“Ammutinamento su larga scala in atto”. Ai vertici del Cremlino alcuni errori commessi da Vladimir Putin in Ucraina non andrebbero giù. Addirittura, è l’indiscrezione diffusa su Twitter dall’osservatore ucraino Igor Sushko, non è esclusa un’insurrezione. Sushko dice di essere stato in contatto con presunte “talpe” nei servizi russi, che avrebbero inviato resoconti dettagliati sugli sbagli commessi da Mosca prima e dopo l’attacco a Kiev. Sushko riferisce che i ‘ribelli’ sarebbero “un numero rilevante” anche se il loro non sarebbe “un colpo di Stato” bensì un tentativo di convincere l’Occidente a intervenire direttamente per fermare il presidente russo. Lo zar – stando a una lettera arrivata dall’interno dell’Fsb e riportata sui social – sarebbe tentato di minacciare la Polonia, considerata come un “nuovo possibile obiettivo” per il suo ruolo attivo di sostegno all’Ucraina. Anche se, si precisa, si tratterebbe solo di “vuote” minacce, dal momento che una simile mossa comporterebbe l’intervento della Nato. La missiva pubblicata dall’osservatore non è la prima proveniente da una talpa del Servizio federale per la sicurezza della Federazione russa. Dall’inizio dell’invasione diverse informazioni anonime hanno parlato di una resa dei conti avviata da Putin all’interno del Quinto servizio dell’intelligence e dello Stato maggiore. Il motivo? Con ogni probabilità lo stesso presidente temerebbe un colpo di Stato o, peggio ancora, un tentativo di farlo fuori.
La vita di prima è finita. La guerra si può riassumere così, con una frase netta che parla solo al tempo presente.
Quando sono atterrata a Kiev, il 20 febbraio scorso, la città era
imponente e nervosa, le truppe russe erano già da settimane ammassate ai
confini dell’Ucraina e pur consapevole della minaccia reale di un
conflitto, restavo convinta che Putin non avrebbe lanciato una guerra
totale contro l’Ucraina, certa che Mosca avrebbe inasprito i
combattimenti in Donbass e che sarebbe stato quello – il territorio
delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk – il palcoscenico
militare su cui si sarebbe consumata la muscolare, temporanea,
espressione della forza per fare pressione sulla Nato, portare a casa
qualche risultato, un pezzo di territorio forse, rosicchiare un po’ di
consenso e mantenere una solida, internazionale, impunità. Pensavo che
raccontare la crisi da Kiev significasse osservarla da lontano, da un
luogo inquieto sì, ma tutto sommato confortevole. Le guerre, ci hanno
insegnato, si devono guardare da vicino e il posto piu’ prossimo da cui
osservare questo conflitto, solo un mese fa, era appunto il Donbass.
Così, affacciata all’undicesimo piano di un hotel del centro di Kiev –
le pubblicità delle collezioni delle grandi firme a illuminare i larghi
viali della capitale, gli annunci dei concerti pop e della stagione
dell’opera – ho deciso che avrei preso un volo per Kharkiv già il giorno
successivo e che da lì mi sarei spostata in auto a Kramatorsk, città
duramente contesa nel 2014, e rimasta sotto controllo ucraino dopo che
Donetsk è finita sotto il controllo dei separatisti. Era lì la linea di
contatto, era lì che sarebbe di certo, accaduto qualcosa, ma
l’eventualità di un assalto su vasta scala pareva non solo irrazionale
ma svantaggiosa anche per i russi che continuavano a negare ogni
intenzione di invasione.
Anche a Kramatorsk, nonostante la prossimità con la linea del fronte,
nessuno si stava davvero preparando a una possibile spirale militare:
non erano stati predisposti alloggi in prospettiva dell’arrivo degli
sfollati, non c’erano centri di accoglienza riforniti di cibo e acqua, e
gli ospedali non erano in allerta. Nessuno a fare scorta di sangue o
medicine. E’ l’abitudine alla guerra, mi sono detta. Forse è così che
funziona, se hai il fronte in casa per otto anni, alla fine quasi non ci
pensi piu’ e la guerra diventa qualcosa che semplicemente è lì, sulla
linea del fronte, sulla linea di contatto.
Che c’era di piu’ l’avrei capito passeggiando nella piazza di
Kramatorsk con Olixey, trent’anni e una figlia di otto. Cosa fai se si
intensificano i combattimenti in Donbass? gli avevo chiesto. Immaginavo
una risposta patriottica, l’ostentazione d’orgoglio di un giovane che
vede la sua nazione minacciata e non indugia, si unisce all’esercito,
alle Unità di Difesa Territoriale e va a combattere. Invece Olixey ha
detto: provo a nascondermi perché ho paura.
Situazione di estrema siccità nel distretto del Po: a fronte di un
deficit di pioggia che, negli ultimi trenta giorni, è superiore ai 100
millimetri in meno (pari a -92%) e dopo 107 giorni di assenza di
precipitazioni significative nel comprensorio padano, le portate
evidenziano un abbassamento drastico in tutte le stazioni di
registrazione del dato, tutte al di sotto della soglia di emergenza,
raggiungendo i livelli più bassi dal 1972. L’area a oggi che ancora
mostra il deficit maggiore, quindi con una siccità definita estrema che
si sta propagando verso valle, è sicuramente quella Piemontese fino alle
province di Piacenza e Cremona, ma il trend si palesa anche a Boretto e
Borgoforte, fino a raggiungere il Delta nella stazione di
Pontelagoscuro (Fe).
Rispetto alla scorsa settimana le quote rilevate hanno portato un ulteriore calo della risorsa idrica disponibile fino al 5% nelle stazioni di Piacenza, oggi a -70% (dal -66% di sette giorni fa) e Cremona a -62% (rispetto al -57% della settimana scorsa); ma sono in discesa anche le quote di Boretto, ora a -61% (da -60%), Borgoforte, a -56% (da -54%) e Pontelagoscuro, a -56% (da -55%). Sia i Grandi laghi che gli invasi artificiali, invasati dal 5 al 30% rispetto alla media, languono pesantemente e i possibili quanto necessari rilasci dal Lago Maggiore a beneficio delle aree sottostanti non saranno attuabili in modo proporzionale al fabbisogno agroambientale. Estremamente deficitario anche lo stato del manto nevoso su tutto l’arco Alpino e quasi del tutto assente da quello Appenninico.
E’ surreale e allo stesso tempo agghiacciante la richiesta di Putin.
Surreale perché è fuori dal tempo, riporta indietro la storia ai tempi
dell’Unione Sovietica, quando ci furono altri tentativi di quotare il
barile di petrolio in rubli. Come fece anche in passato l’Iran, sotto
sanzione da parte degli Stati Uniti, in diverse occasioni. Forse che
abbia trovato ispirazione dall’Arabia Saudita che pochi giorni fa ha
cominciato a discutere con la Cina la possibilità di abbandonare il
dollaro e usare lo yuan per le esportazioni di petrolio, passo che
preoccupa Washington. È agghiacciante la richiesta perché è una sorta di
escalation commerciale nelle relazioni con l’Occidente, anzi con la
vicina Europa, con cui da 60 anni Mosca ha costruito relazioni saldate
soprattutto dalle esportazioni di gas e petrolio. Il prossimo passo, se
continua così, sarà la chiusura dei tubi, perché noi non accetteremo
questa richiesta, semplicemente perché stiamo applicando sanzioni
finanziarie durissime.
E allora la risposta di Putin sarà dura, con blocco delle esportazioni, che vorrà dire razionare la domanda, perché di gas in giro non ce n’è proprio nelle quantità che importiamo. Sono 150 miliardi di metri cubi all’anno che importa l’Unione Europea, su un mercato globale, misurato in esportazioni, che possiamo stimare in 800 miliardi. La Germania ne importa 55 e l’Italia 29 e se troveremo 20-30 miliardi di metri cubi, per tutta l’Unione Europea, prima del prossimo inverno, darà un gran successo. Paradossalmente, nel frattempo, il flusso di gas dalla Russia non si è mai interrotto, con i dati di che regolarmente, ora per ora, ci confermano che i flussi da Tarvisio, dove entra il gasdotto che arriva dalla Russia, sono sempre i più alti rispetto agli altri punti di entrata. Sollevare la questione di come pagare non fa che smuovere le acque e avvicinare il momento di una interruzione che molti, anche da noi vorrebbero, probabilmente con una determinazione che poggia su poca conoscenza di quello che ci aspetta. L’Italia è il caso più interessante in Europa, perché è il paese con la più alta dipendenza da importazioni di gas dalla Russia in termini di incidenza sul proprio bilancio energetico. I tentativi di contenere gli effetti sui prezzi, con aumento di debito, non hanno evitato il raddoppio delle bollette, la ripresa dell’inflazione e una frenata della produzione industriale. Il tentativo di trovare in giro per il mondo volumi aggiuntivi di gas, nonostante l’ottimismo sfoggiato dal nostro governo, si scontra con la dura realtà che nei prossimi mesi, se va bene, ci saranno al massimo 5, forse 10 miliardi in più, ma ancora troppo poco rispetto ai 29 che ci potrebbero mancare. Nel frattempo, ieri, la Commissione, in vista del Consiglio di oggi, ha sfornato un altro pacchetto di misure, dove spicca l’obbligo di scorte alte e il tetto ai prezzi del gas, ma sembrano più di alchimie che misure concrete, perché si evita di parlare di più carbone o di più nucleare, mentre rimane un’incognita dove si potrebbe prendere altro gas.
Tra l’Unione europea e Vladimir Putin è in corso una partita a poker
sul gas. I governi Ue hanno sin qui adottato una strategia piuttosto
conservatrice, evitando di alzare la posta. Ieri invece il capo del
Cremlino ha fatto una mossa azzardata e per ora nessuno è in grado di
capire se si tratti di un bluff oppure no: d’ora in poi i contratti per
le forniture di gas ai «Paesi ostili» andranno pagati esclusivamente in
rubli. Una decisione con importanti ripercussioni politiche,
giuridico-contrattuali, economiche e monetarie. Una mossa che certamente
ha preso alla sprovvista i governi europei e le società energetiche
coinvolte nell’acquisto di gas dalla Russia.
La nuova direttiva sarà operativa «il prima possibile», ma il
Cremlino ha dato una settimana di tempo al governo e alla Banca centrale
russa per predisporre il nuovo sistema. «Se ha bisogno di una settimana
– fa notare un diplomatico europeo – evidentemente vuol dire che ci
sono parecchie questioni tecniche da sistemare e che dunque non è così
semplice da adottare». La prima questione riguarda la validità dei
contratti: se negli accordi è previsto il pagamento in euro, questa
decisione potrebbe renderli nulli. O almeno questa è l’interpretazione
fatta filtrare da Berlino. L’annullamento dei contratti comporterebbe
dunque l’immediata interruzione delle forniture? Difficile trovare
qualcuno in grado di dare una risposta certa. «Se andiamo avanti così –
prevede un altro diplomatico europeo – finirà che i rubinetti verranno
chiusi presto e a quel punto si sprecheranno le interpretazioni su chi
avrà effettivamente girato la manopola. Succederà come per l’uscita di
Mosca dal Consiglio d’Europa: noi diciamo di averli cacciati, mentre
loro sostengono di essersene andati».
Una cosa è certa: nell’immediato gli effetti dell’annuncio si sono
subito fatti sentire. Innanzitutto sul prezzo del gas, che ieri ha
registrato aumenti fino al 30%, arrivando a toccare i 132 euro per
Megawattora. E poi sul rublo, che è salito ai massimi da tre settimane a
questa parte, recuperando parte del terreno perso dall’inizio
dell’invasione russa in Ucraina. Secondo diversi analisti, la mossa di
Putin punterebbe proprio a questo, a ridare forza a una moneta in caduta
libera, oltre che a «scongelare» le riserve monetarie della Banca
Centrale che sono bloccate in Europa. Ma veramente i Paesi «ostili» –
che rappresentano il 70% dell’export di Gazprom – accetteranno di pagare
i contratti in rubli?
Una cosa è certa: al momento non c’è ancora un’intesa tra i 27 per un
embargo sul settore energetico, in particolar modo per il gas. Oggi il
G7 dovrebbe adottare un ulteriore pacchetto di sanzioni, che prenderanno
di mira nuovi soggetti e nuove entità, forse anche lo stop ai porti
alle navi russe. Dovrebbe esserci un capitolo dedicato alla Cina per
avere a disposizione strumenti in grado di colpirla nel caso in cui
aiutasse Mosca ad aggirare le sanzioni. Sullo sfondo resta l’ipotesi di
applicare dazi sull’import dalla Russia, anche per il settore
energetico. O magari di introdurre un’imposta sul gas. Misure
considerate pericolose perché potrebbero comportare un ulteriore aumento
dei prezzi.
Ventinovesimo giorno di guerra in Ucraina. Nella notte sono risuonate
le sirene a Odessa, colpito il porto di Berdyansk nel sud est del
Paese. Intanto la Casa Bianca ha creato una squadra speciale per la
sicurezza nazionale se Vladimir Putin dovesse usare armi non
convenzionali chimiche, biologiche o nucleari. Incendi vicino a
Chernobyl.
Ore 06.51 In fiamme porto Berdyansk nell’oblast di Zaporizhzhia
Il porto di Berdyansk, una città nell’oblast di Zaporizhzhia, nel
sud-est dell’Ucraina, è in fiamme. Lo riporta il Guardian citando media
ucraini. La città si trova a circa 75 km a nord-ovest di Mariupol. Anton
Gerashchenko, consigliere del ministro dell’Interno ucraino, ha
pubblicato su Telegram una foto nella quale si vedono enormi pennacchi
di fumo alzarsi dal porto della città. “Un magazzino di armi
missilistiche e di artiglieria a Berdyansk occupata dai russi”, ha
scritto accanto all’immagine.
Ore 01.50 Casa Bianca crea il Tiger Team su attacchi russi con armi chimiche o nucleari
La Casa Bianca ha creato una squadra di funzionari per la sicurezza
nazionale incaricata di delineare scenari sulle risposte di Stati Uniti e
alleati se il presidente russo Vladimir Putin usasse armi chimiche,
biologiche o nucleari. Lo rende noto il New York Times. Il gruppo, noto
come Tiger Team, sta anche esaminando le risposte se Putin raggiungesse
il territorio della Nato per attaccare i convogli che portano armi e
aiuti all’Ucraina, riportano diversi funzionari coinvolti. Riunioni tre
volte a settimana, in sessioni riservate, il Team sta anche esaminando
le risposte se la Russia cercasse di estendere la guerra alle nazioni
vicine, comprese Moldova e Georgia, e come preparare i paesi europei
alla massa di rifugiati che affluirebbero su una scala mai vista in
decenni.
Tra i fondatori del battaglione
«nazista» dell’Ucraina di cui Putin vuole disfarsi, ex capo degli ultras
della Dinamo Kiev, ma ora le tracce del suo passato sono state
cancellate da Internet. E 14 mila soldati e decine di missili sono
pronti per lui
Sull’edizione russa di Wikipedia, il nome Denis Projipenko è messo in cima alla lista dei comandanti del battaglione Azov.
Il più alto in grado. Il nemico numero uno di Mosca, l’uomo che
personifica sul campo quell’Ucraina «nazista» da cui Putin vuole
liberarla. Sui siti di Kiev, invece, nulla. Projipenko non c’è. Scomparso, la memoria digitale cancellata. Pulizia totale di tutto quanto lo riguardava. Fosse per Internet, l’ufficiale in capo della resistenza militare a Mariupol sarebbe un uomo senza passato,
senza gloria, ma anche senza i sospetti di simpatie neonaziste che oggi
nuocerebbero alla causa ucraina. Uno e novanta, biondo, naso sottile e
occhi azzurri, il maggiore Denis Projipenko è uno dei fondatori del
Battaglione Azov.
Addestrato come un incursore, bello come un attore, da anni è in prima linea contro i filorussi del Donbass e oggi, adesso, in questi minuti, è in trappola a Mariupol.
Accerchiato senza possibilità di rinforzi. Bombardato dal cielo e dal
mare. Braccato dai droni e dalle orecchie elettroniche. Basta una sua
comunicazione, un avvistamento, una soffiata per potergli indirizzare
contro un missile. Mosca sa come fare.
Ci riuscì durante l’assedio di Grozny, in Cecenia, negli anni ’90
contro il presidente indipendentista Dudaev. E allora le tecnologie
erano molto più arretrate.
A Mariupol 14-15mila militari russi stanno riversando una marea di esplosivi sulla città per eliminare lui e i suoi uomini. Decine di missili sono pronti a disintegrarlo, migliaia di soldati a reclamare la taglia che il presidente ceceno Ramzan Kadyrov,
intimo del leader del Cremlino Putin, ha messo sulla sua testa. Vivo o
morto. Mezzo milione di dollari. Ciò che sta succedendo ai soldati che
difendono Mariupol e al loro comandante Projipenko, ha lo spessore
tragico delle grandi battaglie che cambiano il corso della storia e
ispirano forti sentimenti. Anche se, nel frattempo, i protagonisti sono
tutti morti. I 960 zeloti di Masada. I 300 spartani alle Termopili. Gli
affamati di Stalingrado. Tutti sacrifici, vittoriosi o perdenti non è
così importante per la storia, capaci però di segnare la consacrazione
di un’identità non più negoziabile. Per il maggiore Projipenko, il riferimento più diretto è un altro,
inciso persino in un bassorilievo dell’abbazia di
Saint-Germain-des-Prés a Parigi. E’ la battaglia combattuta a metà del
1600 dai liberi cosacchi della steppa di Zaparozhzhie contro l’esercito
lituano-polacco di re Giovanni II Casimiro. Ortodossi contro cattolici.
Un impero dell’ovest contro le steppe dell’est. La battaglia di Berestenchko è,
probabilmente, il più grande scontro terrestre di un secolo per nulla
pacifico. I cosacchi di Crimea e del bacino del fiume Dnipro non
volevano sottomettersi. Persero, ma 400 anni dopo, Denis Projipenko
continua ad ispirarsi alla loro lotta per giustificare la sua.
È, probabilmente pronto a diventare il nuovo eroe nazionale ucraino. E le sue simpatie politiche, verranno strumentalizzate o meno a seconda di chi si impossesserà della sanguinosa leggenda. Ex capo degli ultrà della Dinamo Kiev,
con la guerra del Donbass, Projipenko accorse volontario nel 2014 alla
difesa del Paese. Da allora è diventato un soldato professionista, si è
addestrato, ha imparato a combattere battaglie vere, non contro i
lacrimogeni degli stadi. I russi dicono che abbia avuto istruttori stranieri, dai Delta Force alla Legione Straniera.
È necessario rivedere la rete dei
poteri internazionali e ristabilire un equilibrio tra sovranità
nazionale e sovranità della comunità internazionale, che non può essere
fermata da una nazione con potere di veto, se si vuole che il diritto
internazionale sia efficace
Settantasette
anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, una nuova guerra è
scoppiata in Europa. Chi è nato prima della metà del secolo scorso
ricorda le notti trascorse nei rifugi e la vita da sfollati. Dunque,
quell’esperienza non ha insegnato nulla? La tanto elogiata
globalizzazione non ha eroso il potere degli Stati e sono ancora questi
ultimi a dettare legge? La rete di poteri ultrastatali costruita
faticosamente in tutti questi anni è inefficace? Dopo un mese di guerra il diritto e le corti non hanno nulla da dire, perché conta solo la forza degli eserciti?
La decisione del Comitato dei
ministri del Consiglio d’Europa del 25 febbraio di sospendere
temporaneamente la Russia, seguita dalla espulsione del 16 marzo, e la
severa condanna dell’azione dei russi da parte dell’Assemblea delle
Nazioni Unite, il 2 marzo, sono solo latrati di cani che non mordono, a
differenza delle decisioni dei governi di venti Paesi che hanno
introdotto sanzioni a carico di circa 3.600 persone fisiche e giuridiche
russe? Se — come disse un famoso costituente americano, riferendosi
alle corti nazionali — il potere giudiziario è quello meno pericoloso
perché non comanda né i soldi né la spada, dobbiamo
concludere che la voce dei giudici è completamente inascoltata quando
parla una delle centinaia di corti operanti a livello internazionale?
Quarantuno Stati si sono rivolti alla Corte penale internazionale, chiedendo una condanna dell’aggressione russa. La procura della Corte ha aperto il 2 marzo una inchiesta.
Più avanti è andata la Corte di giustizia internazionale,
organo dell’Onu, alla quale si è rivolta la stessa Repubblica Ucraina,
sulla base della Convenzione del 1948 sulla prevenzione e la punizione
del crimine di genocidio. L’Ucraina, assistita da valenti studiosi di
diritto internazionale, tra cui l’americano Harold Koh, ha sostenuto che
nel Donbass non vi è stato genocidio nei confronti del popolo russo,
come lamentato dal presidente Putin, e che quindi l’invasione, fondata
su una falsa affermazione, va fermata e i danni prodotti risarciti. La
Russia si è limitata a mettere agli atti del processo il discorso alla
nazione di Putin del 24 febbraio, in cui il presidente russo ha messo
sotto accusa l’intero sistema di relazioni internazionali prodottosi sul
finire degli anni 80, affermando che l’aggressione è stata motivata
dalla necessità di difendersi e sostenendo che la Corte di giustizia non
ha giurisdizione.
La Corte internazionale di giustizia,
con una ordinanza presa il 16 marzo, con tredici voti contro due, ha
dato ragione all’Ucraina perché non si può usare la forza nel
territorio di un altro Stato, con lo scopo di prevenire o punire un
genocidio solo supposto. Ha quindi ordinato alla Russia, in via
provvisoria ed urgente, di sospendere le operazioni militari in Ucraina.
Il punto del giorno del direttore del Corriere della Sera
Luciano Fontana /
CorriereTv
Il dibattito politico italiano sembra aver fatto un tuffo nel passato quando in tanti avevano simpatie per Putin: le questioni sono l’invio delle armi e il rafforzamento delle sanzioni contro Mosca. L’uso delle armi in passato era stato molto esaltato: andavano bene contro i barconi dei migranti, per difendere le frontiere dai clandestini, come autodifesa personale e anche per inseguire caprioli e passeri. Sparare era un diritto. Sembra che l’uso delle armi non vada bene solo per difendere la democrazia e la libertà in Europa. Un pacifismo ipocrita che lascia agli ucraini una sola scelta: di arrendersi agli invasori. La realtà ci dice però che solo una resistenza forte e sanzioni internazionali rilevanti potranno costringere Putin ad arrivare a una trattativa e a una pace vera.
di Lorenzo Cremonesi, Andrea Nicastro, Marta Serafini, Redazione Online
Le notizie di giovedì 24 marzo sulla
guerra, minuto per minuto: lo spettro delle armi chimiche, «già usate
in Ucraina». Oggi i vertici Nato e dell’Ue: Biden è in Europa. Creato un
«Tiger Team» contro gli attacchi russi con armi chimiche o nucleari
• La guerra è al 29esimo giorno: un mese dall’invasione dell’Ucraina. Il presidente Volodymyr Zelensky ha
lanciato un appello per proteste contro la guerra in tutto il mondo:
«Chiediamo che la Nato aiuterà pienamente l’Ucraina a vincere questa
guerra». • Ma i 30 Paesi della Nato accetteranno di consegnare alla
resistenza ucraina anche mezzi militari offensivi? Oggi si terranno a
Bruxelles i vertici straordinari proprio dell’Alleanza Atlantica,
dell’Unione Europea e del G7, ai quali parteciperà anche il presidente
Usa Joe Biden: tra i temi sul tavolo il rafforzamento dei meccanismi di difesa. •
Ieri Putin ha annunciato che chi compra gas dalla Russia dovrà pagarlo
in rubli. Un modo per far rivalutare la moneta russa, da settimane in
caduta, e per aggirare le sanzioni. • Sul fronte bellico, a dispetto
delle stime sempre più alte sulle perdite nel suo esercito, la Russia
continua nella sua opera di distruzione sistematica.
***
Ore 7.20 – Il messaggio di Mattarella: «L’Europa ripiomba nell’epoca delle stragi» Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato
nella mattinata di oggi un messaggio di saluto all’Associazione
Nazionale Partigiani d’Italia, che oggi celebra il suo 17esimo congresso
«in un momento drammatico». Ed è un messaggio molto chiaro sulla
posizione dell’Italia nel nuovo scenario internazionale.
« L’ingiustificabile aggressione al popolo ucraino di cui si è resa
responsabile la Federazione russa ha fatto ripiombare il Continente
europeo in un tempo di stragi, di distruzioni, di esodi forzati che
fermamente intendevamo non avessero più a riprodursi dopo le tragiche
vicende della Seconda guerra mondiale», scrive il capo dello Stato.
«Il bersaglio della guerra non è soltanto la pretesa di sottomettere
un Paese indipendente quale è l’Ucraina. L’attacco colpisce le
fondamenta della democrazia, rigenerata dalla lotta al nazifascismo,
dall’affermazione dei valori della Liberazione combattuta dai movimenti
europei di Resistenza, rinsaldata dalle Costituzioni che hanno posto la
libertà e i diritti inviolabili dell’uomo alle fondamenta della nostra
convivenza.
La democrazia europea è stata garante di pace, motore di dialogo, di
sviluppo e affermazione di valori di giustizia e coesione sociale. Ha
saputo dare all’unità del Continente – pur con i suoi limiti –
ordinamenti plurali e condivisi e oggi questa unità si esprime al fianco
del popolo aggredito, chiedendo che tacciano subito le armi, che si
ritirino le forze di invasione, che venga affermato il diritto del
popolo ucraino a vivere in pace e in libertà. Sono i valori della
Resistenza che, ancora una volta, ci interrogano. In Ucraina e in tutta
Europa. Pace e libertà, diritti delle persone e delle comunità, sono
caposaldi inscindibili e costituiscono traguardi che i cittadini del
Continente oggi intendono riguadagnare per comporre un nuovo quadro di
sicurezza, di cooperazione, di convivenza».
Ore 7.00 – «In 30 secondi non resterà più niente di Varsavia» Marco Imarisio ha passato una serata a guardare il popolare show
alla tv russa del putiniano di ferro Vladimir Solovyov, dove si parla
apertamente di ritorsioni nucleari se l’Europa o la Nato intralciassero i
piani dello «zar»: «I polacchi devono sapere che in trenta secondi
appena non resterebbe più niente di Varsavia». Il racconto completo è qui.
Ore 6.50 — L’Ucraina: «Siamo al contrattacco» Lorenzo Cremonesi, nel municipio di Kiev, ha parlato con il
comandante ucraino Ruslan Diachenko, che dice: «Sino ad una settimana fa
le nostre strategie erano difensive, ci limitavamo a cercare di fermare
le colonne russe in avanzata. Ma adesso cambiano le regole del gioco,
l’iniziativa diventa nostra, passiamo al contrattacco». L’articolo completo è qui.
Ore 6.30 – Le bombe contro il porto di Berdyansk Una colonna di fumo e una serie di esplosioni hanno segnato il
bombardamento del porto di Berdyansk, nella regione di Zaporizhzhia.
L’offensiva di Mosca — dopo Mariupol e nell’attesa dell’assalto a Odessa
— continua a colpire sulla linea di costa dell’Ucraina.
Ore 5.53 – Tornano a suonare le sirene anti-aereo a Odessa Dopo una nottata abbastanza tranquilla è scattato un lungo allarme
anti-aereo a Odessa questa mattina. Le sirene hanno cominciato a suonare
attorno alle 6.30 ora locale (le 5:30 in Italia). Il coprifuoco
notturno è terminato alle 6 ma le strade di Odessa sono comunque ancora
deserte.
Ore 5.44 – Boeing sospende supporto a compagnie aeree russe Il colosso aerospaziale statunitense Boeing ha annunciato la
sospensione del supporto alla compagnie aeree della Russia. Lo ha
confermato un portavoce dell’azienda all’emittente televisiva «Cnn».
«Abbiamo sospeso tutte le operazioni a Mosca e chiuso temporaneamente il
nostro ufficio a Kiev. Sospenderemo anche i servizi di sostituzione
delle componenti, manutenzione e supporto tecnico alle compagnie aeree
russe», ha dichiarato il portavoce, secondo cui Boeing «intende
concentrarsi sulla garanzia della sicurezza dei nostri partner nella
regione».