Francesca Mannocchi
Superato il confine tra l’Ucraina e la Moldavia, c’è un paese
di piccole case, ognuna il suo orto. Il recinto di legno. Una piccola
chiesa. Per arrivarci solo degli autobus, una stazione lungo la strada e
l’insegna che porta il nome del luogo: Palanca.
Oggi, lungo la strada ci sono le tende della Croce Rossa, le pile di
coperte termiche, le buste con il cibo, le sacche piene di giacche
invernali. Sono le donazioni arrivate per far fronte all’emergenza delle
migliaia di profughi ucraini che da un mese attraversano il confine in
cerca di riparo. Qualche centinaio di metri dopo il confine un campo
diventato spazio d’accoglienza. Ci sono le organizzazioni umanitarie, le
agenzie delle Nazioni Unite. I volontari moldavi che cucinano pasti
caldi per i nuovi arrivati. Una tenda con le prese di corrente e i
telefoni, per chi ha bisogno di rimettersi in contatto con la propria
famiglia, o almeno provarci. I giochi per bambini. E poi i pullman in
fila, sul vetro di fronte la scritta «rifugiati», è nera e spicca sui
fogli azzurri e gialli a raffigurare la bandiera ucraina. Sono in attesa
dell’arrivo delle auto dal confine, dei profughi a piedi, di riempire
ogni posto prima di partire alla volta della capitale, Chisinau. E da lì
accompagnare le persone nei centri di accoglienza o alla stazione.
Qualcuno resta, nel palazzetto dello sport e nel centro congressi
Moldexpo adibiti a dormitori, qualcuno lascia il paese, diretto in
Romania, Germania, Italia. A Palanca posti per dormire non ce ne sono,
così le Nazioni Unite hanno allestito un piccolo campo, qualche decina
di tende riscaldate per chi valica il confine quando ormai è troppo
tardi per spostarsi.
L’accoglienza, a Palanca, è diffusa. C’è la sacrestia della piccola
chiesa, o le case degli abitanti del paese, che non hanno avuto
esitazione nell’aprire le loro porte, e donare una stanza alle famiglie
che cercavano riparo. Famiglie, in verità, è una parola impropria,
perché gli uomini dall’Ucraina non possono scappare. Lo impone la
mobilitazione voluta dal presidente Zelenskyy, che ha chiamato alle armi
i cittadini. Così gli uomini tra i diciotto e i sessant’anni non
possono lasciare il paese. Accompagnano mogli, madri e figli al confine.
Le lasciano lì, con qualche bagaglio e un po’ di soldi, gli uomini
tornano a combattere o ad addestrarsi in attesa della chiamata per il
fronte, le donne si fanno carico del resto, degli anziani e dei più
piccoli. Ecco perché, dicono gli operatori umanitari, la prima cosa che
fanno le donne quando arrivano a Palanca, è fingere di stare male,
entrare nelle cliniche mobili delle organizzazioni e piangere,
concedendosi il lusso delle lacrime che fino a quel momento si erano
negate per tenere insieme tutto. Lasciati fuori gli anziani e i loro
acciacchi, i bambini e le loro infanzie violate, lasciati gli uomini
dall’altra parte del confine, una volta a Palanca è chiaro che la scelta
è irreversibile. C’è chi resta, chi va. Chi combatte e chi prova a
sopravvivere. Chi è in Ucraina, suo malgrado chiamato alla guerra, e chi
è diventato un rifugiato, suo malgrado chiamato all’esilio.
Da quando è iniziata l’invasione russa, secondo i dati dell’Agenzia
per i rifugiati dell’Onu, 3 milioni e duecentomila persone hanno
lasciato l’Ucraina. La maggior parte in Polonia – due milioni- ma
tantissimi, quasi 350 mila in Moldavia, al confine Sud-Occidentale. Un
fardello gigantesco per un Paese piccolissimo, di circa 3 milioni di
residenti, e soprattutto uno dei Paesi più poveri e vulnerabili
d’Europa, che non è membro né della Nato né dell’Unione Europea.
Quando è iniziata la guerra e gli ucraini hanno cominciato ad
ammassarsi al confine, la Presidente moldava Maia Sandu ha annunciato
che tutti i valichi sarebbero rimasti non solo aperti ma avrebbero
operato a capacità maggiore: «Aiuteremo tutti quelli che ne hanno
bisogno» ha detto. E così ha fatto, mettendo a disposizione tutte le
risorse che ha e invitando i cittadini a fare lo stesso. I giovani
moldavi al campo di Palanca sono lì venti ore al giorno. Non vogliono
essere pagati. Sono lì per i «fratelli ucraini» dicono tutti. È un atto
di generosità, il loro. Ma anche il timore che questa guerra sia il
fantasma del futuro e che loro possano essere i prossimi ad essere
invasi. Lo pensano con forza da quando, durante un briefing televisivo
sull’invasione russa a fine febbraio, il presidente bielorusso Aleksandr
G. Lukashenko, ha suggerito, di fronte a una mappa, che anche la
Moldavia avrebbe potuto essere attaccata – dopo la conquista di Odessa –
dalle truppe russe in Transnistria.