un segno di ritrovata vitalità. Tutt’altro. “Le affluenze sono sempre più basse. Perché i referendum abbiano un senso – dice Cacciari- bisognerebbe alzare tutti i quorum. Adesso la gente ha altri problemi. Chiede delle bollette. Nei quesiti ci sono problemi che non toccano più nessuno, purtroppo. La riforma della giustizia, il Csm… sono cose essenzialissime ma ormai tutto è travalicato da questa enorme e crescente preoccupazione di ordine economico e occupazionale”.

Quindici anni fa, Cacciari ha tentato di dare una mano al Pd nella fase nascente.  “Per carità, il Pd ha tradito tutto. Non c’è più nulla. E’ stato un nostro grande errore, un errore illuministico: abbiamo gettato il cuore oltre l’ostacolo con passione e idee, ma non siamo stati in grado di fare nulla. Bisogna dirselo”. 

Al Pd forse farebbe bene un po’ di opposizione.

Cosa vuole che faccia bene? La respirazione bocca a bocca gli farebbe bene. Nelle condizioni in cui è, il Pd è governativo a prescindere. Draghi si fida del Pd, ma un personaggio come lui cosa si mette a fare, una campagna elettorale italianetta? Io non ci credo.

La ricerca di un rapporto con la Lega non è nuova. Molti ricordano la citazione dalemiana, sulla costola della sinistra.

Ma le sembra che le cose possono nascere così? Il Pd può presentarsi con la Lega che non è più Salvini, con il M5s che non è più ‘Vaffanculo’, e fanno un governo insieme? Si andrà a votare e poi verrà fuori una soluzione con un governo Pd-Lega come il coniglio dal cappello. E’ una comica. Ma io dico: se questa è l’idea almeno la preparino, si mettano a lavorare seriamente per due o tre punti su cui sono d’accordo. Se Letta, Franceschini, Conte e Giorgetti si sono capiti un po’, creino le condizioni per un governo che possa funzionare almeno un anno, prima che il presidente della Repubblica chiami il Draghi di turno.

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A trent’anni da Mani pulite voterò sì ai referendum (ma non ci credo)

giovedì, Febbraio 17th, 2022

di Mattia Feltri

La coincidenza fra il trentennale di Mani pulite e l’ammissione dei referendum sulla giustizia non porta con sé soltanto la suggestione del sincronismo: porta trent’anni di disastrosi guasti irrisolti da una politica imbelle, ma pure da un giornalismo che ancora oggi indugia nell’euforia della rivoluzione dell’onestà – da Di Pietro a Di Battista non è un triplo salto mortale, a pensarci bene – e da un’opinione pubblica attraversata dal brivido del riscatto, e dell’autoassoluzione, soprattutto quando viene a sapere di un politico intrappolato nell’avviso di garanzia; la sentenza, specie se di non colpevolezza, è un accidente futuribile. Lo è per le procure, per noialtri dell’informazione, per il pubblico pagante. Conta soltanto l’ordalia purificatrice.

E l’euforia va avanti, nelle celebrazioni entusiastiche di questi giorni d’approccio alla ricorrenza (domani) dell’arresto di Mario Chiesa, nelle quali difficilmente vi capiterà di imbattervi nel ricordo dell’abnormità del giudice unico, espressione non mia ma di Guido Salvini, magistrato milanese negli anni in cui si sgominava Tangentopoli. Pochi mesi fa, Salvini ha scritto che il pool della procura si era dotato irritualmente (eufemismo) di un unico giudice delle indagini preliminari, diciamo un gip di fiducia, cui spettò di misurare e valutare ognuna delle migliaia di richieste arrivate dalla squadra antimazzetta di Francesco Saverio Borrelli. A voi sembrerà un dettaglio ma è, invece e appunto, un’abnormità, perché il gip deve verificare la legittimità di ogni passaggio dell’inchiesta, la sua terzietà è a garanzia dell’indagato e dunque di noi tutti, mentre il nostro gip per anni fu l’unico fidato tenutario delle carte di Mani pulite: centinaia e centinaia di indagati, che spesso nulla avevano da spartire l’uno con l’altro, tutti passati dal suo largo setaccio. Salvini segnalò l’abnormità agli uffici deputati trent’anni fa, ma non se ne curò nessuno, e qualche giornalista – pochi eh – ne scrissero sui loro giornali guadagnandosi l’accusa di spacciatori di veleni.

L’episodio dimostra la necessità della separazione delle carriere, sebbene io abbia sempre pensato fosse più utile la separazione dei palazzi, almeno da quando, giovane cronista, vedevo pm e gip darsi appuntamento in corridoio e andare al bar di modo che il pm, davanti a un caffè, avrebbe meglio spiegato la sua inchiesta al collega. Ora voteremo per la separazione delle funzioni – una forma attenuata, diciamo così – sebbene i magistrati vi si oppongano perché ne potrebbe conseguire la nascita di due diversi Csm, uno per giudici e l’altro per i pm. E sarebbe, dicono, l’introduzione al controllo dei pm da parte della politica, e addio con sacrilegio all’indipendenza della magistratura. Pure questa dell’indipendenza della magistratura l’avrete sentita miliardi di volte, meno probabile vi abbiano specificato che ovunque nel mondo le democrazie garantiscono l’indipendenza ai giudici, mentre un controllo politico dei pm c’è ovunque, solido nei paesi anglosassoni, solo più attenuato in Germania, Francia, Spagna.

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Putin nella bolla: tutti i falchi del presidente russo

giovedì, Febbraio 17th, 2022

di Fabrizio Dragosei

Chi sono i collaboratori con cui lo «zar» del Cremlino si confronta prima di prendere qualsiasi decisione

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Il tavolone lungo sei metri che divideva la settimana scorsa Vladimir Putin dal presidente francese Emmanuel Macron giunto in visita al Cremlino dà l’idea dell’isolamento nel quale vive il leader russo ormai da quasi due anni. Un isolamento sanitario che si somma però ad un allontanamento da tutti quei liberali, riformisti e democratici che gli erano stati vicini all’inizio della sua presidenza. Il capo dello Stato russo vede poca gente, non viaggia e attorno a lui sono sempre più presenti gli ex compagni di Kgb, gli uomini che provengono dalle forze armate e che sembrano avere tutti le stesse opinioni. Opinioni che non considerano certo quello occidentale come un modello verso il quale indirizzare la Russia.

Il 4 febbraio Putin ha rimesso piede fuori dalla Russia per la prima volta dopo 13 mesi, andando in Cina ad incontrare il leader Xi Jinping. I visitatori che arrivano dall’estero vengono controllati accuratamente per motivi di sicurezza sanitaria. È un miracolo se in questi ultimi giorni ha ricevuto diversi politici europei che si sono rifiutati di sottoporsi a un tampone anti-Covid per mano dei medici del Cremlino, come Macron e il cancelliere tedesco Scholz.
Sono scomparsi dal radar del Cremlino tutti coloro che all’inizio degli anni Duemila lavoravano per orientare il Paese verso l’economia di mercato e la piena democrazia. Aleksej Kudrin era stato messo alla guida dell’importantissimo ministero delle Finanze oltre a essere vice premier. L’economista proviene dalle fila dei liberali di San Pietroburgo, cresciuti all’ombra del sindaco riformista Anatolij Sobchak del quale era vice lo stesso Vladimir Putin quando aveva abbandonato il Kgb e si era dimesso dal Partito Comunista. Kudrin si batteva perché non fosse aumentato il ruolo dello Stato nell’economia. Allontanato dal governo nel 2011 quando Putin era primo ministro, è finito a guidare la Corte dei Conti.

Come capo del sistema energetico nazionale e poi del progetto per le nanotecnologie Putin aveva scelto all’inizio Anatolij Chubais, uno dei giovani vice premier che, con il precedente presidente Boris Eltsin, aveva guidato la grande privatizzazione dell’economia sovietica. Cosa impensabile ora, per anni Chubais è stato contemporaneamente alla guida di aziende statali russe e membro del consiglio di sorveglianza di una banca americana, la Jp Morgan Chase. Oggi ha un ruolo puramente formale come rappresentante del presidente presso le organizzazioni internazionali. Sergej Kiriyenko, una delle giovani promesse alle quali guardava Eltsin e che è stato capo del governo, ora è vice responsabile dell’amministrazione presidenziale. L’ex premier Mikhail Kasyanov nominato nel 2000 dallo stesso Putin, è finito addirittura tra le file dell’opposizione.

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Referendum e Corte Costituzionale, Amato e il disagio per alcune bocciature: «Non possiamo correggere quesiti mal formulati»

giovedì, Febbraio 17th, 2022

di Giovanni Bianconi

Il no ai referendum su cannabis, eutanasia e responsabilità civile dei magistrati. Il presidente della Consulta assicura: nessuna scelta politica. L’inusuale spiegazione delle decisioni appena adottate

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Avessero potuto correggere qualche quesito per renderlo ammissibile, i giudici costituzionali l’avrebbero fatto. Ma non potevano. E le spiegazioni che il presidente della Corte Giuliano Amato si assume la responsabilità di dare in un’inusuale spiegazione pubblica delle decisioni appena adottate, lasciano trasparire il disagio e per certi versi persino la sofferenza nascosti dietro alcuni «no». Ad esempio sul «fine vita», su cui Amato denuncia l’uso improprio delle parole: «L’hanno dipinto come un referendum sull’eutanasia, mentre era sull’omicidio del consenziente, e formulato in modo da estendersi a situazioni del tutto diverse da quelle per cui pensiamo possa applicarsi l’eutanasia. Un risultato costituzionalmente inammissibile».

Fuori dall’antico palazzo della Consulta fioriscono già le polemiche e le accuse alla Corte, ma dentro, dopo due giorni di intenso lavoro, i giudici restano convinti di non aver avuto alcuna preclusione politica. Tutt’altro. L’invito a non cercare il «pelo nell’uovo» — a sua volta non una scelta politica, bensì di non contrastare quanto prescritto dalla Costituzione, precisa il presidente — era un sincero segnale di apertura. Ma senza andare oltre il consentito: «Non possiamo correggere quesiti mal formulati».

E dunque, sull’omicidio di una vittima consenziente, qualora al referendum così come architettato dai promotori avessero prevalso i «sì», si sarebbe arrivati alla non punibilità di chi aiutasse un ragazzo maggiorenne depresso, «magari un po’ ubriaco», che chiedesse di essere ucciso. «Tutto questo non ha nulla a che fare con i casi in cui ci si aspetta la non punibilità dell’eutanasia, né con le sofferenze dei malati che aspettavano una decisione diversa», chiarisce Amato, lasciando trasparire molta amarezza. Del resto la Corte ha dimostrato una certa sensibilità su questa materia, dichiarando incostituzionale, in alcune circostanze, la punibilità del suicidio assistito. In quel caso i giudici, consapevoli delle implicazioni etiche e valoriali, avevano dato al Parlamento il tempo per legiferare, ma alla scadenza del periodo concesso non hanno esitato a cancellare la norma.

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Concessioni balneari, da Casanova a Santanchè il partito trasversale dei «bagnini»

giovedì, Febbraio 17th, 2022

di Giuseppe Alberto Falci

Massimo Mallegni (Forza Italia): al governo chiedo di più. Umberto Buratti (Pd) non tutte le concessioni marittime sono uguali

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Da sinistra, Massimo Casanova, Daniela Santanchè e Massimo Mallegni

Ogni partito (o quasi) ha il suo ombrellone. E infatti Massimo Mallegni ci scherza su: «Sono aggrappato all’ombrellone della Bolkestein». Il senatore di Forza Italia, già sindaco di Marina Pietrasanta, è titolare di un albergo a 4 stelle. Il padre invece gestisce uno stabilimento balneare. Ed è forse per tale ragione se l’emendamento del governo al disegno di legge sulla concorrenza che per la prima volta liberalizza il settore degli stabilimenti balneari, mettendo a gara pubblica le concessioni, gli fa dire che quello che è stato fin qui «non è stato affatto un privilegio». «È la solita vecchia storia folle di chi non arriva all’uva e dice che è acerba. È l’invidia sociale. Stiamo parlando di persone che hanno investito tutta la loro vita in quel pezzo di spiaggia. Che vivono non nelle ville di lusso ma nella casa di guardianaggio». Così, nelle ore in cui il governo ha discusso e votato all’unanimità la norma, Mallegni è stato incollato al telefono con la delegazione ministeriale di Forza Italia: «La mattina ho detto a Mariastella Gelmini: “Segui attentamente la questione”. Il provvedimento iniziale non era votabile. Poi sono stati apportati degli aggiustamenti». Sufficienti? «Se fossi stato io al governo avrei fatto altri cambiamenti. Adesso la sede deputata è il Parlamento. Il testo del Consiglio dei ministri è solo una traccia…», avverte sempre Mallegni che aggiunge di ricaricare continuamente la batteria del telefono per le molteplici chiamate che riceve da Marina di Pietrasanta.

Una cosa non dissimile sarà successa ad Elena Raffaelli, deputata della Lega, riminese. Raffaelli ha interessi nel settore, essendo socia di Bagno 88 e Bagno 87 a Riccione. Eppure resta silente: «Al momento non rilascio dichiarazioni». Sempre in casa Lega, avrà seguito la vicenda l’europarlamentare Massimo Casanova, titolare del Papeete di Milano Marittima, location vacanziera anche di Matteo Salvini. Ecco poi il democrat Umberto Buratti, già sindaco di Forte dei Marmi, che fino a qualche mese fa possedeva le quote del Bagno Impero: «Sicuramente voterò il provvedimento, ma vorrei aggiungere che sul demanio marittimo non ci sono gli stabilimenti balneari.

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