Stop quarantena per i contatti stretti: test quotidiani solo per i sanitari. Il generale Petroni successore di Figliuolo
Da domani si applicano le nuove regole per il contenimento del Covid 19. In molti luoghi si potrà entrare senza green pass, in altri servirà solo quello base. Non cambiano le regole per l’isolamento di chi è positivo: 7 giorni se si è vaccinati,
10 se non si è immunizzati o se l’ultima dose è stata fatta da più di
120 giorni. Cambia invece la quarantena per chi ha avuto contatti
stretti con contagiati: l’autosorveglianza, «con l’obbligo di indossare Ffp2, al chiuso o in presenza di assembramenti, fino al decimo giorno successivo alla data dell’ultimo contatto stretto» vale per chi è vaccinato e per chi non lo è. Gli operatori sanitari devono eseguire un test antigenico o molecolare per 5 giorni dall’ultimo
contatto con un positivo. Il generale Tommaso Petroni è stato nominato
dal premier Mario Draghi successore di Francesco Paolo Figliuolo per
dirigere il completamento della campagna vaccinale.
Il super green pass resta per ospedali e cinema
Dal 1° al 30 aprile il green pass rafforzato — che si ottiene se si è vaccinati da meno di 120 giorni oppure guariti — sarà obbligatorio per: – piscine, centri natatori, palestre, sport di squadra e di contatto, centri benessere (anche all’interno di strutture ricettive) al chiuso – spogliatoi e docce – convegni e congressi – centri culturali, centri sociali e ricreativi al chiuso – feste, comprese quelle dopo le cerimonie – sale gioco, sale scommesse, sale bingo e casinò – sale da ballo e discoteche – cinema, teatri, palazzetti dello sport – strutture sanitarie Dal 1° maggio non servirà più la certificazione verde.
Il green pass base richiesto per aerei e stadi
Dal 1° al 30 aprile il green pass base,
che si ottiene con certificato di vaccinazione, di guarigione, oppure
con tampone antigenico (valido 48 ore) o molecolare (valido 72 ore) sarà
obbligatorio per accedere a: – bar e ristoranti al chiuso – concorsi pubblici, corsi di formazione pubblici e privati – colloqui in carcere – spettacoli all’aperto – stadi – aerei – treni – navi e traghetti (esclusi i collegamenti nello Stretto di Messina e con le Isole Tremiti) – pullman turistici oppure che effettuano i collegamenti tra regioni. Dal 1° maggio non servirà più la certificazione verde per nessuno di questi luoghi.
Giuseppe Conte giura che la crisi non ci sarà. Ma il presidente del
Consiglio Mario Draghi evidentemente non gli crede, se alla fine di un
incontro in cui il leader del M5S ribadisce il suo sopravvenuto
pacifismo ad ogni costo, sale al Quirinale per comunicare a Mattarella
la radicale differenza di posizione con il partito di maggioranza
relativa. La mossa, plateale, non è irrilevante. Sta in piedi un governo
che in tempi di guerra non riesce a garantire all’Europa, e soprattutto
alla Nato, il rispetto degli accordi sulle spese militari firmato nel
2014?
Dopo aver fatto a lungo finta di nulla, considerando scomoda, ma
soprattutto inutile, qualunque forma di risentimento personale e persino
politico, Mario Draghi decide di sottoporre allo stress-test definitivo
il suo esecutivo, stanco delle piccole umiliazioni e dei giochetti
psicologici quotidiani di partiti seduti dalla sua stessa parte del
tavolo ma entrati ufficialmente in campagna elettorale e dunque incapaci
(o, peggio, disinteressati) di garantire agli alleati internazionali la
solidità necessaria di fronte a una crisi di questa portata. Il caro
bollette, la carenza di materie prime e l’inflazione, problemi
giganteschi a cui si appella Giuseppe Conte per giustificare il rifiuto
di portare automaticamente gli investimenti in armi al 2% del Pil,
riguardano tutti i 27 Paesi della Ue e la sola speranza di immaginare il
ricorso a un nuovo “recovery bellico” passa da una visione condivisa
sulla strategia da adottare nei prossimi mesi. Il faccia a faccia tra
Draghi e Conte è un flop. Ciascuno dei due annuisce convinto concordando
solo con se stesso. E il problema nasce esattamente qui.
L’incomunicabilità è totale. Draghi non può permettersi (e non vuole) un
passo indietro. Conte vorrebbe farne uno, definitivo, in avanti,
sperando, con un gioco di prestigio, di consegnare all’interlocutore la
responsabilità della rottura. Così mentre Palazzo Chigi ricorda che con
l’Avvocato del Popolo al governo le spese militari aumentarono del 17%,
Conte si camuffa dietro a due affermazioni apparentemente
contraddittorie. La prima: rispettiamo i patti assunti con la Nato. La
seconda: non possiamo aumentare gli investimenti in armi spendendo altri
15 miliardi.
L’obiettivo è quello dichiarato da tempo: “build great companies”,
“costruire grandi imprese”. Exor scende in campo e lancia un’iniziativa
unica in Iitalia e dedicata espressamente al nostro Paese (“Italy seed”)
a supporto di società appena costituite (in fase “seed”). Obiettivo:
aiutare gli imprenditori più promettenti a costruire una nuova
generazione di grandi imprese. Exor Seeds, braccio della holding della
famiglia Agnelli dedicato al venture capital, investirà in startup in
fase “seed” e “pre-seed” offrendo un finanziamento in conto capitale di
150 mila euro. L’iter sarà molto rapido, con termini contrattuali
vantaggiosi per l’imprenditore e nessuna richiesta di rappresentanza nei
cda delle società. In cambio Exor Seed prenderà una quota tra il 5 e il
7% circa. La nuova iniziativa si inserisce nella lunga tradizione
imprenditoriale di Exor a sostegno dell’innovazione. La holding degli
Agnelli, guidata da John Elkann, aiuterà giovani imprenditori a
sviluppare nuove società innovative. Il programma mira a liberare il
grande potenziale dell’ecosistema italiano della tecnologia, che è in
rapida crescita, aiutando il Paese a svolgere un ruolo proporzionale
alla sua dimensione economica, anche grazie all’ampio bacino di talenti
di cui dispone. Exor Seeds ha effettuato finora round di investimenti in
oltre 60 startup nel mondo. Tra queste, anche l’ultimo unicorno
francese Qonto, Casavo (startup italiana di instant buying immobiliare) e
Via Transportation.
«Quanto conta la velocità nel mondo degli affari? – si domanda Diego
Piacentini, presidente di Exor Seeds, già manager della prima ora di
Apple, poi vice president di Amazon.com e commissario all’Agenda
Digitale italiana – Dipende, ma certamente è determinante quando si
tratta di finanziare nuove iniziative imprenditoriali in fase iniziale.
Oltre a essere veloci, bisogna anche accettare il rischio di fallire,
perché il prossimo unicorno Italiano nascerà proprio da un mix di
coraggio ed energia. Qualcosa che al sistema imprenditoriale italiano è
mancato, e che Exor Seeds intende ora cambiare».
Ma che guastafeste questo Biden: chiama alle armi, alla
soluzione radicale, o Putin o noi, perfino il buon dio che pure è
infinitamente paziente non lo sopporta più al Cremlino, con un nemico
mortale non ci sono accomodamenti, ucciderlo o farsi uccidere, nessuna
via di mezzo. Finalmente venne il Presidente! Le sue parole di guerra e
di odio sono di oro zecchino, le nostre, con i distinguo e i
controdistinguo, sanno di reticente, di falso. Noi dell’Unione europea
facciamo la guerra ma accuratamente difensiva, pudibonda, fino a un
certo punto e non oltre, per carità. Ci viene comodissimo uno
strampalato neologismo mussoliniano: tifiamo per uno dei duellanti ma
restiamo «non belligeranti». Molte sono le scappatoie, confidiamo, molte
le porte per non andare da nessuna parte.
Adesso non abbiamo più bisogno di Cassandre. Sappiamo ufficialmente.
L’Unione europea e gli Stati Uniti combattono in Ucraina due guerre
diverse pur dandosi grande manate sulle spalle e giurandosi fedeltà
eterna. Perché in guerra siamo già con la Russia e l’idea di poter
fermare un simile macello in qualsiasi momento come si spinge il freno
dell’automobile è una bella pretesa di ingenui. Allora: l’Europa, con
buona volontà e impegno, per quanto le consentono i suoi limiti, si
propone di preservare per quanto possibile la indipendenza ucraina,
salvare e aiutare i profughi e, elemento cruciale, uscirne limitando i
propri danni già vasti. Che sono quelli che derivano dalle forniture di
gas e altri utilissimi materiali che, purtroppo, arrivano in gran
quantità da quelle latitudini selvatiche.
Gli americani invece… che cosa pescano nel vaso di pandora? Gli
americani, come ha spiegato sillabando bene vocali e consonanti e
mettendole poi per iscritto Biden, hanno un progetto molto più ambizioso
di cui l’Ucraina, è amaro dirlo, non è che lo scenario geografico e a
cui fornisce il materiale umano. Il progetto è quello di spazzar via
Putin dallo scenario politico mondiale. I mezzi da impiegare si svelano a
poco a poco, con l’evoluzione della situazione sul campo, come dicono
giudiziosamente i generali. All’inizio era soltanto l’idea di logorare i
russi con una gigantesca guerriglia. Da anni, con saggia precauzione,
la pianificavano imbottendo di armamenti efficienti gli sgangherati
arsenali ucraini. Ecco servito un secondo Afghanistan modello anni
Ottanta nel cuore dell’Europa con gli eroici, loro malgrado, ucraini al
posto degli eroici mujiaheddin.
Sullo sfondo, non pronunciata esplicitamente ma accarezzata con cura,
la possibilità che alla fine di questo ben architettato dissanguamento
il capitolo finale lo scriva un efficace intrigo di palazzo: a eliminare
il coriaceo dittatore logorato dalla mancata vittoria avrebbe
provveduto una mano russa. In fondo il delitto perfetto. Non è escluso
che le fertili menti della Cia stiano lavorando per ingaggiare pugnali
in Russia disposti a correre il rischio di indossare i panni di Bruto e
di Cassio. A rileggere la storia dei Servizi americani si può ben dire
che questo «escamotage» è una specialità della casa. È difficile
liberarsi della vecchia pelle.
Nel suo intervento a Piazzapulita su La7, Stefano Massini racconta lo
scambio di lettere nel 1932 fra Albert Einstein e Sigmund Freud, sul
perché l’uomo continui a ricorrere alla guerra nonostante il progresso. E
la risposta di Freud è sorprendente.
Video La7/PiazzaPulita
“Mario Draghi è uno statista, Giuseppe Conte è un populista”. Non ha dubbi, Matteo Renzi, e sul tema dell’aumento del 2% del Pil per le spese militari si schiera con il premier: “Noi stiamo con Draghi, noi stiamo con l’Italia”, scrive su Twitter il leader di Italia Viva. Martedì è stato il giorno del durissimo faccia a faccia tra il presidente del Consiglio e il presidente del M5s, oggi si voterà in Senato. Tutti, a partire da Conte, escludono l’ipotesi di un voto contrario con conseguente crisi di governo innescata, ma il problema politico c’è, è gigante ed è destinato a pesare sulla maggioranza nelle prossime settimane.
Dopo il fallimento della mediazione tentata nella riunione con i
rappresentanti del governo, lunedì sera, la maggioranza si è divisa
sull’ordine del giorno al decreto Ucraina, presentato da Fratelli d’Italia,
davanti alle commissioni Esteri e Difesa, riunite in seduta congiunta,
nel giorno in cui, anche dopo l’incontro con Conte, il presidente del
Consiglio ha messo in chiaro che il governo “non ha alcuna intenzione di
mettere in discussione ma rispetterà e ribadirà con decisione gli
impegni Nato”. L’odg di FdI, prima firmataria la senatrice Isabella Rauti,
faceva riferimento a quello ‘gemello’ già approvato dalla Camera e
impegnava il governo a “dare seguito” alle dichiarazioni del presidente
del Consiglio sulla “necessita’ di aumentare le spese per la Difesa
puntando al raggiungimento dell’obiettivo del 2% del Pil”. Il testo
è stato accolto dal governo senza alcuna riformulazione: favorevoli Pd, Italia viva, Lega e Forza Italia. FdI,
che è all’opposizione, ha deciso di non richiedere di mettere l’odg al
voto. Richiesta, quest’ultima, che è stata avanzata, invece, dai partiti
di maggioranza contrari all’aumento della spesa, M5s e Leu. Ma che la presidente della commissione Difesa, la dem Roberta Pinotti,
non ha potuto accogliere, dal momento che, in base al regolamento del
Senato, solo il ‘proponente’ – quindi FdI – può chiedere di mettere in
votazione l’odg.
Non è una tregua, ma una “pausa per riorganizzarsi”. Il giorno dopo i
passi avanti nei negoziati di Istanbul, tornano prepotenti i dubbi
sulla vera strategia della Russia in Ucraina. Mosca ha iniziato a spostare le truppe da Kiev e Cernihiv verso la Bielorussia,
ma la mossa andrebbe letta in due chiavi: il Cremlino sa che la
capitale non è contendibile, e dunque rinuncia per concentrare le
proprie forze sulle regioni dell’Est e del Sud. Oppure si tratterebbe di
una normale rotazione di unità, in attesa di tornare a colpire
duramente. Nel frattempo, continuano i bombardamenti nel Paese, e il
baricentro del conflitto si sposta stabilmente a Mariupol, dove il corridoio umanitario annunciato da Emmanuel Macron è ormai “impossibile”.
Ore 9.07: Gas, indice europeo a +6%
La Germania attiva l’allerta preventiva del piano d’emergenza sul gas e
il prezzo cresce in un batter d’occhio. Il rischio di interruzioni nei
flussi dalla Russia, legato alla misura di Berlino, spinge i Future ad Amsterdam in rialzo del 6,1% a 115 euro al megawattora.
Ore 8.57: Germania, allerta preventiva del piano d’emergenza sul gas
Il ministro dell’Economia tedesco, Robert Habeck, ha annunciato l’attivazione dell’allerta preventiva sulle forniture di gas,
nel contesto della richiesta russa di pagamento in rubli. Parlando ai
giornalisti, ha detto che si tratta del primo di tre livelli di allerta e
comporta la creazione di una squadra di crisi al ministero per
intensificare il monitoraggio della situazione legata
all’approvvigionamento di gas. Habeck ha detto di aver preso la
decisione dopo che Mosca ha previsto l’approvazione di una misura per
chiedere il pagamento in rubli, nonostante i Paesi del G7 abbiano
rifiutato. Le riserve della Germania sono attualmente al 25% della
capacità, ha aggiunto.
Ore 8.52: “Nella notte bombe russe nel Donbass e Chernikiv
Nella notte, ci sono stati raid aerei praticamente in tutta l’Ucraina e ci sono stati bombardamenti nel Donbass, a Chernikiv e nella regione di Khmelnytsky: lo ha reso noto un consigliere del ministero dell’Interno ucraino, Vadim Denisenko.
Denisenko, riferisce l’agenzia Ucraina Unian, ha aggiunto che la
situazione a Chernihiv è molto difficile: “Ci sono stati bombardamenti,
le operazioni militari sono continuate”; così come molto difficile
rimane la situazione a Mariupol. Denisenko ha detto che
quasi tutta la notte nella regione di Kiev sul territorio vicino a
Irpen ci sono state operazioni militari. “Pertanto, per il momento, non
e’ possibile dire che i russi stanno riducendo l’intensità delle
ostilità nelle direzioni di Kiev e Chernikiv”. Secondo Kiev, alcune
unita’ militari russe con le relative attrezzature stanno rientrando nel
territorio bielorusso, ma “questo è più simile a una rotazione e a un
‘leccarsi le ferite’ che a una vera sospensione delle ostilità”.
Ore 8.36: “Attaccati 3 impianti industriali nella regione di Khmelnitsky”
I soldati russi hanno effettuato un attacco missilistico su 3 impianti industriali nella regione di Khmelnitsky. Lo ha reso noto il capo dell’amministrazione statale regionale di Khmelnytsky Serhiy Gamaliy,
precisando che gli incendi che sono sorti sono stati domati. Anche
martedì pomeriggio – ha ricordato Gamaliy – era stato lanciato un
attacco missilistico contro una struttura militare nella città di Starokostiantyniv.
Negli ultimi tre anni gli oligarchi ucraini sono stati i principali avversari interni di Zelensky.
L’inaspettata guerra con la Russia ha modificato gli equilibri del
Paese e i miliardari locali ora hanno scoperto di avere un interesse in
comune con il capo dello Stato: salvare il Donbass e le regioni confinanti al di qua del fiume Dnepr dall’invasore russo. Ma cosa c’è di straordinario in quei territori? Le enormi risorse naturali che tengono in piedi l’economia del Paese, e la maggior parte delle industrie sulle quali gli oligarchi hanno costruito un’enorme fortuna.
Il Donbass e le risorse naturali
Il Donbass è dunque il cuore industriale dell’Ucraina, una grande area mineraria e famosa per le riserve di carbone.
I giacimenti si trovano nell’Ucraina sudorientale e nella regione
adiacente alla Russia sudoccidentale. La zona più sfruttata copre quasi 23.300 km quadrati a
sud del fiume Donets, ma le riserve di carbone, stimate in 31 miliardi
di tonnellate (il 92,4% del carbone presente nel sottosuolo ucraino), si
estendono anche verso ovest fino al fiume Dnepr. Con il 35% delle attività minerarie e di estrazione, il 22% della produzione manifatturiera, il 20% di riserve energetiche e il 18% di riserve d’acqua il Donbass (formato dalle regioni di Donetsk e Luhansk, mentre la regione storica comprende anche l’oblast di Dnipropetrovsk) è da sempre una delle aree più ricche dell’Ucraina.
Nel 2014, prima che le autoproclamate Repubbliche di Donetsk e Lugansk
scatenassero il conflitto separatista su una linea del fronte di oltre
450 km, la regione nel suo complesso valeva il 14,5% del Prodotto interno lordo della nazione (circa 20,7 miliardi di euro) e produceva il 25% delle esportazioni. L’impatto della guerra «a bassa intensità» è stato tragico: in sette anni circa 14 mila vittime, migliaia di imprese hanno chiuso, la produzione industriale è crollata del 70%, strade e linee ferroviarie distrutte e un inquinamento sei volte la media nazionale. Un
rapporto dell’Istituto di studi economici internazionali di Vienna
stimava nel 2020 il costo minimo della ricostruzione in 21,7 miliardi di
dollari. Nonostante la guerra, nel 2017 le esportazioni dalla regione raggiungevano ancora il 10% del totale dell’Ucraina, e Mariupol era la base della grande industria siderurgica del Paese.
L’aggressione russa all’Ucraina ha
tolto la maschera a molte ipocrisie, sta obbligando molte teste girate
dall’altra parte a guardare dritto davanti a sé. A guardare in faccia
chi è Putin, che cosa è il suo sistema di governo e di valori
C’è voluta l’aggressione della Russia all’Ucraina per ricordarci che cosa vuol dire una dittatura. Per ricordarlo all’opinione pubblica europea e in particolare a quella italiana.
Infatti dopo il crollo dei regimi comunisti e dell’Unione Sovietica
trent’anni fa abbiamo pensato che più o meno dappertutto — sia nel
nostro Continente che nei principali Paesi del mondo — si fossero ormai
stabiliti dei regimi grosso modo somiglianti a quelli esistenti dalle
nostre parti.
Magari
con qualche dose di libertà in meno, con un po’ meno libertà di stampa o
di riunione, magari con elezioni non proprio irreprensibili come quelle
a cui siamo abituati noi, ma insomma pur sempre dei regimi dove vivere
sicuri era possibile, dove lo Stato non era il padrone di fatto della
vita dei suoi cittadini come accadeva ai tempi di Stalin o di Mao. A
rafforzare una tale idea ha contribuito non poco l’apertura del mondo
che era stato comunista di stretta obbedienza marxista-leninista alle
imprese capitalistiche, alle loro logiche e ai loro affari: al mercato
come si dice. Un’apertura simboleggiata dall’ingresso all’inizio
degli anni 2000 della Cina nel Wto, l’Organizzazione mondiale del
commercio. La falsa equazione liberismo economico=liberalismo politico
ha fatto chiudere gli occhi a molti. E così ci siamo convinti che in
pratica fossero ormai rimasti solo il radicalismo islamista, i talebani o
per altro verso gli ayatollah, aggiunti a qualche oscura tirannide
africana, a rappresentare nel mondo la dittatura, la negazione della
libertà. Con il tempo pure la feroce persecuzione dei cristiani
praticata in Pakistan o le infornate di decine di esecuzioni capitali
alla volta da parte dell’Arabia Saudita non ci sono apparse degne più di
tanto della nostra attenzione. E infatti abbiamo considerato del tutto
normale che molti nostri illustri e meno illustri statisti si recassero
regolarmente a Riad o a Pechino, o dove altro fosse, a illuminare quei
governi con il loro alto pensiero: naturalmente dietro un congruo
compenso di migliaia di dollari.
Nel corso degli anni molti rapporti politici ed economici con tutta una serie di Paesi sono stati sempre più improntati a un’estrema disinvoltura.
A un voluto oblio di che cosa fossero i regimi di quei Paesi. Quanti
deputati italiani, ad esempio, in tutto questo tempo si sono recati in
Russia felici di essere accolti con tutta l’attenzione del caso ma
dimentichi che talora le camere d’albergo hanno occhi e orecchie?
indifferenti al fatto che ci sono molti modi per non far disperdere al
vento le parole di una conversazione e che non c’è bisogno di una
ricevuta debitamente firmata per provare l’esistenza di un contributo
alla causa? Allo stesso modo in tanti hanno continuato tranquillamente a
fare affari con la Cina fingendo di non sapere che in ogni consiglio
d’amministrazione di qualunque azienda cinese siede un funzionario del
Partito comunista e che il principale obiettivo del sistema industriale
di quel Paese, quando allaccia rapporti con aziende straniere, è
impadronirsi del loro know how tecnico; fingendo di non capire quale
feroce messaggio fosse contenuto nella richiesta di perdono a cui furono
a suo tempo obbligati Dolce&Gabbana per espiare la terribile colpa
di aver scelto una pubblicità sgradita a Pechino; fingendo di non vedere
la sorte riservata a Hong Kong: mirabile esempio di come il Celeste
Impero divenuto rosso intenda il rispetto degli obblighi internazionali
da lui stesso sottoscritti.
di Lorenzo Cremonesi, Andrea Nicastro, Marta Serafini, Giusi Fasano, Paolo Foschi
Le notizie di mercoledì 30 marzo
sulla guerra minuto per minuto: dopo il quarto round di negoziati a
Istanbul, in Turchia, Mosca ha fatto sapere che non si tratta di un
cessate il fuoco, ma di una «riduzione delle attività militari»
• Siamo arrivati al 35esimo giorno di guerra. • Nella giornata di ieri, martedì 29 marzo, si è concluso il quarto round dei colloqui tra Mosca e Kiev a Istanbul. Mosca ha parlato di una «riduzione significativa delle attività militari
a Kiev e Chernihiv», ma ha precisato che «non si tratta di un cessate
il fuoco»; l’Ucraina ha presentato proposte dettagliate sulla sua
neutralità Stati Uniti, Unione Europea, Gran Bretagna e — ora — Ucraina
sono scettici sulle reali intenzioni di Mosca. • Sempre ieri il
presidente francese Macron ha raggiunto al telefono Putin (gli avrebbe
chiesto che «i nazionalisti depongano le armi a Mariupol») e ha preso
parte a un vertice telefonico con gli altri leader Scholz, Draghi, Biden
e Johnson. • Forte tensione nel governo italiano sul Dl Ucraina,
oggi in Aula al Senato: ieri c’è stato un lungo e teso confronto tra
Draghi e Conte, e non è chiaro se i 5 Stelle daranno il loro appoggio
all’aumento delle spese militari al 2% del Pil come promesso dall’Italia
ai partner della Nato.
***
Ore 8.45 – Il preallarme tedesco sul gas La Germania ha attivato il primo livello di allarme sulle
forniture di gas: a dirlo è stato il ministro dell’Economia di Berlino,
Robert Habeck. Si tratta del primo dei tre livelli dell’emergenza
energetica, ed è un livello contemplato dai piani di tutti i Paesi:
solitamente si parla di «preallarme», «allarme» ed «emergenza».
Il livello di allarme nel quale la Germania si trova ora è lo stesso
nel quale l’Italia si trova da settimane: prevede monitoraggio più
attento dei flussi di gas e la possibilità di attuare soluzioni «di
mercato» per massimizzare l’afflusso di gas (ad esempio, si chiede agli
importatori di massimizzare le importazioni).
Ulteriori misure possono essere prese nei livelli di allerta
successivi: un Paese può chiedere di fermare le forniture ai clienti che
hanno accettato contratti con clausole di interrompibilità (ad
esempio, industrie che magari possono usare energie diverse dal gas),
ridurre la temperatura e gli orari di riscaldamento in uffici pubblici o
esercizi commerciali e, come ultima misura, intervenire sul
razionamento delle forniture ai privati.
La Germania ha comunicato di avere al momento i serbatoi di stoccaggio pieni al 25% (la percentuale, in Italia, è più alta).
L’allerta è scattata perché domani, 31 marzo, la Russia dovrebbe
implementare la misura annunciata da Putin: il gas dovrà essere pagato
in rubli. Una condizione che i Paesi occidentali considerano una
inaccettabile violazione dei termini contrattuali.
Ore 8.20 – Le esplosioni a Kiev (e in un villaggio russo vicino al confine) «Non è un cessate il fuoco», avevano specificato dal governo
russo, raffreddando le speranze sorte dopo l’annuncio di una «drastica
riduzione delle attività militari» a Kiev e Chernihiv. E cessate il
fuoco non è stato: Kiev ha vissuto un’altra notte con il suono delle
sirene e le esplosioni dei colpi di artiglieria, ai margini della città.
Un’altra esplosione — da seguire, come indicato già nelle scorse ore
da Guido Olimpio, sul Corriere — è avvenuta a Oktjabrskij, un villaggio
nella regione russa di Belgorod, a una manciata di chilometri dal
confine con l’Ucraina. La causa delle esplosioni non è stata ancora
accertata, ma a prendere fuoco sarebbe stato un deposito di munizioni.
Ore 8.00 – La strategia degli Stati Uniti è cambiata? (Luigi Ippolito) «Ci sono
due ragioni per pensare che la fine è in vista e una ragione per
pensare di no», dice lo storico britannico Niall Ferguson al Corriere.
«Le ragioni per il primo scenario sono che i russi chiaramente hanno un
problema: la misera performance delle loro forze e le pesanti perdite
subite, cui si aggiungono problemi logistici difficili da risolvere.
Dunque l’annuncio che si focalizzano sul Donbass non è stata una
sorpresa. La seconda ragione è che Zelensky continua a segnalare la
volontà di trovare un accordo basato sulla neutralità dell’Ucraina».
E invece dove sta il problema? «Il problema sono gli Stati Uniti:
perché l’Amministrazione Biden si è imbarcata in una strategia che punta
a prolungare a la guerra, nella convinzione che questo porterà a un
cambio di regime in Russia. La cosiddetta gaffe di Biden non era affatto
una gaffe».
Ore 7.50 – Ma perché Russia e Ucraina proteggono Abramovich? Quale ruolo sta giocando Roman Abramovich? E in quale campo sta?
Le domande su che cosa stia facendo esattamente l’oligarca russo — che
sembra «protetto» sia dall’Ucraina sia dalla Russia, e che ieri, per
l’ennesima volta, era presente ai negoziati tra i due Paesi —
continuano: così come quelle sul suo presunto avvelenamento (svelato da
Wall Street Journal e Bellingcat, ma sul quale Stati Uniti e Russia, con
accenti diversi, smentiscono o affermano di non avere prove). Marco Imarisio prova, qui, a indagare.
Ore 7.45 – Il Donbass, spiegato da Milena Gabanelli Nelle scorse ore, il governo russo ha chiarito di voler
«concentrare» la sua attività militare per raggiungere l’obiettivo della
«liberazione» del Donbass — cioè la sua completa occupazione. Ma perché
la Russia vuole quella regione? E perché l’Ucraina non ha intenzione di
lasciarla? C’entrano le risorse naturali, la posizione strategica e i
rapporti tra Zelensky e gli oligarchi: spiega tutto Milena Gabanelli nel suo Dataroom, qui.
Ore 7.30 – Cosa sta succedendo al governo, in Italia (Luca Angelini) Cosa sta
succedendo nel governo italiano? In estrema sintesi: il Movimento 5
Stelle, partito che appartiene alla maggioranza che sostiene l’esecutivo
guidato da Mario Draghi, ha espresso fortissime resistenze circa la
volontà del premier di aumentare — come concordato con i partner della
Nato — le spese militari per raggiungere l’obiettivo del 2% del Pil.
Nella giornata di ieri, Draghi ha incontrato il leader del Movimento,
Giuseppe Conte, per cercare di arrivare a una sintesi: ma l’incontro è
andato molto male.
«Se si mettono in discussione gli impegni assunti viene meno il
patto che tiene in piedi la maggioranza», ha detto Mario Draghi: e il
vertice è «finito così male — scrive Monica Guerzoni
— che il premier ha ritenuto necessario salire al Quirinale e riferire a
caldo, a Sergio Mattarella, quanto a rischio sia il destino del governo
in un momento tragico per l’intero Occidente». (Qui i retroscena dell’incontro).
Il leader del M5S ieri sera, alla trasmissione tv DiMartedì, ha
negato di voler aprire una crisi di governo. Ma, come nota Massimo
Franco, «lo smarcamento gridato sull’aumento delle spese militari è un
indizio della volontà di logorare e di tirare la corda a intermittenza».
Tanto che, anche nel Pd, è sempre più forte «il sospetto che i
Cinque Stelle siano tentati di arginare il progressivo crollo elettorale
e nei sondaggi recuperando le parole d’ordine del passato; e che il
rinculo identitario prevalga su tutto».
Oggi il decreto Ucraina arriva in Aula al Senato e l’interrogativo che scuote la maggioranza è cosa faranno i 5 Stelle, se e quando Draghi porrà la fiducia.